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Autore: Adeia Di Elferas    17/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'alba era ancora discretamente lontana e il freddo penetrava nella rocca di Ravaldino come la lancia affilata di un soldato nelle carni del nemico.

Come d'accordo, Caterina era andata a bussare alla porta di suo figlio Galeazzo che, all'istante, aveva aperto la serratura e le si era presentato già pronto e ben coperto, con addosso abiti perfetti per la caccia con quel clima.

Si salutarono in fretta, senza bisogno di tante parole e poi andarono alla sala delle armi. La Sforza scelse per sé una spada pesante da una mano e mezzo, la lancia da cinghiale che le aveva regalato Giovanni e un arco. Siccome non aveva idea di che animali avrebbe potuto trovare, con la neve tanto alta, preferiva non farsi trovare impreparata.

Il figlio, quasi imitandola, aveva scelto in modo simile il suo arsenale, optando, però, per un'arma meno difficile da gestire, rispetto alla lancia da cinghiale. Al suo posto, infatti, aveva preso una picca lunga poco più di un metro, più adatta, forse, a un allenamento che non a una battuta nei boschi, ma Caterina non criticò la sua scelta e così il Riario non cambiò idea.

“Devo andare nelle cucine a prendere delle provviste?” chiese Galeazzo, mentre, carichi di ferro, andavano verso le stalle.

“No, non ce n'è bisogno.” rispose la Tigre, ogni parola che sollevava un sottile strato di vapore.

“Torneremo prima di mezzogiorno?” chiese allora il Riario, che aveva sperato in una giornata interamente dedicata alla caccia assieme alla madre.

“No, no... Pensavo di stare fuori fino al tardo pomeriggio.” ribatté la donna, confermando le speranze di Galeazzo: “Ma le provviste non ci serviranno, perché mangeremo ciò che caccerai tu.”

Nelle stalle, la Contessa svegliò uno degli stallieri e si fece preparare due cavalli robusti e stabili.

Avrebbe voluto uscire con il suo stallone preferito, ma non aveva senso rischiare di azzopparlo per niente, non con una guerra in corso. In caso di bisogno, doveva essere pronto e in salute per partire alla carica contro i veneziani o i faentini.

Dopo aver sistemato le loro cavalcature, la Sforza fece un cenno a Galeazzo ed entrambi montarono in sella. Anche il tredicenne, malgrado l'altezza notevole della sua bestia, riuscì a montarlo senza bisogno di aiuto, e questo dettaglio piacque particolarmente alla madre, che gli dedicò uno sguardo d'apprezzamento raro da scorgerle in viso.

Con il buio che premeva ancora su di loro e un cielo carico di nuvole che probabilmente avrebbe portato altra neve, la Tigre e suo figlio lasciarono la rocca e si inoltrarono in breve nei boschi della riserva di caccia privata della Contessa.

 

Giovanni Bentivoglio si passava nervosamente l'unghia dell'indice sul mento, grattando la barba ruvida che quel giorno non era ancora stata passata a fil di rasoio.

La lettera che gli aveva mandato suo figlio Annibale l'aveva molto indispettito. Non gliene importava nulla dei bagagli perso, tanto meno dei soldati. Con un po' di soldi e pazienza, si potevano ricomprare gli uni e gli altri.

Era piuttosto la figura da fesso fatta da Annibale a bruciargli. Prima di tutto aveva abbandonato il fronte senza averne il permesso, e questo dettaglio, già di per sé era sufficiente a dubitare della sua fermezza. Poi era sceso a patti con la Leonessa di Romagna, una donna dalla quale chiunque si sarebbe atteso un tranello, e infine si era fatto fregare come un pollo e se ne lamentava anche.

Il signore di Bologna guardò svogliatamente la colazione che aveva davanti a sé. Trovava l'uovo troppo cotto e il pane quasi crudo. Perfino il vino gli sembrava eccessivamente amaro e l'acqua aveva un che di torbido che gliela rendeva indigesta.

Il buon nome dei Bentivoglio era a rischio. Già i rapporti con Venezia erano tesi – soprattutto per via di Alessandro, che aveva sposato una Sforza, la signora di Casteggio – e quelli con Milano rischiavano di incrinarsi, ci mancava solo quell'incidente con la Tigre di Forlì!

“Portatemi il necessario per scrivere.” disse a un certo punto Giovanni, chiamando a sé un servo con un cenno della mano: “E portate via questa robaccia. Mi ha fatto passare la fame.” soggiunse, indicando con sdegno il piatto che aveva davanti.

