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Autore: Adeia Di Elferas    14/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina picchiettò un paio di volte le dita sul tavolo, tenendo nell'altra mano il calice di vino caldo speziato che aveva appena fatto portare.

Ne aveva versato un po' anche a Bianca, ma la ragazza non aveva ancora sfiorato il suo bicchiere, tenendo le braccia in grembo e gli occhi blu abbassati, incerta se osare guardare il viso della madre o meno.

La sua convocazione era arrivata abbastanza repentinamente e la Riario non riusciva a pensare come mai avesse voluto vederla da sola con tanta urgenza.

Da un lato temeva che c'entrasse Astorre Manfredi. Aveva sentito Luffo Numai parlottare con un paio di Consiglieri in merito alla tensione che si stava creando con Faenza e aveva il terrore di sentirsi dire che il suo tempo era giunto e che doveva partire per congiungersi una volta per tutte con il suo sposo ragazzino.

Dall'altro non riusciva a trovare alcun motivo valido per quel colloquio privato, soprattutto vista l'evidente tensione che agitava sua madre.

La Contessa, quasi avvertendo un guizzo dello sguardo della figlia, che finalmente aveva trovato il coraggio di sollevare gli occhi, si morse il labbro, mettendosi a fissare Bianca: “C'è una cosa di cui ti devo parlare. Non è un imposizione, né un ordine. Se non sarai d'accordo, non se ne farà nulla.”

Con il sospetto che le sue paure in merito ad Astorre si stessero per concretizzare, la ragazza annuì con un cenno secco, in attesa di sapere si preciso cosa sua madre avesse in mente.

Caterina, allora, dopo un paio di sorsi di vino, bevuti solo ed esclusivamente per cercare di restare il più calma possibile, cominciò a spiegarle quello che Ottaviano Manfredi le aveva proposto, sorvolando sul fatto che l'uomo avesse chiesto la sua mano, prima di quella di Bianca.

Più la madre parlava, più la Riario perdeva il filo del discorso. Vedeva le sue labbra muoversi e sentiva la sua voce, ma l'inconsistenza di quella proposta le pareva tale da rendere tutto quel lungo discorso inutile, se non addirittura ridicolo.

Tuttavia, cercando di riacquistare un po' di presenza a se stessa, la giovane chiese, appena la Contessa fece un momento di pausa: “Ma perché dovrei sposarlo? Se siete d'accordo, non vedo perché ci sia bisogno di un matrimonio. Voi lo aiutereste a prendere Faenza, e lui in cambio poi resterebbe un nostro alleato...”

La Sforza bevve ancora un po' e spiegò, con semplicità: “Perché io non mi fido di lui fino in fondo, né lui di me. Un matrimonio sarebbe una garanzia in più.”

“Quindi usereste me come garanzia, alla fine.” parafrasò Bianca, con tono neutro.

“Se vuoi vederla così...” fece la Tigre: “Ma valuta anche quello che ti ho detto: Manfredi si impegna a uccidere Astorre, liberandoti da un marito che non vuoi.”

“In cambio però, dovrei sposare lui.” le ricordò la giovane.

“Ma non pretenderebbe nulla, su di te. Ha detto chiaramente che potresti avere tutti gli uomini che vuoi. Con discrezione, certo, ma lui ti lascerà libera e non ti toccherà nemmeno con un dito.” si premurò di risottolineare Caterina.

Bianca si morse il labbro. Ottaviano Manfredi le piaceva, molto. Se le avessero detto che sarebbe diventato suo marito, avrebbe accettato senza indugio. Ma non così. Lui era l'amante di sua madre e quello sposalizio sarebbe stato solo un contratto. Sarebbe stata formalmente la moglie di un uomo che desiderava, ma che non avrebbe mai potuto avere.

“Posso parlarne anche con lui, prima di decidere?” domandò la Riario, sperando di non urtare troppo la madre, con quella richiesta.

La Leonessa annusò per un istante il sentore di spezie che si sollevava dal suo calice di vino e poi, comprendendo le giuste perplessità di Bianca, le rispose: “Certo. Ma adesso non è in città.”

