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Autore: ___Page    10/09/2018    5 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Righe o foglie? Righe o foglie?
Mi fisso allo specchio, in camera di Koala e Law, con ancora addosso la mia roba di casa, portando alternativamente davanti al mio corpo i due vestiti.
Righe o foglie?
Ho i capelli già sistemati, un filo di mascara per mantenere la promessa fatta alle ragazze, la piccola tracolla in cui non so nemmeno io come ho fatto a farci stare qualcosa di più del telefonino – pochette sportiva l’hanno chiamata loro – è già pronta e ho già deciso per i sandali comodi.
Sono pronta, in pratica, devo solo scegliere il vestito. Fosse facile.
Righe o foglie?
Non ho la più pallida idea di cosa faremo oggi, ragion per cui, forse, dovrei solo fidarmi dell’opinione di Reiju sulla presunta versatilità del vestito a righe e mettere quello. L’abito lilla a stampa tropicale mi sembra anche abbastanza elegante, troppo per questa occasione ma non è come se io ci vedessi molto di sportivo nell’altro.
Non è che come se io ci capissi qualcosa.
Righe o foglie?
La verità è che, fosse per me, non metterei né l’uno né l’altro. Con sofferenza mi giro verso il muro che divide le due camere. Penso con desiderio ai miei jeans e al vogatore con il gattino stilizzato. Non è che siano più comodi, con il caldo che c’è oggi proprio no. Questo è leggero e freschissimo, largo il giusto. Ma se poi è troppo? Non posso proprio mettermi la mia t-shirt?
Ish quel gattino sembra che stia pensando “Ti troverò e ti ucciderò”.
La voce di Aisa risuona nella mia testa e mi scappa da ridere. Porca miseria, sul momento mi sono indignata però cavolo se ha ragione. Certo, non mi ero mai posta il problema visto che la tengo sempre nascosta sotto la divisa al lavoro.
Righe o foglie?
Forse dovrei mettere la gonna lunga nuova e buonanotte al secchio. Santo cielo! Com’è possibile che a ventisette anni io sia così socialmente disfunzionale da non ricordarmi nemmeno più come ci si veste per una giornata così?   
Metti quello a righe. Ti piace come ti sta.
E se poi è troppo?
Non è troppo! Sembri una persona famosa in vacanza, te l’ho detto. E poi è perfetto per un appuntamento.
«Non è un appuntamento» protesto.
È ufficiale, sto diventando pazza.  
Il rombo di un macchina fuori in strada mi fa sobbalzare, c’è uno stridere di gomme in frenata e poi: «Ma la pianti di fare il deficiente?» Sabo grida dalla cucina verso l’esterno.
«Suonare il clacson per annunciarmi era troppo mainstream, Sabo!»
Oddio sono arrivati. Sono arrivati, devo decidere, devo decidere!
Merda.
«Ehi Ish?»
«Sì?» mi giro di scatto verso la porta, la voce acuta.
Sabo si sporge dal corridoio, incerto se entrare o meno per lasciarmi la mia privacy. Cerco di captare com’è vestito nella speranza che mi dia un qualche aiuto nella scelta.
Bermuda e polo. Cos… cos’è, sportivo? Casual elegante?
«Se vuoi li faccio entrare un attimo»
«Oh no, no, no! Sono… sono pronta!» annuisco convinta. «Devo solo mettermi questo… ecco…» tentenno, sollevando prima il vestito a righe e poi quello con le foglie. Ishley, ma che stai facendo?!
«Quello a righe» risponde senza esitazione. «Cioè secondo me eh. A vederlo così, ho l’impressione che ti stia benissimo» mi sorride e il cuore mi perde un battito.
«Grazie» soffio a malapena.
«Figurati. Allora io…» indica con tutti e due i pollici «…ti aspetto in salotto »
«S-sì» scuoto il capo per tornare in me. «Mi cambio e ci sono» sorrido a mia volta.
Mi rigiro verso lo specchio e porto un’ultima volta il vestito a righe davanti alla mia figura.
“Ho l’impressione che ti stia benissimo”.
Sorrido anche al mio riflesso. «Okay, andata»
 