Quando gli portarono inchiostro, penna e un foglio, il Bentivoglio si accigliò un momento e poi si dilungò in una lettera molto dettagliata in cui pregava suo figlio di non insistere troppo, con la Sforza, e di concentrarsi, piuttosto, su Ottaviano Manfredi, che pareva il vero colpevole di quel furto.

Ribadì almeno cinque volte di non far nulla né pretendere altro dalla Contessa, ma, piuttosto, insinuò quanto fosse necessario liberarsi presto del Manfredi, cugino di Astorre, suo nipote, prima che montasse la testa alla Leonessa, convincendola ad aiutarlo a prendere Faenza.

Firmata la missiva, Giovanni guardò pigramente verso i finestroni del suo palazzo. Non aveva alcuna voglia di uscire e il sole non era ancora sorto, benché fosse ormai già mattina. Le candele sul tavolo davano al salone una luce quasi irreale e, se non avesse avuto tante preoccupazioni a serrargli una morsa attorno al cuore, il Bentivoglio se ne sarebbe volentieri tornato a letto a dormire.

“Sono nel mio studio a prepararmi per la giornata.” disse, rivolgendosi all'aere, sperando che qualcuno dei servi lo sentisse: “Se mi cercano, dite di aspettarmi nella saletta.”

 

Per gran parte della mattina il bosco innevato aveva dato poche possibilità alla Contessa e a suo figlio, tuttavia, poco prima di mezzogiorno, Galeazzo aveva intravisto un paio di lepri disorientate che si facevano strada a fatica nella neve.

Forse non era il genere di preda che si catturava con uno slancio di eroismo, ma la Tigre, quando il ragazzino gliele fece notare, gli rivolse un cenno d'assenso, indicandogli un lato, ed entrambi, saldi sulla sella del proprio cavallo, presero l'arco ed estrassero quasi contemporaneamente una freccia dalla faretra.

Nell'aria immobile e gelida, e nel silenzio quasi perfetto e ovattato che li circondava, potevano sentire il sottile scricchiolare nella neve fresca sotto le zampe esili delle due bestioline. Le loro cavalcature erano granitiche come statue, avvezze all'obbedienza più ancora che alla corsa.

Appena le due lepri si fermarono un istante, le orecchie tese e le zampe anteriori sollevate vicino al petto, Caterina tese un po' di più la corda e lo stesso fece Galeazzo. Le loro frecce partirono nel medesimo istante e, come guidate da un filo invisibile, ciascuna colpì i pieno il proprio obiettivo.

“Hai un'ottima mira.” disse la Leonessa, non dovendo più tacere, visto che tanto le loro prede ormai erano cadute nella trappola.

Il Riario sorrise e la seguì fino al punto in cui il sangue scuro delle bestiole stava macchiando la candida neve.

“Che dici, ci fermiamo a mangiare? Credo che alla Casina ci sia anche un po' di vino...” disse la Sforza, scendendo da cavallo e recuperando le due lepri.

Il ragazzino annuì, felice di poter finalmente mettere qualcosa in pancia, a maggior ragione se qualcosa cacciato assieme a sua madre.

“Speriamo, nel pomeriggio, di trovare qualche preda più grossa...” commentò piano la donna, assicurando alla sella gli animali e abbozzando un sorriso di incoraggiamento al figlio.

 

“Dov'è nostra madre? Non l'ho vista tutta la mattina...” fece Ottaviano, sedendosi accanto a Bianca nel salone dei banchetti.

Questa, che era appena stata dal castellano per discutere a grandi linee dell'organizzazione del banchetto di Natale, si servì un po' di verdure e un po' di carne e rispose: “Nostra madre è uscita prima dell'alba. È andata a caccia con Galeazzo.”

Nel sentire ciò, il fratello si paralizzò per un istante, la mano che stava andando alla brocca del vino ferma a mezz'aria.

“Ah.” commentò, quando si riebbe da quella scoperta: “Lui lo porta a caccia. Certo.”

Il tono rancoroso con cui aveva parlato fece sollevare lo sguardo della sorella che, deglutendo il primo boccone del suo pranzo, lo fissò con occhio quasi incredulo, riprendendolo: “Non parlare in questo modo. In fondo, quando nostra madre voleva portarci te, a caccia, tu non ci andavi mai.”

