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Autore: Slytherin_Divergent    14/09/2018    2 recensioni
La loro relazione era sempre stata di sole due fasi. "Sconosciuti" e "odio". Invece, doveva continuare. Doveva continuare, e mancavano ancora tre fasi per concludere quel viaggio che stavano affrontando, che era iniziato quando Envy aveva visto per la prima volta Edward, e che non si sarebbe concluso con il suo suicidio.
Tratto dal testo: capitolo 1
"Una cavia preziosa, così lo avevano definito i militari giunti dall'alto. Un mostro, così lo aveva definito il colonnello Mustang. Naturalmente, ne aveva tutto il diritto. Non era stato proprio lui, in fondo, a uccidere il suo amico Hughes? E non solo lui. Quante persone aveva ucciso? Di quante vite si era appropriato? Quanti umani erano stati sacrificati, per colpa sua? Inutili esseri, continuava a definirli."
!!ATTENZIONE!!
Shonen-ai [EdwardxEnvy]; Het [EdwardxWinry]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Envy, Roy Mustang, Winry Rockbell | Coppie: Edward/Winry
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Si svegliò nel cuore della notte, in preda al freddo. Rabbrividì, voltandosi di lato e raggomitolandosi sotto il lenzuolo. Strinse al petto le ginocchia nel tentativo di riscaldarsi, senza molto successo, domandandosi come mai tante preoccupazioni. Non era proprio lui il primo ad andare in giro in gonnella, top e calzini?

Ricordava vagamente di aver ripreso conoscenza per qualche secondo il giorno prima, e quello prima ancora, come se il suo corpo volesse fargli sapere di aver dormito un giorno intero. Ricordava anche vagamente di aver detto qualcosa il giorno prima, osservando Edward Elric al suo fianco, anche se non sapeva cosa avesse domandato o affermato. In fondo, persino l’immagine del ragazzo era un insieme di colori tendenti al grigio, come se non avesse nemmeno aperto definitivamente gli occhi.

Con uno sbadiglio, si voltò sull’altro fianco, e sbadigliò nuovamente, più pigramente. Come si era ritrovato in quella situazione, a tremare di freddo sotto un lenzuolo e ad essere imboccato dal suo peggior nemico? Che cos’aveva fatto di tanto grave? Era successo qualcosa… qualcosa che gli sfuggiva. O forse se lo ricordava, ma era troppo stanco per pensarci.

Chiuse gli occhi, e crollò nuovamente a dormire. A differenza delle altre volte, tuttavia, il suo sonno fu dominato da un sogno. Per meglio dire, da ricordi spezzati.

L’unica cosa che vedeva erano fiamme. Fiamme che lo circondavano. Bruciavano. Bruciavano da morire. E l’unica cosa che poteva fare era urlare. Urlare e rotolarsi per terra. Che razza di fiamme erano? Non si spegnevano. Il corpo mezzo carbonizzato cercava di guarire, lui lo sentiva alla perfezione, ma quanto ancora sarebbe durato? Quante volte era già morto? Avrebbe fatto la stessa fine di Lust? Bruciato vivo da quel maledetto colonnello di Fuoco?

Rantolò di lato e si nascose dietro un angolo, poi corse via. Girò qualche altro angolo, poi crollò contro un muro. Le gambe bruciavano. Come avrebbero fatto a sostenerlo, se avesse continuato così? Non l’avrebbero fatto, di quello ne era certo. Scappare, era l’unica scelta ragionevole. Non sarebbe stato capace di resistere di più. Non poteva fare altro che scappare. Come un codardo.

I passi del colonnello rimbombarono per il corridoio, e lui si alzò di nuovo. Si voltò all’indietro giusto in tempo per essere investito da un’ennesima ondata di fiamme.

Il sogno cambiò. O meglio, il ricordo si dissipò tra le fiamme, così come queste ultime. Scomparvero lentamente, lasciando campo libero all’immagine del colonnello di Fuoco. Lo osservò, imponente. Lui, nella sua forma originale, ridotto in quello stato patetico per la seconda volta. Volto lo sguardo. Edward Elric lo stringeva nel suo Automail, e parlava, rivolto al colonnello. Cosa si stavano dicendo? Envy non riusciva a capirlo. Parlavano di lui?