 
***

 
«Quando ti deciderai a ingrassare un po’?» si lamenta acido, fermo sulla porta, fissando contrariato la mia pancia.
«Anche io sono felice di vederti» gli dico ridendo, facendomi strada da sola in casa di Nami. «Secondo Gerth tra un paio di settimane dovrebbe iniziare a vedersi qualcosa»
Izou richiude la porta e mi si avvicina per darmi un bacio sullo zigomo, circondandomi il collo con il braccio. «Oggi ti riesci a fermare di più?» mi domanda speranzoso. «Come venerdì scorso»
Lo stringo di rimando, facendo sgusciare le mie braccia intorno al suo collo. «Oggi sono tutta tua» gli sorrido, già pronta a godermi la sua reazione che non mi delude quando mette su un’espressione disgustata.
«Oh Koala, ti prego! Non suscitarmi certe immagini, sai che ho una fervida immaginazione e… brrr» scrolla le spalle, come se avesse appena visto una blatta gigante e io non mi faccio menate a ridergli in faccia.
Mi sposto in salotto, dove una brocca di the alla pesca ghiacciato e due bicchieri mi stanno già aspettando, come il mio migliore amico, sullo stesso tavolo dove sono sparsi fogli, gomitoli e dov’è montata la macchina da cucire.
«Ero impegnato con gli esercizi che mi ha dato Nami per imparare» mi spiega, avvicinandosi alla brocca. «Un po’ di the?» propone.
«Sì grazie» annuisco e intanto mi avvicino a sbirciare i nuovi bozzetti. «Vedo che l’ispirazione sta facendo gli straordinari» aggrotto la fronte quando mi accorgo che i fogli si stanno moltiplicando a vista d’occhio. «Credevo dovessi portare solo otto pezzi a Dressrosa»
«Infatti per quello ti ho chiesto di venire qui» mi porge il bicchiere di the. «Devi aiutarmi a scegliere»
Lo guardo un istante, cercando di mascherare lo stupore. Izou non è il tipo da chiedere apertamente aiuto. Ti fa capire se ne ha bisogno, a modo suo, finge fastidio quando accorri e alla fine ti ringrazia in qualche modo, sempre a modo suo. Nemmeno a me, la sua migliore amica, ha mai chiesto aiuto in modo così diretto, tranne il giorno del suo matrimonio, nel bel mezzo di un attacco di panico però, prima che Robin e Nami mi trascinassero via, tra l’altro.
Fingo di studiare i bozzetti. Non è un caso che sia così fervido di idee. Non è semplice ispirazione è anche un bisogno viscerale di tenersi impegnato, di tenere la testa impegnata.
È che gli manca Marco. Lo vedo dai suoi movimenti stanchi e trattenuti, dal sorriso tirato, dalle occhiaie malcelate, dagli schizzi che ho in mano. Sto seriamente per aprire il vaso di Pandora e lanciare la bomba del “perché non lo chiami?” quando mi trovo a fissare il foglio delle idee per gli abiti pre-maman.
Secondo Izou, saranno il suo cavallo di battaglia. Spera, e a ragione, che nessuno degli altri cinque finalisti abbia pensato anche “a tutte quelle future mamme che non vogliono rinunciare a sentirsi sexy e chic”.
Bisognerà scegliere con cura gli indumenti prescelti per non togliere spazio a qualche altro pezzo fondamentale della collezione e, con la stessa deformazione professionale con cui potrei scegliere il font per un logo o un accostamento di colori, mi metto a valutare le proposte di look tracciate da Izou, finché non mi soffermo sull’abito in basso a sinistra, che attira la mia attenzione per due ben precisi motivi.
È l’unico di tutto il foglio che vorrei indossare ed è incoerente con il resto della collezione.
Gli abiti proposti da Izou sono semplicemente spettacolari, sono di un altro pianeta. Li trovo bellissimi ma su di me non renderebbero giustizia al loro creatore. Questo invece, sembra disegnato apposta per me, è nel mio stile ma non perde assolutamente il tocco inconfondibile di Izou. Si capisce che è una sua creazione, o per lo meno, lo capisco io che da qualche giorno ormai studio e valuto i suoi disegni eppure con ciò che vuole presentare a Dressrosa non si amalgama. Purtroppo, perché se dovessi seguire il mio istinto di donna gli direi di scegliere questo senza pensarci due volte.
