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Autore: Adeia Di Elferas    11/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Non appena aveva ricevuto la lettera della Contessa Riario, Annibale Bentivoglio aveva spronato i suoi a camminare e cavalcare più in fretta che potessero.

In realtà la sua colonna in ritarata era molto più sgranata di quanto avesse voluto, ma le parole della Tigre erano assennate e caute e gli assicuravano che lei non avrebbe alzato un dito per intralciarli o colpirli. Aveva anche indicato la strada che avrebbero dovuto percorrere, in modo da essere certi di non incappare in imboscate o spiacevoli incidenti.

“I carriaggi sono quasi a mezza giornata di distanza da noi...” aveva provato a dirgli uno dei suoi secondi, quando il bolognese aveva dato ordine di accelerare ulteriormente il passo della cavalleria.

“Al diavolo – aveva risposto Bentivoglio, che, più di ogni altra cosa, voleva tornare nella Bologna di suo padre Giovanni e sentirsi di nuovo al sicuro – con i carri ho lasciato tutti i comandanti migliori che ho. Se non sono in grado loro di difendere quattro buoi...”

E così, senza porre altro indugio, il figlio del signore di Bologna aveva passato il confine e aveva sfilato in silenzio lungo la cinta muraria di Forlì, sotto l'occhio vigile della Tigre.

Annibale, scorgendo una donna ritta in piedi sui camminamenti, in cima alla porta cittadina – che era stata chiusa, probabilmente per dimostrare che la fiducia verso di loro c'era, ma solo fino a un certo punto – capì subito che dovesse essere lei.

Circondata da alcuni arcieri e da altri armigeri, la Contessa se ne stava immobile e silenziosa, lo sguardo rivolto verso di lui, i capelli lunghi e chiarissimi – bianchi, praticamente – smossi dal vento freddo di quella mattina di dicembre.

Il Bentivoglio, comunque, non si prese la briga né di farle un cenno di saluto, né di rallentare la corsa del suo cavallo. L'unica cosa che voleva fare era lasciarsi alle spalle anche lei.

 

“Che vigliacco...” borbottò a voce bassa la Sforza, dando un ultimo sguardo alla colonna capitanata dal Bentivoglio: “Si mette in salvo per primo...”

Il Capitano Rossetti, al suo fianco, le diede tacitamente ragione, mentre Mongardini, che stava alla sua destra, lo fece anche a parole: “Se fosse un vero uomo, avrebbe combattuto.”

“O almeno non avrebbe lasciato i suoi da soli a ritirarsi alla spicciolata.” fece eco il castellano, le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo duro verso i nemici che ormai si stavano sperdendo all'orizzonte.

“Quanto hanno di distacco, i bagagli?” chiese Caterina, dopo un piccolo cenno di approvazione per quelle parole, tornando alla scaletta a chiocciola, per scendere dai camminamenti.

“Secondo i nostri esploratori, i fanti sono a circa quattro o cinque ore di distacco e i carri hanno quasi il doppio del ritardo.” spiegò Cesare Feo, seguendola a breve distanza.

“Bene.” ribatté lei, con fare sicuro: “Andate a dire a Manfredi che si prepari a uscire tra un paio d'ore, per poter mettere i suoi in posizione.”

Il castellano, che era stato messo a parte del piano della sua signora, era ancora molto scettico. Non tanto riguardo alla riuscita del colpo, perché per quanto riguardava la validità del faentino come comandante e dei soldati scelti dalla Sforza come combattenti non aveva dubbi o preoccupazioni.

Era il dopo, a tenerlo sulle spine.

“Mia signora...” provò a dissuaderla, per un'ultimissima volta: “Siete sicura che...”

“Lo so che probabilmente non crederanno che io sia estranea a quello che stiamo per fare.” mise in chiaro la Tigre, che, in effetti, non aveva fatto che pensarci tutta notte: “Ma ho pensato a come trovare una scusa, nel caso in cui ci fossero rimostranze da parte dei Bentivoglio.”

Con quelle parole un po' sibilline, la donna accelerò il passo, lasciandosi indietro Cesare che, volente o nolente, non poté far altro che assecondarla e fare quello che gli era stato ordinato di fare.

 

Ottaviano Manfredi cercava quasi di trattenere il respiro, per celarsi ancora di più al nemico che si stava avvicinando.

Aveva portato con sé un manipolo di soldati della Tigre, scelti appositamente da lei per la loro capacità di mimetizzarsi e attaccare all'improvviso.