“E dov'è?” chiese la figlia, accigliandosi nel non ricordare di averlo visto partire.

“Sta facendo delle cose per me.” fu l'unica spiegazione data dalla Contessa.

L'altra annuì appena e, finalmente, si decise a prendere il suo bicchiere e assaggiare un po' di vino.

Il liquido ancora caldo le pervase le viscere, facendola sentire subito un po' meglio. Il freddo che aveva sentito, mentre sua madre le parlava, poco aveva a che fare con la neve che stava cadendo su Forlì. Le spezie, però, e il vino stavano combattendo abbastanza bene tanto i brividi quanto il lieve tremito alle mani.

“Te lo ripeto, Bianca, se non vorrai, non dovrai accettare.” le ricordò la madre, vedendola scossa.

“Prima voglio parlarne con lui.” ribadì la Riario.

Prima di tutto, pensava, voleva accertarsi delle reali intenzioni di Manfredi nei suoi confronti e poi, non di secondaria importanza, le interessava sapere come sarebbero evoluti gli accordi politici tra lui e la Tigre, in caso di suo rifiuto.

“Va bene.” concluse Caterina, finendo il suo calice e alzandosi: “Appena tornerà in città, gli dirò che lo vuoi incontrare.”

 

“E chi altro volete che ce li abbia presi?!” sbottò Annibale Bentivoglio, quando, dopo un attesa più che ragionevole, il suo attendente si era risolto a dichiarare i loro bagagli persi: “Avanti! Prendetemi il necessario per scrivere. Mio padre deve sapere quello che è successo e, nel frattempo, manderò il mio Segretario a domandare direttamente a questa madonna di Forlì che cosa ne ha fatto della mia roba!”

Quando l'attendente tornò, scortato dal Segretario, che voleva ricevere ordini precisi dal suo signore, disse al Bentivoglio: “Mio signore, i nostri esploratori hanno parlato con alcuni contadini che non abitano lontano dall'ultimo punto in cui i nostri carri e i nostri Capitani sono stati visti.”

“E allora?” chiese Annibale, fissandolo in attesa, sperando di poter dare una certezza ai suoi sospetti.

“Uno di loro sostiene di aver visto l'agguato e anche di aver sepolto i corpi dei nostri che sono morti...” spiegò il soldato: “E dice che a guidare l'assalto fosse un giovane alto e biondo, coi capelli lunghi.”

“Ottaviano Manfredi.” disse subito il figlio del signore di Bologna, stringendo il morso con rabbia.

Al che, dopo aver chiesto al suo attendente di andare subito a scegliere una staffetta veloce che partisse in mantinente per Bologna, spiegò in fretta al suo Segretario cosa dovesse e non dovesse dire alla Tigre di Forlì, insistendo molto sul fatto che, secondo lui, se il colpevole era davvero Manfredi, era probabile che lui e quell'orribile donna si stessero mettendo in combutta.

“E questo, sia chiaro, per Venezia non sarebbe un bene.” commentò: “Quindi cercate di scoprire di che natura è il loro sodalizio.”

Poi, congedato il Segretario, aveva preso posto alla scrivanietta da campo e aveva iniziato a vergare un'accesissima lettera rivolta a suo padre, con cui chiedeva, senza mezzi termini, che forzasse la mano a Venezia affinché ci si vendicasse di quell'oltraggio con il sangue.

Ottaviano Manfredi, precisò senza possibilità di errore, era il colpevole e lui, assieme alla Contessa Riario, andava eliminato e ne avrebbero giovato non solo l'onore e il buon nome dei Bentivoglio, ma anche le sorti della guerra.

 

Caterina lasciò che il Segretario personale di Annibale Bentivoglio attendesse un paio d'ore nel palazzo dei Riario.

Immaginava già quale fosse l'argomento di discussione e, dopo essersi brevemente confrontata con Luffo Numai, aveva deciso come gestire la cosa, in caso di accuse precise nei suoi confronti.