Iniziò a parlare, senza sentirsi veramente. Sentiva le lacrime scivolare copiose fuori dagli occhi, e quando Edward allungò una mano verso di lui, ne approfittò per mordergli un dito. Cadde a terra e continuò a parlare. Si raggomitolò su se stesso e afferrò la sua pietra filosofale, tentando in un disperato tentativo di scappare a quella vita che si era conclusa in un inferno.

Una mano si strinse attorno a lui, immobilizzandolo. Cosa volevano fare? Gli avrebbero anche impedito di morire? Alzò una seconda volta lo sguardo. Era un uomo, un militare, assieme ad un dottore. Il dottore stava parlando. Nonostante non sentisse quelle parole, fu come se ognuna di esse giungesse nella sua testa. Parlava di un esperimento. Un esperimento su di lui. Un esperimento per batterli, battere loro Homunculus. Come avevano intenzione di batterli? Edward Elric era scettico. Non aveva importanza. Roy Mustang non sembrava farsi abbindolare. Stavano parlando di un mostro assassino. Era quello che pensava veramente di lui, l’assassino del suo amico Hughes? Sicuramente sì.

Il sogno variò ancora. Questa volta, sapeva di trovarsi all’interno di uno dei manichini in cui erano state infilate a forza anime umane. Ne erano abbastanza pochi perché potesse riprendere la sua forma originale. Avrebbe voluto attaccare tutti. Avrebbe dovuto, e subito. Qualcosa lo colpì violentemente al collo. Nemmeno il tempo di voltarsi. L’ago era perforato nella vena con un’immensa precisione, e aveva iniettato troppo velocemente il liquido. Troppo vicino al cervello, e solo il tempo di crollare in avanti e cadere in preda al sonnifero.

L’oscurità si dissipò, facendo cambiare ancora una volta il sogno. Era disteso su un tavolo, ed era legato con lacci e catene. Aveva provato a liberarsi, ma sembravano stringersi ogni volta di più. Quelli attorno a lui sono medici, e la stanza è piena di soldati con i fucili puntati contro di lui.

I medici portavano tutti guanti di lattice e mascherine di protezione, e ognuno di loro aveva strumenti diversi in mano. Uno teneva una siringa, un altro un piccolo taglierino, un terzo delle pinze. Non capiva cosa stesse succedendo, aveva la testa bloccata. Solo dolore, dolore e urla. E lacrime. Tante lacrime. Lacrime miste a urla e sangue. Tanto sangue, il suo sangue. Poi, un momento di pace. Eppure, bruciore. Bruciore ovunque. Un dolore indescrivibile. Infine, di nuovo i medici, le lacrime e le urla. Poi il buio, ancora il buio. Però, quella volta, non sparì come negli altri ricordi.

Era una stanza buia. Nessuna finestra, nessuna lampada, nessuno spiraglio di luce. Solo una cella. Una cella indistruttibile. Provò a trasformarsi, provò a sfondare le pareti. Nulla. Solo rabbia repressa per troppo tempo, solo disperazione. E ancora lacrime. Poi, una realizzazione troppo dura. Solo il silenzio e lo shock.

Solo la convinzione di essere morto. Non una morte carnale, una morta spirituale. La realizzazione di non aver più niente, e di aver perso tutto, ma di non aver mai avuto niente per cui valeva veramente la pena perdere qualcosa.

Envy riprese conoscenza di botto, spalancando gli occhi e venendo investito dalla luce mattutina che filtrava dalla finestra spalancata. Voltò la testa quel poco che bastava ai suoi occhi per abituarsi alla luce, poi sbadigliò, e sollevò un braccio per strofinarsi gli occhi che sentiva appiccicosi.

―Ben svegliato.― la voce di Edward Elric lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto, e osservò l’individuo negli occhi, domandandosi perché se lo ritrovasse sempre lì, al suo fianco, ad ogni suo risveglio o quasi, mentre questo continuava a parlare con un sorriso. Era strano, pensò Envy. Non lo aveva mai visto così. Forse, perché ogni volta gli urlava contro. ―Come ti senti? Meglio?―

Envy mugugnò, poi spostò lo sguardo sul comodino e fissò il vassoio che, come qualche giorno prima, era posato lì sopra, e prese parola per la prima volta da quando era stato catturato - non aveva considerato le svariate urla e mugolii delle due settimane. ―Ho… fame.― era strano da dire. Era strano anche parlare. Sentiva la gola secca, e la voce era roca. Tossì di colpo, facendo sobbalzare Edward. Il biondo posò le mani sulle sue spalle.