Il faentino li aveva disposti tra le piante, facendo ben attenzione, prima di partire, che tutti indossassero gli abiti più chiari che avessero. Dopo di che, aveva convinto tutti quanti, una volta appostati, a coprirsi il più possibile di neve.

Era un supplizio, su questo non c'era dubbio, ma era il modo migliore per sperare di non essere visti.

Sul viso sia per proteggersi dal freddo, sia per ridurre le nuvolette di vapore che sarebbero uscite dalle sue narici, Ottaviano aveva messo una striscia di stoffa bianca. I suoi abiti erano pesanti di neve che cominciava a sciogliersi e la corazza che portava sotto il mantello si stava lentamente trasformando in un piastrone gelido quasi insopportabile.

Avevano visto passare i fanti del Bentivoglio, qualche ora prima. Macilenti, abbattuti, non parlavano nemmeno. Era l'immagine del fallimento del loro condottiero.

Finalmente, sulla via imbiancata, si sentirono di nuovo dei passi. Manfredi e i suoi, nascosti al limitare del bosco che lambiva la strada, restarono immobili come statue. Solo il comandante in carica fece un lieve cenno con la mano, che stava a significare: aspettate.

Arrivarono i primi carretti e in tutto ne poterono contare quindici. Portavano bauli e casse, probabilmente contenenti armi, abiti e cibo. I carrettieri erano disarmati, almeno all'apparenza, coperti di stoffa, ma non di ferro. Però, attorno a loro, c'era una nutrita schiera di uomini d'arme ben equipaggiati che, a occhio e croce, non dovevano essere niente meno che Capitani o altri graduati.

Ottaviano stava tergiversando anche troppo. Sapeva che quello era l'attimo da cogliere. Non si era aspettato che lo scontro sarebbe stato così impari, ma sapeva che l'effetto sorpresa avrebbe giocato a loro favore.

Con un colpo secco della mano a mezz'aria, diede ordine ai suoi di mettere in atto il piano a lungo discusso prima di lasciare Forlì.

Il primo arciere tese in un istante l'arco e, con una precisione incredibile, centrò l'ultimo dei carrettieri in testa, facendolo crollare morto all'stante.

Tra i bolognesi scattò l'inferno. Non avevano capito da dove fosse arrivata la freccia. Avevano solo sentito il rumore sordo dell'impatto con il cranio del loro uomo e poi avevano visto il carrettiere accasciarsi.

“Quadrato! Quadrato!” ordinò uno dei soldati di Bentivoglio, sguainando la spada e chiamando tutti accanto a sé, in uno schema difensivo che, probabilmente, avevano provato molte volte, ma che non si sarebbero mai aspettati di dover usare quel giorno.

Altre frecce colpirono altrettanti carrettieri, lasciando quasi ogni mezzo sguarnito e un paio scalfirono le armature dei soldati.

Manfredi, a quel punto, vedeva troppi occhi cercarli tra le piante e quindi sapeva che presto sarebbero stati visti e caricati. Era il momento di giocarsi il tutto e per tutto.

“Avanti!” gridò, sfoderando la spada e uscendo dal proprio nascondiglio, la neve con cui si era coperto il mantello che scivolava giù come una cascata di ghiaccio.

L'urlo dei suoi gli fece da eco e, nel momento stesso in cui arrivò a tiro del primo bolognese, capì subito che avrebbero portato a casa la giornata.

Schivando con agilità un fendente che non l'avrebbe raggiunto comunque, il faentino squarciò il ventre del cavallo che aveva dinnanzi, evitando per un soffio di essere coperto dai visceri roventi della bestia che si riversarono al suolo con un rumore tanto viscido da dargli il voltastomaco, e poi, quando il cavaliere ruzzolò in terra, fece altrettanto con la sua gola.

Uno zampillo vermiglio e intermittente si levò dal collo reciso del nemico, andando a schizzare il viso del faentino, ma questi non vi diede peso. Anzi, per respirare meglio, abbassò il pezzo di stoffa che gli copriva la bocca e quando, trafiggendo un altro uomo del Bentivoglio, sentì il sapore del suo sangue sulle labbra, la sua unica reazione fu quella di infervorarsi ancora di più e colpire con maggior forza tutti quelli che gli capitavano a tiro di spada.

I soldati che aveva con sé se la stavano cavando altrettanto egregiamente, anche se forse in loro albergava meno rabbia e più metodo che non nel suo animo, e i nemici parevano così paralizzati dalla paura da non essere in grado di difendersi.