Mentre attraversava la città, diretta al palazzo, sentì dentro di sé una voce maligna dire che se Ottaviano Manfredi fosse stato a Forlì, avrebbe potuto consegnarlo direttamente come colpevole ai bolognesi. Però, già mentre varcava la soglia della sua vecchia dimora, si era trovata a pensare che non sarebbe mai riuscita a venderlo a quel modo. Che l'idea le piacesse o meno, quel giovane faentino – contro cui una volta aveva anche mandato il proprio esercito, in difesa di Astorre Manfredi – per lei non era solo un'avventura. Per quanto rifiutasse l'idea, era diventato qualcosa di molto ingombrante nella sua mente e non poteva dimenticarlo.

“Di cosa vorreste parlarmi?” chiese la Tigre, mettendosi davanti al Segretario del Bentivoglio.

Questi, provato da un viaggio non facile, soprattutto perché seguito a una fuga abbastanza rocambolesca, abbassò gli occhi e spiegò i sospetti del suo padrone, per poi concludere: “E dunque messer Annibale ritiene che abbiate infranto un patto siglato tra voi, rubando tutti i bagagli del nostro seguito e imprigionando o uccidendo i nostri migliori soldati.”

“Prima di tutto – disse Caterina, gli occhi verdi trasformati in due pietre dure – nel nostro patto io ho specificato chiaramente e per iscritto che avrei concesso il passaggio solamente ad Annibale Bentivoglio e ai suoi bagagli personali. Se anche avessi preso per me uomini che non siano lui o bauli che non siano di sua proprietà, non avrei infranto alcun patto, ma avrei solo agito come chiunque nel trovarsi degli intrusi entro i propri confini.”

Il Segretario restava in silenzio nel salone spettrale del palazzo Riario. I camini spenti rendevano quell'ambiente inospitale e quasi inquietante e il tono usato dalla Tigre non migliorava certo le cose.

Tuttavia l'uomo voleva essere sicuro di ricordare le parole di quella donna in modo molto preciso, così da riferirle per esteso al suo signore.

“Detto ciò, non sono stata io, né uno dei miei Capitani a mettere mano alle vostre cose, ne potete stare certi. Anche se, per una serie di eventi, i bagagli sono giunti a me – e si guardò molto bene dal citare i prigionieri – vi dimostrerò la mia benevolenza verso Bologna restituendo gli averi personali del vostro padrone. Ma solo quelli, perché così sanciva il nostro patto.”

“Ma come farete a sapere quali oggetti...” iniziò a chiedere il Segretario, ma la mano alzata della Contessa lo zittì all'istante.

“Manderò un mio uomo di fiducia direttamente a Bologna, per redigere un elenco puntuale dei beni inavvertitamente sottratti a messer Annibale Bentivoglio.” spiegò lei, per poi concludere, secca: “E ora se non avete altro da dire, ho degli impegni urgenti.”

Il Segretario borbottò un saluto e, molto più mesto di come era arrivato, uscì da palazzo, recuperò la sua scorta e se ne andò di volata da Forlì per riferire le novità.

 

Ottaviano Manfredi accettò di buon grado l'acqua che gli veniva offerta. Non era particolarmente limpida ed era viziata da un sapore ferroso che, però, a ben vedere, forse era dovuto al sangue che gli incrostava il labbro.

“Vedrete...” disse, annuendo ai due contadini che lo avevano subito rifocillato: “Appena tornerò a essere il signore di Faenza, non dovrete più subire le angherie di queste canaglie.” e indicò i cadaveri di una dozzina di soldati veneziani che aveva ucciso assieme ai suoi uomini.

Questi stavano frugando i corpi, togliendo armi e armature e mettendo da parte monete e altri piccoli valori, in attesa che il loro comandante decidesse che farne.

“Fate sapere anche ai vostri vicini che Ottaviano Manfredi è pronto a combattere e che presto ci sarà un nuovo governo alla guida di Faenza.” concluse l'uomo, finendo di bere la sua acqua e scrollandosi un po' i capelli lunghi, che si erano impastati di fango e sangue.