―Stai bene?― domandò preoccupato. ―Devo chiamare un medico?―

Envy scosse la testa: si era già calmato. ―No.― dichiarò.

Come qualche giorno prima, Edward drizzò il letto, poi afferrò il vassoio che conteneva la bottiglia di latte, un pezzo di pane e dei biscotti. ―Riesci a masticare?― al biondo sembrava una domanda un po’ stupida da fare, però, in fondo, si era appena svegliato da due giorni di sonno, ed aveva parlato per la prima volta dopo ben due settimane e mezza. Envy annuì, e come due giorni prima, mangiò in silenzio.

Sembrava che avessero fatto un muto accordo: nessuna parola, nessun insulto, nessun ringraziamento. Solo silenzio. Ognuno immerso nei propri pensieri per lunghi minuti, fin quando qualcuno non sarebbe entrato e avrebbe rotto quella quiete. A differenza della prima volta, rimasero soli per più tempo. Non entrò nessun dottore, non entrò Roy Mustang, né qualche soldato, per due lunghe ore, che loro trascorsero in quiete e silenzio.

Poi, la porta venne spalancata, e Winry Rockbell fece il suo ingresso trionfale, seguita da Alphonse Elric. La ragazza, sorridente, si avvicinò ad Edward e lo salutò con un rapido abbraccio, poi focalizzò la sua attenzione su Envy.

―Ciao!― incominciò, stringendo tra le dita un sacchetto di plastica. ―Non so se ti ricordi di me. Sono Winry Rockbell.―

Envy la osservò, senza uno sguardo preciso. ―Mi ricordo.― si limitò a rispondere, e Winry ne fu sorpresa. Si voltò verso Edward e gli tirò una ciocca di capelli, facendolo arrossire.

―Avevi detto che non parlava!― esclamò, ma le sue erano sgridate che mascheravano un sorriso. Envy rimase a guardarli bisticciare. Perché erano tutti così felici? Perché tutti si preoccupavano per lui? Lo avevano definito mostro tante di quelle volte da perderne il conto. Perché, in quei giorni, lo trattavano come uno di loro? Perché lo trattavano come un umano? Sembrava come se la notizia della riuscita di quell’esperimento nascondesse un segreto che solo gli umani potevano comprendere. Se era veramente così, di che segreto si trattava? Perché avevano scelto proprio lui, che voleva mettere la parola fine alla sua vita? Per uno scopo preciso, oppure per commiserazione? Eppure, Roy Mustang aveva provato ad ucciderlo. Tutti avevano provato ad ucciderlo. O era solo una messa in scena? Troppe domande senza risposta. Se avesse continuato a tormentarsi con quei dubbi, gli si sarebbe fritto il cervello.

Winry tornò a portare la sua attenzione su Envy, e sorrise di nuovo. Poi, gli porse il sacchetto, raggiante. ―Ti ho portato una cosa!― esclamò. ―So che il cibo dell’ospedale non è il massimo, e quindi ho pensato di farti questa!―

Edward sgranò gli occhi, mentre il ragazzo afferrava il sacchetto e lo scrutava. ―E’ la tua torta di mele, Winry? Ne voglio una anche io! Fanne una anche per me!― sul volto di Edward due lacrime teatrali si formarono al bordo degli occhi, mentre afferrava la gonna dell’amica.

Winry prese la chiave inglese che si portava sempre appresso e gliela tirò in testa con ira. ―Idiota! E’ per i malati! Te la farò quando sarai più maturo, fuori da questo ospedale, e alto!― malato? Envy non capiva. Perché lo definivano malato? Lui non era malato. O forse sì?

La furia sembrò scemare fin dentro Edward, e impregnarlo fino al midollo. Saltò su dalla sedia e agitò un pugno per aria. ―CHI SAREBBE IL GRANELLO DI SABBIA CHE NON VIENE VISTO NEANCHE PER SBAGLIO?!― sbraitò.

Alphonse, a quel punto, si avvicinò a loro, e posò una mano sulle loro spalle. ―Avanti, ragazzi, smettetela! Non dovreste fare queste scenate davanti ad un malato!― li sgridò. Ancora quella parola, malato. Perché continuavano a definirlo così?

Osservò la torta di mele, che emanava un profumo intenso. ―Grazie.― disse, rivolto a Winry. Lei sorrise di rimando, posando una mano dietro la testa.

―Non mi ringraziare! Mi sembrava solo giusto!― Envy la interruppe prima che potesse continuare.