Ma sono qui in veste di amica e consulente e il mio compito è ben diverso.
«Izou, questo è fantastico ma non c’entra molto» gli faccio notare, cauta quanto basta.
Lui si avvicina perplesso e mi sembra di sentirlo trattenere appena il fiato quando vede cosa gli sto indicando. Mi strappa il foglio di mano. «No infatti quello non c’entra, non… non farci caso è solo un disegno che ho fatto così tanto per…» farfuglia, facendomi preoccupare.
Che gli prende di punto in bianco?
«Izou che cos…»
La porta d‘ingresso che si spalanca mi interrompe.
Entrambi ci giriamo verso la porta aperta del salotto, che da sul corridoio e di fronte a cui appare una figura imponente, sormontata da una testa verde che, ahimé, conosco molto bene.
Zoro apre un cassetto del mobile del corridoio, cerca qualcosa con movimenti concitati, del tutto ignaro di noi finché Izou non si schiarisce sonoramente la gola e lui si immobilizza, raggelato. Come un criminale colto con le mani nel sacco.
Con calcolata lentezza si volta verso di noi, una punta di sorpresa lo tradisce, quando mi vede.
«Oggi che hai dimenticato?» chiede Izou, le mani sui fianchi. «A parte il tuo senso dell’orientamento»
Zoro non stacca subito gli occhi dai miei per puntarli su Izou. Sa. Lui sa che non ho detto niente a Nami dell’ospedale. «Il portafogli» risponde alla fine, stirando un ghigno per la battuta. «Ma vado subito che se no faccio tardi. Ci vediamo stasera Izou. Koala» ci saluta e così com’è arrivato, di fretta e in silenzio, se ne va.
Resto a fissare per un po’ il punto dov’era Zoro un secondo fa, lo stomaco stretto dalla preoccupazione.
«Capita spesso?» domando a Izou che, intanto, si è seduto sul divano e sta cercando di sistemare i bozzetti secondo un qualche criterio. «Glielo hai chiesto come se non fosse la prima volta che torna indietro per qualcosa che ha dimenticato»
«È già capitato due o tre volte» Izou si stringe nelle spalle. «Sinceramente lo trovo un po’ strano ma sai, Zoro è tutto strano!»
«E Nami che ne dice?» chiedo ancora, afferrando il bicchiere di the per poi andare a sedermi accanto a lui.
Lui mi guarda perplesso. «Mica ne parliamo!»
«Cioè non le hai mai detto che Zoro è tornato a casa da solo in orario di lavoro per prendere qualcosa che si era dimenticato la mattina?» pretendo una conferma, accigliandomi.
Non si accorge che qualcosa non torna? Che sembra esserci sotto qualcosa che puzza?!
«Oh ma va che la gravidanza ti fa male!» mi ammonisce mentre mi squadra da capo a piedi. «Nami lo saprà, mica glielo devo dire io e nemmeno sono affari miei» mette in chiaro e un sorriso, mio malgrado, mi piega le labbra.
«Izou Wano che ritiene che qualcosa non siano affari suoi? Che cosa ti è successo?»
«Assolutamente niente, non trattarmi come una pettegola!» si altera lui, la voce nasale. «E comunque non è mica una cosa grave, non è come se Zoro la tradisse… no?!» minimizza ma non fatico a percepire il nervosismo in quel “no” che mi chiede una disperata conferma.
«Ovviamente!» rispondo subito. «Non potrebbe mai.  È pur sempre di Zoro e Nami che parliamo» lo rassicuro e lo penso davvero.
Sono davvero convinta che non sia niente del genere e che non potrebbero mai farsi una cosa del genere l’uno con l’altra. Mi giro di nuovo verso la porta del salotto e prendo un sorso di the per sopprimere un sospiro.
Sono certa che non sia niente del genere.  
Ma allora che cosa stai combinando Zoro?
 