Non era la prima incursione che faceva nelle terre di suo cugino. Da un paio di giorni, seguendo un consiglio mirato di Caterina, aveva cominciato a perlustrare le campagne appena oltre il confine e ogni volta che vedeva qualche villaggio o qualche podere invaso da guardie veneziane, attaccava.

Invariabilmente, tutti i faentini che aveva soccorso – perché ritenevano un autentico soccorso il veder uccidere lo straniero che imponeva nuove tasse e voleva cibo e donne di continuo – lo avevano ringraziato e ricompensato secondo la loro disponibilità. In cambio, lui aveva cercato di far capire a tutti loro chi fosse e che cosa volesse fare. Un contadino alla volta, si sarebbe trovato il popolo delle campagne a favore e così far insorgere i faentini contro Astorre, il giorno in cui avesse finalmente invaso Faenza, sarebbe stato molto più semplice.

“Avete salvato la mia famiglia – disse uno dei due villici, chinando il capo – perché quella gentaglia presto avrebbe preso mia figlia e probabilmente avrebbe fatto morire me di fatica e mia moglie di stenti. Se ci sarà una guerra, contate su di me.”

Manfredi lo squadrò. Era ormai troppo vecchio e spezzato dal lavoro nei campi per potergli essere davvero utile, ma, ben deciso a evitare malumori, gli pose una mano sulla spalla e, con tono fermo, gli disse: “Grazie. Sapere di avere il vostro appoggio mi rende più forte.”

E dopo aver salutato come un re in trionfo tutti gli altri abitanti del villaggio, Ottaviano rimontò in sella, inoltrandosi in fretta nel bosco che costeggiava la strada, nella speranza di imbattersi presto in un altro manipolo di Serenissimi.

 

Giovan Francesco Sanseverino aveva finalmente lasciato Forlì, premurandosi di far sapere, appena prima di uscire dalla rocca, che probabilmente si sarebbe recato prima a Ferrara, presso Ercole Este, e da lì a Milano dove, ne era certo, il Duca Sforza lo attendeva con ansia.

“Volete che porti i vostri saluti al nostro carissimo messer Giovanni da Casale?” aveva anche domandato a Caterina, mentre lei lo salutava in modo formale, sperando che se ne andasse il più presto possibile.

La donna lo aveva guardato in modo penetrante, cercando di capire quanto ci fosse in quella domanda di sagace perfidia e quanto di grossolano amore per le battute di pessimo gusto.

Siccome non erano soli e troppi occhi erano puntati su di loro – quelli dei suoi figli Galeazzo e Bernardino compresi – la donna aveva risposto come se la questione non la sfiorasse nemmeno e fosse un mero atto di prammatica: “Certamente, e portateli soprattutto a mio zio.”

Archiviata la questione del Sanseverino, che, per quanto ospite scomodo, era stato molto in disparte durante la sua convalescenza, la Sforza aveva cercato di pensare ad altro e si era buttata negli affari di quel giorno.

Era ormai quasi sera e la Tigre stava raggiungendo la stanza di Giovannino con ancora un paio di lettere sotto al braccio. Si trattava di un resoconto del piovano di Cascina, Francesco Fortunati, e di una missiva da parte di Boschetti, che la metteva a parte delle ultime tensioni al campo fiorentino.

Aveva deciso di leggersele con calma e così aveva pensato che starsene in poltrona, con suo figlio che giocherellava accanto a lei fosse una buona idea.

Camminando il pensiero andò per un istante ai suoi figli. Sapeva che Sforzino era con uno dei suoi precettori e stava approfondendo alcune cose di teologia che lei non apprezzava né capiva, ma che infervoravano moltissimo il bambino.