―Perché mi tratti così?― domandò, di punto in bianco. ―Io sono quello che ha scatenato la guerra di Ishval. Io ho ucciso Hughes.―

L’aria nella stanza sembrò congelare, la temperatura della stanza sembrò scendere sotto lo zero. Edward lanciò un’occhiata assassina al ragazzo, e Alphonse sobbalzò sul posto. Winry resto a fissare il pavimento, immobile. Poi, dopo lunghi attimi, esclamò: ―Lo so. Ma questo… questo non c’entra niente.― prese un profondo respiro. ―So che sei stato un assassino, e lo sei ancora. E per questo non ti perdono. Non lo farò mai. Però… penso che tu abbia avuto la tua punizione, anche se in scala minore a tutto ciò che hai provocato. Ma se quel giorno tu fossi morto… sarebbe stato da codardi. Stavi scappando dalle tue colpe. La morte dell’assassino di più di due persone non potrà mai valere tanto quanto quelle due persone. Un assassino non vale quanto tutte le sue vittime.―

Winry alzò di scatto la testa e strinse i pugni. ―Sconterai la tua pena com’è giusto che sia, ma non lo farai morendo, e non sarai torturato. Vivrai come questi inutili esseri umani che hai sempre disprezzato! E non ti sarà concesso il lusso di decidere della tua vita. Questa è la tua punizione.―

Si voltò, e, a passo veloce, uscì dalla stanza. Envy voltò le mani verso l’alto e ne osservò i palmi. Non vedeva niente di diverso. ―Umano?― domandò, sottovoce. Guardò Edward. ―Io sono… umano?―

Il biondo non rispose. Si limitò a sedersi sulla sedia nuovamente, il capo abbassato. Alphonse si voltò e uscì dalla stanza, seguendo Winry di corsa. Quando i suoni dei suoi passi furono spariti, Envy riprese parola. ―Rispondimi. Ehi… ehi! Fagiolino d’Acciaio! Rispondimi!― afferrò il biondo per le spalle e lo scosse. ―Rispondimi! Cos’avete fatto?! EHI!―

Edward si alzò, sgusciando via dalla sua presa tanto facilmente quanto mai era stato. Si voltò, e uscì dalla stanza in silenzio. Envy allungò una mano verso la porta, richiamandolo. ―Rispondimi! Nanetto! Ehi! EHI!― due medici fecero irruzione nella stanza, tirando qualcosa fuori dalla loro tasche. Envy non ci fece caso, e restò ad osservare la porta, aspettandosi che da un momento all’altro Edward potesse rientrare, e continuando a chiamarlo.

―Fagiolino d’Acciaio! EHI! EHI! Ehi! Ehi… ehi...― abbassò la mano, e si lasciò cadere di nuovo tra le lenzuola, osservando la porta. ―Ehi...―

Voltò la testa molto lentamente, verso di medici, intenti a trafficare con i tubicini a cui era legato. Li osservò, immobile. ― … ehi… ―

I medici gli dissero qualcosa, qualcosa che non volle sentire, poi uscirono dalla porta e lo lasciarono solo. Solo con sé stesso, il nuovo sé stesso. Solo con un corpo che non riconosceva, e che non gli apparteneva, e per la prima volta in vita sua, si sentì estraneo a sé. Gli avevano tolto veramente tutto ciò che aveva. In fondo, era come se fosse morto quel giorno. Era diventato un misero umano: fragile, e con speranze inutili.

Rimase a rimuginare su quanto la sua vita fosse diventata inutile per ore e ore, fin quando la porta non venne lentamente spalancata, e Alphonse Elric fece il suo ingresso nella stanza. Si avvicinò al letto e rimase ad osservare Envy per qualche secondo, poi sospirò e prese parola. ―Devi scusare il fratellone. Non è di buon umore, quindi non è voluto venire.―

Il ragazzo scosse la testa, restando in silenzio nonostante l’effetto del farmaco fosse svanito da oltre una buona mezz’ora. ―Hai fame?― domandò Alphonse. Envy scosse la testa, voltando la testa verso il cielo. Rimasero in silenzio per qualche secondo. Non era di quei silenzi rilassanti che calavano quando c’era Edward. Era un silenzio carico di tensione e d’imbarazzo.

Improvvisamente, Envy esclamò: ―Posso uscire?―

Alphonse deglutì, e lanciò un’occhiata alla finestra con aria preoccupa, poi prese a torturarsi le mani, passando talvolta una di quelle tra i capelli biondi, corti e pettinati. ―N-non so… dovresti chiedere a un medico…! Però n-non mi pare il caso… insomma, ti sei ripreso da poco… non so se… mi spiego.― borbottò, balbettando sotto pressione.