 
***

 
«Eccomi ci s...» faccio per annunciarmi mentre entro in salotto ma mi blocco quando lo trovo deserto.
Strano, ha detto che mi aspettava qui.
Giro su me stessa per sbirciare che non sia magari in cucina e nel farlo una folata di vento mi porta delle risate e due voci maschili attraverso la porta di casa aperta.
Mi avvicino curiosa e un po' tesa. Sabo è fuori che chiacchiera con suo fratello e sua cognata e io mi prendo un momento per studiarli. Ace, mi sembra, è appoggiato di terga alla sua Firefist rossa fiammante, e riesco a vederlo molto bene. Un metro e ottanta e spalle antisommossa, parla con un sorriso strafottente sulla faccia lentigginosa – Anche lui! Pazzesco! – e quell'aria da anima della festa, che è un attimo e si trasforma in coglione del gruppo per averne detta una di troppo. Ha una mano in tasca e l'altra possessivamente avvolta intorno alla vita della fin troppo minuta ragazza al suo fianco. Fin troppo minuta per lui, intendo, mi domando come faccia a non spezzarla.
Perona, se non ricordo male, non è molto più alta di me, ma ha quel fisico longilineo che a quindici anni mi sono rassegnata di non aver ereditato da mamma, senza anche sporgenti e seno esplosivo – non che non mi piaccia, ora, ma ci è voluto del tempo per imparare ad apprezzarmi –. I capelli lunghi fino a sotto le spalle, non una ciocca fuori posto o crespa, di un caldo, uniforme e goloso rosa fragola. Provo un'ondata di puro sollievo quando vedo che anche lei indossa un vestitino nero a pois bianchi e sandali raso terra, sulla spalla uno zainetto di pelle nera incrostato di spille di ogni dimensione.
Sono stupendi. Lei scoppia a ridere per non so cosa ha detto lui e si aggrappa al bavero della sua camicia gialla – con un disegno di fiori e palme così psichedelico che non so come fa a portarla senza sembrare ridicolo, eppure lui ci riesce – e lui si china a darle un bacio sulla fronte e io vorrei avere con me la mia Reflex per immortalare il momento.
Che stupida sono stata a riportarla a Waterwheel l'ultima volta che sono andata a trovare mamma e papà.
Li sto ancora fissando, per provare a immortalare quest’attimo almeno nella mia mente, che Ace gira gli occhi verso di me e mi indica con un cenno del mento, dicendo qualcosa a Sabo. Lui si volta e mi sorride e a passo svelto torna verso casa, si ferma di fronte a me e mi guarda con attenzione dall’alto verso il basso.
«Tutto bene?»
«Certo. Ora ci sono» annuisco e annuisce anche lui, poi si allunga oltre me per chiudere la porta e una zaffata del suo dopobarba mi investe.
Non è un profumo particolare, sa solo di pulito ma a malapena resisto all’impulso di chiudere gli occhi e inalare. Le chiavi schioccano tre volte nella serratura.
«Dai, vieni che te li presento»
Mi aggrappo con le mani al filo sottile della tracolla che mi attraversa il busto in obliquo. Eccolo lì, l’incubo che diventa realtà. Il momento delle presentazioni. Stavolta è la voce di Praline a suonarmi in testa.
“Tu non facevi amicizia così a vent’anni?”
Ho glissato sulla questione quella volta ma la verità è che no, io non facevo amicizia così a vent’anni. Né prima. Né dopo. Io non so come si fa amicizia.
Nella mia vita mi sono sempre trovata in situazioni dove, per forza di cose qualcuno con cui andare d’accordo lo trovato. A scuola, a danza, all’università, al lavoro. Le persone mi sono sempre capitate.
Ma amici su cui contare, a cui raccontare i miei segreti, con cui sfogare le mie paure e le mie delusioni. Con questo genere di cose sono sempre stata un disastro.
Non piacevo nemmeno agli amici di Drake, troppo diretta, dicevano, senza filtri. Un paradosso, non riuscire a farsi amici perché si è troppo socievoli e ci si prende confidenza troppo in fretta. Ripensando poi a come si sono trovate Reiju e Aisa lo capisco ancora meno e mi trovo finalmente incline a dare peso alle parole di zia Cinnamon, quando mi assicurava che il problema era che Waterwheel era troppo piccola e di mentalità chiusa per una come me, che in una grande città sarebbe stato diverso. Ho sempre creduto fosse per tirarmi sul il morale ma ora mi rendo conto che aveva ragione.