Ottaviano, le avevano detto, era chiuso in camera e probabilmente non era solo. Da quando era tornato dal Casentino, pareva aver perso l'abitudine di andare tutte le notti al bordello, ma in compenso la madre aveva saputo per vie traverse che non di rado faceva arrivare alla rocca delle donne con cui trascorrere un'ora o due. Le pagava bene, dicevano, più per comprare il loro silenzio che i loro servigi. Caterina rabbrividiva nel ricordare di aver sentito una cuoca dire che il più delle volte quelle ragazze uscivano dalla sua stanza con un occhio nero o molto stordite, come se oltre a essere state usate come oggetti fossero state prese a pugni. La Leonessa avrebbe voluto prendere provvedimenti rigidi e gravi, ma sentiva di non averne la forza, in quei giorni. Se si fosse messa a gestire il suo rapporto con il figlio Ottaviano, probabilmente avrebbe perso la testa nel giro di un paio di giorni e non poteva permettersi distrazioni del genere, non con una guerra tanto delicata in atto.

Bernardino, invece, era rientrato da poco a Ravaldino. Anche lui stava mostrando un'indole violenta e attaccabrighe che alla madre non piaceva. La trovava pericolosa. Se non altro, si diceva, la scaricava contro altri bambini altrettanto turbolenti e non verso povere ragazze indifese. Non era una consolazione, ma era meglio di niente. Con il tempo, lo avrebbe tenuto d'occhio e avrebbe cercato di mitigarlo, nella speranza che avesse preso almeno la flemma da Giacomo, e, con essa, la mancanza di attrazione verso una cosa faticosa e difficile come provare rancora e trasformarlo in violenza.

Mentre attraversava a passo spedito il corridoio – il respiro che sollevava qualche esile nuvola di vapore alla luce scostante delle torce – intravide una figura nerovestita che altri non poteva essere se non Cesare.

“Credevo che a quest'ora fossi ancora al Duomo a recitare i tuoi salmi.” gli disse, benché fossero ancora abbastanza distanti.

Il ragazzo la guardò con occhio torvo. Non sopportava più quell'atteggiamento, da parte di sua madre. Non vedeva l'ora di lasciare la rocca, anche se più ci ragionava, più si rendeva conto di non volersi ancora separare da sua madre, per quanto la loro convivenza fosse ormai impossibile.

“E io credevo che a quest'ora voi foste già chiusa in camera vostra con qualche soldato.” ribatté acido Cesare, incapace di trattenersi.

Siccome era stata lei la prima a provocarlo, Caterina si impose di non perdere le staffe e, appena fu un po' più vicina, gli disse: “Sto solo aspettando una promessa ufficiale da Roma, altrimenti ti avrei già detto di partire.”

“Spero che arrivi presto, questa promessa di cui parlate.” convenne il Riario, la tonsura che luccicava sotto la torcia a muro.

“E se dovessero tirarla in lungo, stai certo che troverò il modo di farti passare l'attesa altrove. In fondo, dovresti vedere un po' di mondo, prima di chiuderti in una cripta a pregare, no?” ribatté la Tigre, le labbra strette in una riga severa.

Cesare parve tentato di controbattere in modo aspro, ma poi tacque, una mano sul crocifisso, come se si fosse ricordato solo in quel momento del Comandamento che imponeva di rispettare non solo il padre, ma anche la madre: “Farò quello che mi direte di fare.” fu tutto ci che si risolse a dire.

La Contessa, allora, lo guardò ancora un momento il figlio, per poi concludere: “Se è così...” e gli fece capire che la loro conversazione poteva ritenersi terminata.

Mentre finalmente raggiungeva la stanza di Giovannino, la Sforza si trovò a ripensare agli avvertimenti che il suo ultimo marito le aveva fatto abbastanza spesso sul rischio di perdere per sempre i suoi figli, soprattutto i più grandi. Il Medici si era spesso cimentato nel difficile compito di convincerla a essere con loro più morbida e comprensiva, ma il più della volte la Leonessa non era stata in grado di seguire i suoi consigli.

“Oh, siete qui anche voi...” disse piano la donna, quando entrò nella camera, trovandosi dinnanzi non solo il figlio più piccolo, ma anche Galeazzo e Bianca.