Quando ne rimasero circa la metà, Ottaviano salì in piedi su uno dei carri e gridò: “Arrendetevi adesso e vi verrà risparmiata la vita!”

Ci aveva sperato, ma non credeva che sedicenti valorosi uomini d'armi avrebbero gettato in terra le spade con tanta facilità.

“Prendiamo i cavalli. Legate i prigionieri.” ordinò a quel punto Ottaviano, pulendosi con il bordo del mantello il viso schizzato di sangue, tanto caldo che, a contatto con il vento gelido, liberava quasi minuscoli rivoli di vapore: “Portiamo tutti i carri a Forlì.”

 

La Contessa ascoltava in modo molto distaccato ciò che Giovan Francesco Sanseverino le stava dicendo.

Senza un reale preavviso, si era presentata da lei per comunicarle che si era rimesso, e, in effetti, malgrado un colorito particolarmente cereo, si reggeva in piedi da solo e aveva lo sguardo meno liquido di quando era arrivato alla rocca circa un mese e mezzo addietro, preda della febbre.

“Certo, andarmene adesso, che manca così poco a Natale...” provò a dire Sanseverino, appoggiandosi un po' con la mano allo schiena della sedia, come a rimproverare silenziosamente la Tigre per non averlo invitato a sedersi, malgrado la sua condizione.

Caterina colse quel gesto, ma fece finta di ignorarlo. Era alla scrivania del castellano, le mani giunte sul tavolo, e lo sguardo distante. Non gliene importava nulla, di Giovan Francesco, tanto meno delle sue presunte rimostranze circa un'accoglienza troppo fredda.

Era in ansia per quello che stava facendo Manfredi, e si chiedeva di continuo se avesse già attaccato o meno il seguito di Bentivoglio e, se sì, se fosse ancora vivo o fosse rimasto ucciso nello scontro.

“E nevica di continuo. Insomma, andare fino a Milano con questo clima...” continuò l'uomo, fissando in modo molto insistente la Leonessa.

“Potreste sempre fare una tappa intermedia. Ho sentito dire che avete ancora degli affari da discutere a Ferrara, e che ne avete anche con Gian Giacomo da Trivulzio. È vero che ne volete sposare la figlia?” fece Caterina, con tono sbrigativo, come a dire che non le interessava, avere una risposta a quella domanda.

Sanseverino schiuse le labbra, indispettito sia per come quella donna gli si stesse rivolgendo, sia per aver scoperto che la Sforza sapeva anche troppo delle mosse che aveva in mente.

“Ecco, quindi non me la sento di trattenervi oltre, dato che adesso state di nuovo bene e siete tornato perfettamente in salute.” proseguì la Tigre, alzandosi e dando un colpetto sulla schiena al suo ospite che, ancora debole, dovette aggrapparsi di più allo schienale della sedia per non barcollare: “E poi Natale, qui a Ravaldino, è una noia, ve lo posso assicurare. Specialmente per un uomo della vostra levatura. Se faremo una festa, sarà la solita confusione da paese, nulla a che fare con i ricevimenti che vi attendono alla corte di mio zio.”

Giovan Francesco, a quel punto, capì che non solo non avrebbe trovato ulteriore ospitalità, come aveva invece sperato, ma che, anzi, gli veniva ormai messa fretta di andarsene.

“Mia signora...” il castellano si affacciò nello studiolo proprio mentre Caterina indicava l'uscio al milanese: “Dovreste venire, per favore.”

“È tornato?” chiese la donna, mentre il Sanseverino occhieggiava verso di lei, chiedendosi di chi stessero parlando.

“Sì.” confermò Cesare Feo, con un mezzo sorriso, per tranquillizzarla.

“È andato tutto bene? Lui sta bene?” domandò ancora lei, andando verso il castellano, già dimentica della presenza di Giovan Francesco.

“Valuterete voi stessa, ma direi che non l'ho mai visto trionfante come oggi.” fu il commento del Feo.

“Ah, mi raccomando – fece la Contessa, appena prima di correre fuori per andare incontro al suo amante vittorioso – aiutate il Conte di Caiazzo a preparare i bagagli il prima possibile. Dice di non aver alcuna voglia di restare qui per Natale.”

“Sarà fatto.” disse subito il castellano, ossequioso, mentre Sanseverino diventava ancor più cereo, come se non potesse digerire quell'ennesima presa in giro da parte di una donna.