―Okay.― rispose l’altro, quasi in un sussurro, senza nemmeno guardarlo. Alphonse indicò la porta, retrocendo lievemente.

―Vuoi che chiamo qualcuno? Non so… un dottore… o il colonnello… no, il colonnello meglio di no. Sì, chiamerò un dottore! Oppure un’infermiera carina.― e sparì oltre lo stipite della porta, lasciandolo solo. Envy sospirò, e lanciò uno sguardo alla cinghia che lo ancorava al letto. Se non ci fosse stata, si sarebbe volentieri alzato, anche solo per sgranchirsi le gambe, e avrebbe fatto volentieri anche una capatina sia in bagno che in giardino. Non ne poteva più di stare a letto. Aveva bisogno di muoversi.

La porta venne spalancata, e il giovane dottore, Robert, fece il suo ingresso. Sorrise al ragazzo, e si avvicinò al letto, sedendosi sulla sedia che vi era di fianco. ―Come ti senti?― domandò.

―Meglio.― rispose Envy, senza guardarlo.

―Alphonse mi ha detto che vuoi uscire.― intervenne il dottor Robert. Il ragazzo alzò le spalla.

―Se fosse possibile...― rispose, voltandosi verso l’uomo.

―Proverò a farne parola con qualche superiore. Ti farò sapere.― esclamò, poi tirò fuori da una delle grandi tasche del camice bianco un attrezzo, lo stesso con cui gli aveva udito il battito del cuore la prima volta che aveva ripreso conoscenza. Il dottor Robert, vedendo quell’interesse per l’attrezzo, rise di gusto. ―Questo è uno stetofonendoscopio. Serve a sentire il tuo battito cardiaco. Ho bisogno di sapere se è regolare, per poter dire che stai bene.―

Il ragazzo non rispose. Battito cardiaco. Ne aveva avuto uno anche prima di diventare umano? Rimase fermo per tutto il tempo necessario alla visita, poi ascoltò in silenzio le considerazioni del medico: funzioni vitali in regola, dimagrimento e probabile stanchezza come effetto collaterale degli svariati farmaci.

―Ti farò sapere le decisioni dei superiori. Per ora resta a riposo.― come se avesse fatto altro, o avesse molto da fare, si rammentò Envy. Avesse almeno qualcosa da leggere, magari. Il medico sparì oltre lo stipite della porta, e le ore, in quella stanza, trascorsero in silenzio fino al calare della sera, quando il sole calò il suo sipario oltre gli alti edifici di Central City, lasciando spazio alla lune e alle costellazioni.

Quando la porta si aprì nuovamente, sullo stipite c’era Edward, e in mano stringeva un vassoio. Entrò e chiuse la porta, poi si avvicinò al letto e posò il vassoio sul comodino, al fianco della torta di mele fatta da Winry, che non era stata toccata. ―Non hai mangiato la torta.― constatò Edward, osservando Envy. ―Dovresti provarla, per lo meno. Ti darebbe energie.―

―Senti, fag…― il ragazzo deglutì, attirando l’attenzione di Edward, che lo guardò come se stesse per ucciderlo. Envy ricominciò la frase. ―Senti, Edward… è vero che sono diventato un umano?―

Il biondo abbassò la testa e strinse la stoffa dei pantaloni, poi rispose. ―Sì.―

―Vi serviva un homunculus per testare il prodotto?― domandò, ancora.

―Sì.―

―Se non fossi stato io, ci sarebbe stato qualcun altro? Non ero indispensabile, giusto?―

―Sì.―

―Gli altri sono morti?―

―Sì.―

―Ci avete sconfitti?―

―Sì.―

―Senti, Edward...― Envy deglutì, mentre la voce gli si incrinava leggermente, e si abbassava ad un sussurro. ―… rimarrò così a vita?―

―Non lo sappiamo.―

―Quest’esperimento vi serviva per sconfiggerci?―

―No. Era solo… un test.―

―Perché?―

―E’ meglio prevenire che curare.― rispose Edward. ―Nel caso vengano creati altri homunculus, in questa maniera sapremo come batterli.―

―Edward…?― chiamò, ancora, Envy.

―Mh?―

―Tu mi odi?― la domanda sorprese il biondo. Edward si voltò verso il ragazzo e lo guardò stupito.