Il primo era in piedi vicino al camino, il cavaliere di legno che aveva regalato al fratello minore tra le mani, quasi volesse controllare in che stato fosse. La seconda, invece, aveva tra le braccia il piccolo, e lo porse subito alla madre, quasi sapesse che, in caso contrario, sarebbe stata a chiederglielo.

Caterina, sistemando nel tascone del suo abito le lettere che si era ripromessa di leggere, prese con mano salda Giovannino che, felice di vederla, si strinse a lei, balbettando qualche mezza parola che riuscì a farla sorridere.

Mentre seguiva le espressioni prima serie e poi divertite del bambino, la donna intravide uno scambio di sguardi molto particolare, tra Galeazzo e Bianca. Era come se si stessero riconfermando, senza bisogno di parlare, l'evidenza che il figlio di Giovanni Medici fosse il preferito dalla loro madre.

Questo sospetto, che non trovava molte smentite negli atteggiamenti – e nei sentimenti – della Tigre, ferì un po' la Contessa, che, nell'ottica di voler seguire il più possibile le buone parole del suo terzo marito, pensò in fretta a qualcosa che potesse bilanciare anche solo in parte l'entusiasmo che aveva dimostrato nello stringere a sé Giovannino rispetto alla quasi indifferenza che aveva palesate per gli altri due.

“Bianca...” disse, rimettendo per terra il piccolo che, ben felice di essere libero, gattonò fin quasi al camino, dove Galeazzo si chinò per restituirgli il cavaliere di legno: “Per Natale stavo pensando di organizzare una festa, qui alla rocca. In onore dei nostri soldati e anche dei rientrati grazie ai salvacondotti... Tu cosa ne pensi?”

La ragazza, che da tempo sentiva il bisogno di respirare, come se a Ravaldino a tratti le mancasse l'aria, avrebbe prima voluto chiedere se Ottaviano Manfredi sarebbe già tornato a Forlì, per Natale, ma poi preferì solo domandare: “Pensate che potrebbe essere utile per risollevare lo spirito della città e della truppa?”

Caterina annuì: “Potremmo far accorrere un po' di reclute e alcuni veterani, in rappresentanza di tutto l'esercito. E permettere festeggiamenti, anche se più moderati, al Quartiere Generale. Ah, e ovviamente ci dovranno essere anche un po' di dame da far ballare, altrimenti i soldati si annoieranno.”

La Riario sollevò gli angoli della bocca, al pensiero di una festa così imminente. Avrebbe potuto danzare, ridere e gettarsi alle spalle tutte le incertezze che quei giorni di neve le avevano portato.

“Certo, sarà bene specificarlo, con chi organizzerà il tutto.” concordò la giovane, gli occhi blu accesi di una nuova luce.

“È quello che ho appena fatto.” disse la Tigre, osservandola con attenzione, per scorgerne la reazione.

Con in sottofondo Galeazzo che, accucciato, parlava a Giovannino di cavalieri e armature – come se il piccolo, di soli otto mesi, potesse davvero capirlo – Bianca sussurrò: “State davvero chiedendo a me di occuparmi dell'organizzazione della festa?”

La madre fece un cenno con il capo: “In fondo hai diciassette anni e sei sveglia. Credo che sia un compito alla tua altezza. In fondo ti è sempre interessato vedere come facevo io. Immagino che tu abbia imparato qualcosa.”

“Non vi deluderò, madre.” disse subito la giovane, esaltata dalla prospettiva non solo di poter curare un evento del genere, ma anche, soprattutto, dalla consapevolezza che sua madre si fidava del suo giudizio, perché, in caso contrario, sicuramente non le avrebbe mai proposto una cosa simile.

“Bene. Potrai parlare con il castellano, per accordarvi sui dettagli pratici e sulla cifra da dare ai musici.” fece la Leonessa, sfiorandole appena la spalla con la mano: “Adesso prendi un attimo Giovannino, che voglio parlare con tuo fratello Galeazzo.”

Obbedendo all'istante, la Riario acciuffò il fratello più piccolo, che, a quattro zampe, ascoltava rapito Galeazzo, tendendo di quando in quando una mano verso di lui per afferrare il bordo del suo giacchetto.