Se ripenso al mio primo incontro con Sabo – quello ufficiale, a casa – non posso negare che sia stata la prima volta da tantissimo tempo in cui sono stata me stessa, senza filtri, senza maschere per sondare il terreno prima di azzardarmi, come invece ho fatto con Law e con Praline. Forse anche perché, lo ammetto senza vergogna, dopo che mi era svenuto davanti come una pera cotta cosa si poteva aspettare?
«Eccoci qua» annuncia Sabo, le mani sui fianchi e il petto appena un po’ in fuori. Sembra quasi orgoglioso e io gli lancio un’occhiata perplessa. «Lei è Ishley»
«Finalmente possiamo dare un volto al tuo nome!  Non se ne poteva più di stare a sentire Sabo parlare di te senza nemmeno riuscire a immaginarti. Io sono Perona, comunque» mi tende la mano lei per prima e io ci metto un attimo a reagire, perché non credo di aver capito bene ma forse sta dicendo che Sabo parla continuamente di me?
«A quanto pare dei fratelli Monkey hai conosciuto solo quelli meno affascinanti finora» si fa avanti lui.
«Ace» Sabo lo ammonisce subito ma la mia bocca è già partita a briglia sciolta.
«Sì, non ho ancora avuto modo di conoscere Rufy in effetti» gli sorrido sardonica, mentre stringo la mano anche a lui che rimane per un attimo attonito e senza parole.
Un brivido mi scuote.
Oddio. Oh merda. L’ho fatto di nuovo.
Adesso verrà fuori che non la intendeva come battuta, che il fratello di Sabo non è come lui – anche perché non sono fratelli di sangue, no? – e che si è offeso e io ci tenevo così tanto a piacergli, perché sono i parenti di Sabo e…
«Sono allibito. Neanche dieci secondi e ti ha già messo al tappeto Portuguese» commenta Sabo ancora al mio fianco e intanto un sorriso ammirato si apre sul viso di Ace.
«Ma dove l’hai trovata? Mi piace!»
«Ha battuto qualsiasi record»
«Sentite» prende parola Perona, il tono autoritario e intanto si sposta  accanto a me. «Io mi siedo dietro con lei, Che già non ho voglia di stare in mezzo mentre voi bisticciate a colpi di testosterone e poi noi due dobbiamo conoscerci meglio»
«Esatto!» esclamo e poi faccio un bel respiro. «Anche perché noi due siamo destinate a diventare grandi amiche, giusto Perona?» mi giro a guardarla, spero non si noti lo sguardo implorante.
«Puoi dirlo forte, Ishley» annuisce lei e il primo sorriso rilassato della giornata si apre sul mio volto.
Ace ghigna divertito e rivolge a Perona un’occhiata così innamorata che poco ci manca che mi sciolgo anche io solo ad assistere. «Allora, andiamo!» batte le mani. «Su, senza indugio, salite!»     
Non ce lo facciamo ripetere due volte. Apro la portiera posteriore più vicina a me, il posto dietro al guidatore, mentre Sabo e Perona fanno il giro. «Vedrai, ti piacerà un sacco» mi rassicura Perona, agganciando la cintura. La osserva meglio seduta accanto a me, lei e il suo abbigliamento. Quelli sul vestito non sono pois. Sono teschietti.
Credo di adorarla.
«Hai portato la lista?» chiede Sabo mentre Ace sfreccia lungo la strada, i finestrini abbassati per metà per far girare l’aria.
«È nel cruscotto. Ma le ho portate tutte e due perché non sapevo se serviva quella corta o quella lunga»
Mi sporgo appena, incuriosita. Sabo sta estraendo dal cruscotto due fogli piegati.
«Quella corta, quella corta» conferma Sabo. «Le cose principali da turista le ha già viste»
«E allora è quella lì» Ace indica la mano sinistra di suo fratello. Sabo mette via il foglio che tiene nell’altra mano e apre quello segnalato e poco ci manca che mi strozzo con la mia stessa saliva.
Non è un foglio, sono tre e scritti fittissimi! Quella sarebbe corta?! E poi sono le cose che dobbiamo fare oggi?! Come si fa in una sola giornata?
«Non preoccuparti, loro ci riescono. Credo che abbiano una giratempo nascosta da qualche parte» ridacchia Perona. La studio ancora un momento, gli occhioni neri e languidi, il rossetto rosso e la voglia sincera di saperne di più di lei mi travolge
«E tu cosa fai nella vita?»
«Oh beh io…»
 