―Tu… tu non vuoi che ti odi?― domandò. Envy non rispose. Rimase ad osservare il cielo notturno che aveva visto così tante volte, poi chiuse gli occhi.

―No. Ne hai tutto il diritto.― rispose, mentre una calda e solitaria lacrima gli rigava la guancia. Edward allungò una mano verso di lui e gliela asciugò con il guanto bianco, facendolo voltare, stupito.

―Smettila di piangere.― si giustificò. ―E’ la tua punizione. Accettala, come noi abbiamo accettato i tuoi crimini.―

―Senti, Edward...― si osservarono negli occhi. ―… che sapore hanno le mele?―

Il biondo sorrise. ―Sono dolci.―

―E che sapore ha il dolce?― domandò nuovamente Envy. Edward sembrò rifletterci.

―Un buon sapore.― rispose, poi afferrò la torta di mele di Winry e il coltello del vassoio. Tagliò una piccola fetta e gliela porse. Il ragazzo la afferrò e la osservò, poi diede un piccolo morso. Era dolce. Ecco che sapore aveva. Un sapore dolce. E non si poteva descrivere quel sapore. Era semplicemente così.

―Com’è? Ti piace?― domandò Edward. Envy annuì, osservando di sottecchi Edward che contemplava il resto della torta.

―Prendila, se vuoi.― quel pensiero, alle orecchie di Edward, suonò come un terribile insulto, oppure un’inviolabile regola. Osservò con occhi sgranati Envy che finiva la fetta di torta, e scosse con forza la testa.

―Stai scherzando?― domandò. ―Se lo faccio e lo viene a sapere, Winry mi ucciderà!―

―Basta che non lo sappia.― rispose il ragazzo. Non vedendo nessuna reazione, Envy afferrò coltello e torta e ne tagliò una fetta, porgendogliela. ―Forza, dimmi com’è. L’unica cosa che posso dirti è che è dolce.―

Edward rise, arrendendosi e prendendola in mano. ―Il malato si rimette in fretta, a quanto vedo!― esclamò, dando un grosso morso alla torta. ―Che buona!―

―Non sono malato.― rispose Envy, posando il coltello sul vassoio. Edward lo osservò.

―Sei bloccato a letto, quindi sei malato.― rispose, dando un altro morso alla torta. Envy gli lanciò un’occhiataccia.

―Sono bloccato a letto perché c’è una cinghia che mi tiene incollato al materasso.― rispose, e per la seconda volta nella giornata, il gelo calò in quella stanza. Edward inghiottì l’ultimo boccone di torta e lo guardò con astio.

―Quella cinghia è lì per evitare che tu te ne vada in giro come ti pare.― Envy fece un verso di scherno, voltando la testa dalla parte opposta.

―Lo so benissimo, cosa credi, nanetto?― esclamò, e prima che Edward potesse prendersela per il soprannome, continuò. ―So benissimo che non posso fare più niente. So benissimo che sono diventato la vostra bambolina anti-stress. Cosa credi? Che sia stupido? Però, è una punizione, giusto? Perché io sono un criminale, no? E i criminali non hanno diritto di esprimere la propria opinione.―

Edward non rispose. Rimase in silenzio ad ascoltare quel discorso, poi sobbalzò all’improvvisa domanda del ragazzo. ―Senti, Edward… a te piace Winry, vero?― il biondo avvampò di scatto, e prese a bofonchiare scusanti. Envy si voltò verso di lui e lo guardò. L’altro si fermò, notando una scintilla in quegli occhi spenti. Cos’era? Tristezza? ―Dimmi la verità.―

Edward arrossì vistosamente, e spostò lo sguardo sulla finestra. ―Forse… un pochino...― rispose, vago e imbarazzato.

―Dovresti dirglielo.― esclamò Envy. Edward lo guardò come se fosse pazzo.

―Ma se non ne sono nemmeno sicuro!― esclamò. ―Insomma… potei vederla solo come una buona amica!―

Envy lo osservò. ―Non ne so molto, anzi. Non ne so proprio niente, quindi è un po’ strano che sia io a dirti questo, però...― osservò le coperte, poi Edward. ―… non credo che una persona come te arrossirebbe per una buona amica.―

Edward spostò lo sguardo da lui e deglutì. ―Ti prego, cambiamo argomento.― esclamò, guardandolo con la coda dell’occhio, con le guance ancora color porpora.

 
   
 
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