 

Ottaviano Manfredi aveva deciso di far entrare i soldati che aveva con sé e i prigionieri alla rocca, per non dare troppo spettacolo. Solo i quindici carri colmi di ogni tipo di bagaglio aspettavano appena fuori dal portone, in attesa che la Contessa decidesse di preciso che farne.

I cittadini di Forlì avevano preso l'arrivo del faentino e di tutto il suo strano seguito quasi senza darvi peso. Era tale e tanto il movimento di armigeri in quel periodo, che vederne qualcuno portarsi appresso dei prigionieri non pareva strano a nessuno.

Manfredi aspettava nel cortile, parlottando con Luffo Numai che, stretto in un mantello un po' logoro, più simile a uno scialle da vecchio che a una cappa pregiata, e non si era nemmeno accorto di aver attirato lo sguardo curioso di Bianca Riario, che lo osservava in silenzio dalle balconate.

Gli occhietti azzurri del faentino stavano aspettando di veder arrivare in cortile la Contessa e quindi, convinto che sarebbe giunta appena saputo del suo ritorno, non perdevano tempo a indagare i piani alti.

La ragazza, quindi, poteva osservarlo con attenzione senza paura di essere scoperta da lui mentre lo faceva. Forse non c'era nulla di male, ma preferiva che quell'uomo non si avvedesse troppo dell'effetto che aveva su di lei.

Nei pochi giorni in cui era stato lontano, aveva cercato di non pensargli, ma da quando era rientrato a Forlì, per Bianca era una tortura incontrarlo per caso nei corridoi e sapere che anche solo scambiare qualche parola di troppo con lui sarebbe potuto essere pericoloso. Era l'amante di sua madre, non doveva dimenticarlo per nessun motivo.

Però, e questo la rasserenava un po', finché nessuno si accorgeva delle sue attenzioni, poteva starsene lì a rimirarlo.

Doveva essere tornato da una battaglia, o almeno da una scaramuccia. Indossava qualche pezzo d'armatura, sotto al mantello, e i lunghi capelli biondi erano smossi dal vento fine di quella giornata di dicembre. Sul viso portava ancora i segni freschi dello scontro. Schizzi di sangue, inconfondibili, perfino per una giovane ragazza come la Riario che di battaglie ne sapeva poco o nulla.

Teneva l'elmo sotto il braccio e dal modo nervoso con cui si guardava attorno, dedicando al suo interlocutore solo qualche sguardo fugace, si capiva che stesse aspettando qualcuno.

Bianca capì anche chi, quando l'uomo si congedò frettolosamente da Numai con un colpetto sulla spalla e, le spalle larghe e il passo trionfale, andò incontro alla Tigre, che era appena arrivata nel cortile.

I due si parlarono, per poco, un paio di frasi dette velocemente. Caterina passò con apparente noncuranza la mano sul braccio del faentino e poi entrambi si incamminarono verso il porticato, uscendo dalla visuale di Bianca, che, un po' avvilita per l'interruzione improvvisa dello spettacolo, tornò a sedersi sul gradone di pietra dell'alcova e riprese a ricamare.

 

“Perfetto.” sussurrò Caterina, dopo aver controllato il carico dell'ultimo carro: “Perfetto...”

“Allora, ho fatto un buon lavoro?” chiese Manfredi, standole alle spalle.

“Un ottimo lavoro. Questi sono per lo più i bagagli dei Capitani del Bentivoglio. Rivendendo anche solo metà di queste cose, potremo comprarci delle armi nuove e più efficienti di quelle che abbiamo già...” soppesò la donna, ricoprendo il carico con il telone che lo aveva protetto dalla neve lungo il tragitto.

Ottaviano le chiese allora che ne avrebbero fatto, per il momento e la Contessa decretò che i bagagli venissero riposti in uno dei magazzini del Quartiere Militare e guardati a vista, in attesa che decidesse cosa farne nel dettaglio.

“E i prigionieri?” chiese Manfredi, mentre tornava con lei verso Ravaldino, lasciandosi alle spalle i soldati incaricati di portare i carri al Quartiere: “Cosa intendi fare di loro?”

La donna rimase un momento in silenzio e poi, mentre passavano il ponte levatoio sotto gli occhi bronzei della statua di Giacomo Feo, sentenziò: “Li metterò nelle segrete della rocca. Se qualcuno vorrà riscattarli, valuteremo se accettare o meno la proposta.”

Il faentino si era aspettato qualcosa del genere, ma restò comunque un po' sorpreso, quando, una volta rientrati nel cortile, udì una conversazione tra Mongardini e la Leonessa.