 
§

 
«Ma la conosco» faccio presente a Sabo mentre avanziamo nella Piazza del Patibolo. «È l’arrivo della parata dell’Oro Jackson Day» ne approfitto per sfoggiare quel po’ di cultura rafteliana che mi sono fatta in questi anni. E se non fosse per la parata ammetto che non la conoscerei. È piccola, con un nome poco attraente e un vecchio patibolo che è sufficiente vedere da lontano perché tanto alla fine è solo, appunto, un patibolo.
«Sì certo, ma ci sei mai venuta quando non è l’Oro Jackson Day?»
«Sei mai salita sul patibolo?»
«Hai mai provato i ceppi di Gol D. Roger?»
Domandano alternativamente Sabo e Ace. E alternativamente io li guardo, a occhi socchiusi.
«Credevo stessimo facendo un giro di Raftel non registrando uno di quei programmi televisivi presentati da una coppia di esperti che si crede simpatica a fare alla telecamera domande a cui si accinge a rispondere»
«Ah! Due a zero con te» Perona indica Ace, sommamente divertita. «E uno a zero con te» indica Sabo che incassa e poi si dedica di nuovo a me.
«Si dice, qui a Raftel, che se provi i ceppi di Gol D. Roger ti si allunga la vita di sette anni»
«Certo poi per ogni takoyaki di Hachi ti si accorcia di quattro perciò il calcolo non è molto a favore, però…» Ace ondeggia le mani come fosse una bilancia e intanto siamo arrivati alle scale che portano sulla struttura di legno. Quando mi giro per salire mi ritrovo a guardare la mano di Sabo che ha già salito un paio di gradini.
«Allora li vuoi provare?»
Afferro la sua mano, un piede già sul primo gradino. «E me lo chiedi?»
 

 
§

 
«Ecco qua» annuncia Sabo, tornando carico dal chiosco al tavolo che, non so per che miracolo, siamo riusciti a trovare all’ombra.
«Il vassoio per Ishley, quello per Perona, il vassoio della vittoria, Perona te lo affido…» le dice posando un altro contenitore di cartone accanto al suo, per poi sedersi sulla panca, accanto a me di fronte a suo fratello. «E i nostri. Allora…» si scrocchia le dita Sabo. «Sei pronto a farti stracciare fratello?»
Mi acciglio e cerco una muta spiegazione da Perona che mi tende due bacchette di legno e sospira sconsolata. «Fanno la gara a chi finisce per primo il proprio vassoio e chi vince, vince questo…» indica il vassoietto in più che le è stato affidato. «…a spese dell’altro. Eh lo so» sospira di nuovo quando sgrano gli occhi. «Sono anche disgustosi da guardare, mi spiace che tu debba assistere»
«Ma no, mica per quello. È che sono altri trentasei anni di vita in meno quelli» calco il tono scioccato e tutti scoppiano a ridere, me compresa.
«Oh beh ma prima di iniziare, dobbiamo assistere al battesimo della nostra Ish» annuncia Ace con aria solenne e non fosse che mi si è scaldato il cuore per quel “nostra”, troverei forse inquietante venire fissata da tre persone mentre mangio. Oggi sto scoprendo che il Castello non è affatto la massima fonte di stramberie della città. Afferro le bacchette con la destra e scoperchio la mia porzione da sei con la sinistra.
Afferro una polpetta e la studio. Il profumo è buono ma fin qui sembra una banalissima polpetta di polpo. Le do un morso e riesco a fare giusto due masticate prima di portarmi la mano alle labbra.
«Oh mio dio!» esclamo, bocca piena e occhi sgranati per sincero stupore. «Ma sono spaziali!»
Sabo e Ace scoppiano in grida di esultanza, Perona sorride e mi offre la bottiglietta dell’acqua, Sabo mi arruffa i capelli, Ace addirittura si mette ad applaudire.
«È una di noi!»
 