Vedendo il modo in cui la sorella aveva preso tra le braccia Giovannino, dicendogli ridendo: “E allora, piccolo birbante? Finiranno per chiamarti il peggiore degli scapestrati...” il Riario raddrizzò la schiena, rimettendosi in piedi e fronteggiò la madre, senza sapere di cosa volesse parlargli.

“Domani è il tuo compleanno.” iniziò a dire Caterina che, si vergognava ad ammetterlo, se n'era ricordata solo quel pomeriggio.

Il ragazzino annuì, serio. Il suo viso allungato aveva qualcosa dei Riario, ma la madre si sforzava come sempre di vederci solo i tratti della sua famiglia. Gli occhi chiari, i capelli mossi, ma non ricci come quelli di Girolamo, e la forma armoniosa delle labbra, erano tutti dettagli che le ricordavano gli Sforza.

Il fisico era ancora troppo acerbo, per avere una somiglianza spiccata, anche se appariva longilineo e snello, com'era stato Girolamo quando l'aveva conosciuto. 'E com'era mio padre da giovane' si impose di pensare la Contessa.

“Tredici anni. Sono un'età importante.” riprese la Leonessa, per poi sospirare: “Poco per volta, ti stai facendo uomo.”

Quella considerazione riempì il petto del figlio di orgoglio. Ed era proprio l'effetto che Caterina sperava di ottenere. Sapeva che, se fosse stato ancora vivo, Giovanni gli avrebbe comprato qualcosa di bello, per quella ricorrenza. Magari, visti i progressi che stava facendo, gli avrebbe fatto forgiare una spada o gli avrebbe donato uno scudo, o un cavallo. Lei, al momento, non disponeva di molti soldi e non aveva nemmeno avuto l'idea in tempo per poter comprare un regalo decente entro il giorno dopo.

Però sapeva cosa suo figlio, probabilmente, avrebbe gradito, magari perfino più di un'arma personale: “Domattina ti andrebbe di uscire a caccia con me?” gli chiese, quasi titubante.

Ricordava le volte in cui, anni addietro, aveva provato a fare una proposta simile a Ottaviano, quando aveva più o meno l'età di Galeazzo. E ricordava altrettanto bene il modo in cui avesse sempre rifiutato, benché si vedesse benissimo quanto avrebbe preferito accettare. E altrettanto lei si negava quando lui la cercava per cose simili. Era da sempre il loro modo di punirsi a vicenda, come se privarsi della possibilità di riconciliarsi fosse l'unica cosa sensata da fare.

Così, forse irrazionalmente, la Sforza temeva di vedere anche Galeazzo rifiutarla, magari adducendo qualche scusa o schermendosi dietro gli impegni della guerra che la impegnavano giorno e notte.

E invece il ragazzino, appena sentita la domanda, rispose: “Mi andrebbe moltissimo, madre. Ma saremo solo noi due, vero?”

“Solo noi due.” confermò la donna, il cuore che si scaldava nel vedere come il figlio fosse felice nel pensare alla giornata di caccia che li attendeva: “Mi raccomando, dovrai coprirti bene, perché è probabile che verso mezzogiorno nevichi ancora.”

“Sarò pronto, madre, non dubitate di me.” ribatté il Riario e così Caterina decise di fidarsi e non si prolungò in ulteriori raccomandazioni.

Con Bianca che cuciva in silenzio sull'ottomana e Galeazzo che faceva giocare Giovannino, la Contessa si mise sulla poltrona e lesse le sue lettere, incredula davanti al clima caldo e familiare che si respirava in quella stanza.

Forse era solo un'illusione e di certo sarebbe durata poco, ma per la Tigre quella parentesi di pace parve quasi un dono mandato da Giovanni, a mo' di ringraziamento per il suo sforzo nel riavvicinarsi ad almeno due dei suoi primi sei figli e come tale decise di goderselo fino all'ultimo goccio.

 

 
   
 
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