La donna aveva apostrofato il Capitano dicendo: “Portate tutti i prigionieri in cella.”

Questi aveva contato sommariamente gli uomini che stavano legati e in ginocchio nel mezzo del cortiletto e si era permesso di notare: “Con quelli che già sono nelle segrete, non so se ci staranno tutti, mia signora.”

“Fateli stare, in un modo o nell'altro. Scelgano loro, se stare stretti o se lasciare che qualcuno si immoli per farli stare più comodi.” aveva ribattuto Caterina, con un tono quasi divertito.

“In tal caso dovremmo liberarci dei vecchi prigionieri o dei nuovi?” aveva allora chiesto Mongardini, senza fare una piega.

“Di quelli che vi sembrano più spaventati all'idea.” era stata la risposta, fredda e cattiva che era uscita dalle labbra della Contessa.

Manfredi aveva atteso che il Capitano si congedasse da loro e poi l'aveva seguita senza fare domande fino al piano di sopra. Scegliendo una stanza adibita per lo più a ripostiglio, la donna chiuse la porta alle loro spalle e poi, dopo aver sfiorato con la punta delle dita il viso ancora sporco dalla battaglia del suo amante, lo aveva baciato.

Il sapore metallico del sangue si mescolava a quello che ormai conosceva bene del faentino e il suo odore pungente si univa a quello un po' amaro della pelle dell'uomo creando un'essenza che stava inebriando in fretta la Tigre.

Tuttavia, aveva notato in Ottaviano un che di distaccato, come se qualcosa l'avesse disturbato. Si chiese se non fosse stato quello che avevano detto poco prima lei e Mongardini.

“Tutto bene?” gli chiese, mentre lo aiutava a slacciarsi la fibbia del mantello.

Manfredi, dopo aver risposto con un laconico: “Sono solo un po' stanco.” si fece aiutare a levarsi la piastra pettorale dell'armatura e poi, tornando a respirare a pieni polmoni, si allentò un po' il colletto del giubbetto di cuoio, mettendo in mostra le prime sottili cicatrici del petto.

“Se vuoi ti faccio preparare un bagno.” propose Caterina, vedendolo davvero stanco, molto più di quanto non lo avesse mai visto da che lo conosceva.

“Sarebbe fantastico.” accettò lui, sforzandosi di sorridere.

Si sentiva strano. Di norma, dopo una battaglia, non desiderava altro che la compagnia di una donna, un buon calice di vino e, subito dopo, un giaciglio comodo su cui dormire. Quella volta, invece, si sentiva inquieto, come se si fosse reso conto di qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggito.

In un certo senso ciò che lo stava angustiando più di tutto era il rendersi conto di quanto la donna per cui stava rischiando tutto quanto fosse diversa da quello che poteva sembrare.

Era dura, questo lo aveva capito subito, coraggiosa, non c'erano dubbi... Ma il modo in cui aveva deciso in un lampo e senza apparente coinvolgimento la sorte dei prigionieri, gli aveva messo i brividi.

Lui aveva ucciso molta gente, non sempre in modo del tutto onorevole, ma la sua anima ne sentiva i tormenti ogni giorno e ogni notte e il rimorso spesso lo portava a inginocchiarsi davanti a un crocifisso a chiedere perdono.

Caterina, invece, sembrava non avere alcuna remora. Era come un pezzo di vetro sbeccato, che rifletteva tutto e prometteva di tagliare qualsiasi mano le si fosse avvicinata.

Deglutendo piano, Manfredi la guardò per un istante, specchiandosi nei suoi occhi verdi e si rese conto di quanto avesse rischiato nel cercare di ucciderla, quella notte... Anzi, visti i suoi metodi, si chiedeva con un velo di angoscia come mai non avesse deciso di punirlo in qualche modo.

Impedirgli solamente di dormire con lei, dopo essersi amati, gli sembrava una condanna molto lieve, per una colpa del genere.

“Vado a dirlo alle serve. Ti farò preparare un bagno caldissimo e profumato.” fece subito la Sforza, rendendosi conto a sua volta che nella testa del suo amante era scattato qualche meccanismo strano che lo faceva restare a distanza da lei.

Manfredi annuì e la ringraziò, chiedendole in che stanza gli avrebbe fatto trovare la tinozza di acqua calda.

“Nella mia.” rispose lei: “Quello dove ci incontriamo di solito. Ma ti lascerò in pace, non preoccuparti. Ho capito che hai bisogno di stare da solo.”