 
§

 
«Ace ma dove ti stai fermando?» si acciglia Sabo quando si accorge che la macchina rallenta.
«Tirate giù i finestrini alla vostra sinistra prego» ci invita Ace.
Guardo fuori curiosa ma non vedo nulla particolarmente degno di nota, c’è solo un piccolo parco che costeggia il marciapiede, nemmeno troppo ben tenuto con un piccolo parcheggio sterrato. «Signore questo è il luogo dove Sabo ha perso la vergin…»
«Ma deficiente di un coglione!» lo apostrofa Sabo, bloccandolo con un centra in piena nuca.
 

 
§

  
Fisso allibita la statua di bronzo che svetta di fronte a me. Santo cielo, non può essere vero. È identica a lui. Identica.
«Ma lui lo sa?»     
«Sì ma lo imbarazza» conferma Perona.
Santo cielo, è identica, è lui, è… è…
«È Usopp!»
«Usoland, il grande esploratore, prego» mi corregge Ace. 
«In realtà Usopp si chiama così in suo onore se non ricordo male» commenta Sabo. «Suo padre ha deciso quando ha visto il suo naso. Però se tocchi la punta del naso di Usoland, ti infonde coraggio mentre se tocchi quella di Usopp…»
«Gli infondi imbarazzo»
Scoppio a ridere e ancora non mi capacito di quanto sono identici, di cosa sto guardando. In effetti il bronzo sull’estremità del naso è molto più lucido. Peccato che non ci arrivo.
«Con permesso, signorina» una voce soffia al mio orecchio e un attimo dopo sono seduta sulla spalla di Sabo che mi solleva verso la statua. Afferro la sua mano con la sinistra per darmi più stabilità e con la destra mi sbrigo a strofinare il naso di Usoland prima che il movimento iperbolico mi riporti giù. Atterro senza troppe difficoltà, complici gli anni di danza e le braccia di Sabo che attutiscono la caduta e tra cui mi ritrovo, girata verso di lui. Solleva la testa e il suo naso quasi sfiora il mio.
Mi schiarisco appena la gola. «Grazie» mormoro, prima di staccarmi da lui.
 

 
§

 
«Quasi tutti vanno alla Sabaody Tower per vedere Raftel dall’alto ma qui dall’Elbaf Tree c’è una vista un po’ più… speciale, diciamo» mi avvisa Sabo mentre esco fuori sulla balconata in legno. Guardo in giù e osservo con occhi attenti, cercando di capire perché, cosa mi da l’impressione di stare guardando un’intera città dall’alto ma abbastanza vicino da captare la vita che la movimenta.
È difficile da spiegare. È come prima a Little Garden, la riproduzione in miniatura di Raftel, solo che questa è la città originale, è quella vera, con persone vere e vive che ci si muovono dentro.
«Tutta Raftel è stata costruita a partire da questo quartiere» mi spiega Sabo, addossato alla balaustra accanto a me. «Strutturalmente l’intera città è un insieme di isolati che riproducono questo, quindi praticamente chiunque sale qui pensa…»
«Ma questo è il mio quartiere» lo anticipo e lui si gira a guardarmi con gli occhi che brillano. Mi stringo nelle spalle. «È quello che ho pensato appena ho guardato giù» spiego.
Sabo annuisce e intreccia le dita. «Mamma ci raccontava che questa torre l’aveva costruita un gigante, per permettere agli umani di vedere il loro stesso mondo come lo vedeva lui»   
Lo guardo sorridere nella luce del tramonto. La voglia di passare una mano tra le sue ciocche in una carezza di conforto è quasi ingestibile ma per miracolo resisto. «Ti manca molto?» gli domando, sapendo già che è una domanda idiota.
Ma lui sorride ancora di più. «Da morire. Ogni singolo giorno. Ma sai…» si gira di spalle alla balaustra, appoggia i gomiti e mi guarda. «…raccontare le sue storie me la fa mancare un po’ meno. Come se fosse ancora qui con me»
Annuisco piano. «Sono storie bellissime. Mi piace tanto ascoltarle»
Mi fissa qualche secondo senza parlare, il vento che ci scompiglia i capelli e per un momento mi toglie il respiro. Sabo allunga la mano. «Andiamo. Abbiamo quasi finito»
 

 
§

 
Osservo Perona che cerca di scappare da Ace e dai suoi tentativi di bagnarla con la canna dell’acqua di proprietà del bar/chiosco di questo parco, ridendo e lanciando di tanto in tanto qualche urlo quando Ace riesce quasi ad afferrarla.
Sono sfinita fisicamente ma mentalmente mi sento ancora piena di energia, euforia, adrenalina. È stata una giornata pazzesca e vorrei non arrivasse mai al termine ma anche l’ultima riga della lista è stata spuntata, da me per sugellare il mio ufficiale benvenuto a Raftel. Con tre anni e mezzo di ritardo, ma che importa?
A non farmi sentire troppo malinconica è il solo pensiero che per ora Sabo e io stiamo ancora nella stessa casa, anche se si tratta di una situazione sempre più vicina alla fine. Mi giro a sbirciarlo nella penombra illuminata dai lampioni, anche lui stanco ma con lo sguardo bello acceso che fissa però il vuoto, perso in qualche pensiero. Mi appoggio allo schienale della panchina.
«Vuoi  dirmi che non hai nemmeno un aneddoto su questo parco, professor Clover?» lo prendo in giro, riferendomi al suo ruolo di Cicerone di oggi. Non c’è stato un solo posto dove mi hanno portata di cui Sabo non avesse qualcosa di interessante da raccontarmi. Un dettaglio, un episodio, un ricordo. Ed è stato stupendo, mi sento così mentalmente sazia e soddisfatta.
Sabo si scanta e si gira a sua volta a guardarmi, un sorriso gigantesco sul volto, recependo con un secondo di ritardo le mie parole. «Come? Oh… ehmmm…» si guarda intorno. «Beh sul parco no ma sulla panchina sì»
«Davvero?» lo provoco, appoggiando il capo sulla mano, consapevole che si sta per inventare qualcosa di sana pianta e ben contenta di starlo ad ascoltare.
«Certo» annuisce lui. «Questa è la panchina di chi aspetta. Se stai aspettando qualcosa e ti siedi su questa panchina e hai la costanza di non alzarti mai, quello che stai aspettando arriverà prima o poi. Ma deve essere una cosa importante e per cui vale la pena aspettare»
Lo studio, concentrata. Non so come fa a inventarsi queste mini-favole così in fretta, da dove le tira fuori. Deve essere il sangue di sua madre. Ed è bellissimo che di tanti aspetti possibili gli sia rimasto proprio questo.
«Uhm…» rifletto, rimettendomi dritta e incrociando le braccia, lo sguardo al cielo. «Secondo te aspettare che il mio salotto si ridipinga magicamente da solo dopo che gli operai avranno finito rientra nella categoria?»
Con la coda dell’occhio lo vedo intrecciare le dita sulla nuca e puntare a sua volta gli occhi al cielo. «Beh sì. Ma per quando avranno inventato una macchina che lo fa, temo che tu sarai morta. Però è figo, potrebbero intestarti la panchina. “Qui attese Ishley Habena, colei che non voleva dipingere”» annuncia con tono solenne e io scoppio a ridere.
«Ehi ragazzi, ragazzi!» Perona ci arriva davanti di corsa.
«Voodoo! Non lasciarmi qui!» chiama Ace. Io e Sabo ci giriamo e sgrano gli occhi quando lo individuo sdraiato a terra e legato come un salame con la canna dell’acqua, che per giunta gli zampilla in faccia.
Ma come ha fatto?!
Sabo mi lancia un’occhiata della serie “non chiedere, non indagare, meglio non saperlo” e tutti e due torniamo a rivolgerci a lei.
«Dicci» la invita Sabo, ignorando gli ululati di aiuto di suo fratello.
«Ho scoperto che al “La Bartad” stasera fanno serata danzante! Ci andiamo?» propone, gli occhi infiammati di entusiasmo. Un entusiasmo che contagia all’istante anche me.
Volevo così tanto che la serata proseguisse, stavo solo aspettando una scusa per proporre qualcosa e… Questa panchina funziona davvero!
Mi giro verso Sabo che si gira verso me e mi basta un’occhiata per sapere che stiamo pensando la stessa  cosa.
Dopotutto, la notte è ancora giovane.
  
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