“Grazie.” fece eco lui.

Appena prima di lasciarlo, però, Caterina non resistette e, avvicinandosi ancora una volta a lui, lo strinse a sé e gli sussurrò: “Grazie a te. E ho pensato a quello che mi hai detto. Prima ne voglio parlare con mia figlia, ma non mi sento di scartare la tua proposta a priori.”

Se gli avesse detto quelle parole solo poche ore prima, Ottaviano sarebbe stato raggiante di gioia e avrebbe cominciato a fare progetti ed enumerare proposte aggiuntive, ma in quel momento, tutto quello che riuscì a dire con voce spenta fu: “Va bene. Se vuoi stasera ne discutiamo meglio.”

 

Ludovico il Moro sentiva le mani dolere per quanto aveva applaudito. Chiunque l'avesse guardato, in quel gelido pomeriggio di dicembre, l'avrebbe detto l'uomo più felice del mondo.

Gli ambasciatori stranieri che erano stati invitati a quella giornata di esibizioni equestri erano altrettanto entusiasti, anche se in molti avevano notato – spesso a voce alta – dell'assenza di quello veneziano.

Milano era formalmente alleata con Firenze, questo era risaputo, ma fino a quel momento il Duca non aveva dato adito a troppi screzi con i Serenissimi. Si era limitato a scusare il suo impegno in guerra con la sua parentela con la Tigre di Forlì, scusando ogni singolo invio di soldati al sud come un ottemperare benevolo e generoso alle assillanti e puerili richieste d'aiuto della nipote.

Siccome, però, praticamente tutti i diplomatici presenti conoscevano la fama della Sforza e anche quella del Moro, tutti avevano capito che il non invitare l'ambasciatore veneziano fosse solo un modo come un altro per rendere palese un segreto che segreto non era mai stato.

“Il vostro Giovanni da Casale è un cavallerizzo eccellente, eccellente davvero!” aveva esclamato uno dei diplomatici, dopo un esercizio di caracollo eseguito alla perfezione da Pirovano.

“Lui e Galeazzo Sanseverino – aveva rimarcato un altro – sono i due migliori in assoluto, di quelli visti oggi.”

“Sì, anche Sanseverino merita – si era aggiunto un terzo – ma quel giovane... Quel Giovanni da Casale, si chiama così? Ecco, quello è un uomo di rara bravura, quando si trova in sella!”

Ludovico aveva preso tutti i complimenti fatti a Pirovano come se fossero stati rivolti a lui in persona e, arrivata la sera, aveva voluto perfino andarsi a congratulare personalmente con il suo Capitano.

Quando era arrivato alla stanza che gli aveva concesso a palazzo, però, aveva trovato fuori uno dei servi che, a malincuore, aveva detto al suo padrone: “Messer Giovanni chiede di non essere disturbato da nessuno, nemmeno da voi, per evitare, domattina, di aver sonno e fare una brutta figura. Mi ha detto di dirvi, nel caso l'aveste cercato, precisamente questo, mio signore.”

Il Duca si arrabbiò, nel sentirsi ribattere a quel modo da un domestico, ma comprese che non era il caso di tendere la corda. Suo nipote Ermes, che aveva il dono di capire molto meglio di lui i malumori degli uomini, lo aveva messo in guardia, quella mattina.

“Non vedete com'è insofferente?” gli aveva detto, indicando Pirovano che sistemava la sella su un meraviglioso cavallo da guerra che avrebbe montato a beneficio degli ambasciatori stranieri accorsi per vederlo: “Preferirebbe mille volte essere a Forlì da mia sorella, a pulire lo sterco sotto ai cavalli assieme a lei, piuttosto che stare qui, alla vostra corte, a cavalcare le più belle bestie d'Italia.”

Tornandosene in camera da letto, un po' abbattuto per la difficoltà che stava incontrando nel tenersi stretto uno dei migliori comandanti che la sorte gli avesse rifilato, si chiese quanto Ermes potesse avere ragione e quanto, invece, ci fosse di amore fraterno verso la sorella Caterina, nelle velate lusinghe che le aveva rivolto.

“Pulire sotto ai cavalli assieme a lei – bofonchiò Ludovico, aprendo con uno scattò la porta della sua stanza e andando subito verso il camino per scaldarsi un po', dopo una giornata campale passata sotto al nevischio – piuttosto che stare al mio fianco e coprirsi di gloria... È proprio vero che gli uomini sono la cosa più stupida che Dio abbia mai creato...”

   
 
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