Ottaviano strinse le labbra, chiudendosi in un silenzio che lasciava intendere molte più cose di qualsiasi lungo discorso. Bianca, nel frattempo, lo osservava di sottecchi. I capelli gli erano ormai ricresciuti quasi del tutto, e aveva anche ricominciato a farseli inanellare come faceva a suo tempo il loro signor padre. Il suo fisico, che aveva intravisto una speranza di rinvigorimento quando era stato in guerra, era tornato a farsi molle e informe, le spalle curve e una pancetta che premeva irriverente contro i bottoni del giubbetto imbottito. Le occhiaie che gli cerchiavano gli occhi, poi, tradivano senza problemi il tormento della sua anima e il dibattimento continuo dei suoi sentimenti.

Il ragazzo bevve un po' di vino, mangiò in fretta quello che aveva davanti, senza nemmeno badare ai sapori che si mescolavano, e poi, finalmente, trovò lo spirito per ribattere ai rimproveri della sorella: “Io a caccia con lei non ci andavo perché sapevo che in realtà lei non voleva che io accettassi.”

“Ti sbagli.” rispose subito Bianca, scuotendo il capo e allontanando un po' da sé il piatto già vuoto.

“Non mi sbaglio. Mi ha sempre odiato. Sempre. Da quando sono nato.” disse a voce bassa il Riario, bevendo ancora.

La sorella sospirò. Sapeva bene che il fratello non aveva tutti i torti, ma sapeva anche che la loro madre aveva avuto i suoi motivi che, comprensibili o meno che fossero, anche Ottaviano conosceva.

“Però non hai mai fatto nulla per conquistarti il suo affetto. Avresti dovuto combattere per farti spazio nel suo cuore, quando era il momento. Adesso le hai fatto troppo male. Come potrebbe riuscire a perdonarti e volerti bene? Tu hai fatto uccidere l'uomo che amava. Invece di lottare per farti amare, hai lottato per farti odiare.” sussurrò Bianca, benché le paresse assurdo che un figlio dovesse lottare con le unghie e coi denti, per farsi amare da una madre che lo odiava solo per riflesso dell'odio provato per il marito.

“Non sono mai stato bravo, a combattere.” commentò piano Ottaviano, sollevando appena il calice verso di lei.

La sala cominciava a farsi affollata, così il ragazzo, che bene o male si era riempito lo stomaco con il cibo e la testa con il vino, salutò la sorella con un rigido: “Ci vediamo più tardi.” e la lasciò sola ai suoi pensieri.

 

Entrare alla Casina assieme a Galeazzo aveva fatto uno stano effetto, a Caterina. Anche se si era recata al suo casino di caccia più di una volta, da che era morto Giovanni, l'aveva sempre fatto da sola.

Permettere a suo figlio di vedere quella che per lei era stata un'alcova di pace e un luogo d'amore, la faceva sentire strana.

Il ragazzino aveva notato l'inquietudine della madre, ma, simile a lei nel carattere, non aveva detto a parole quanto anche a lui sembrasse strano essere lì. Tuttavia trovava la Casina molto accogliente e scoprì che non gli dava nemmeno fastidio vedere il letto – praticamente l'unico mobile presente oltre al tavolone – su cui di certo sua madre aveva passato le notti con il Medici.

Rispetto al Paradiso, che restava abbandonato e chiuso ormai da anni come vestigia dell'amore tra la Sforza e Giacomo Feo, la Casina aveva qualcosa di caldo, in sé, come se anche dopo la morte di Giovanni qualcosa di lui fosse rimasto a intiepidire l'ambiente.

Dopo un primo momento in cui si occuparono di accendere il fuoco e togliersi i mantelli umidi di neve, madre e figlio scuoiarono le lepri assieme e Caterina fu felice di notare una certa manualità, nel figlio. In breve le carni furono messe sul fuoco e bastò poco affinché fossero pronte.

Seduti sul bordo dello stretto letto, i bicchieri di legno colmi di vino nero fino all'orlo e le lepri sotto ai denti, madre e figlio si presero un po' di tempo per mangiare in silenzio, guardando le fiamme che bruciavano nel camino.

Solo quando restarono gli ossi e basta e i calici furono vuoti, allora la Tigre cercò di fare conversazione.

Indicando con un cenno del capo le pelli delle lepri, disse: “Le daremo a Bianca. Brava com'è a cucire, potrebbe farne uscire una buona imbottitura per un paio di guanti o anche per il cappuccio di un mantello, che ne pensi?”

Galeazzo, che compiva tredici anni quel giorno, non era abituato a bere vino, se non un dito ogni tanto, magari durante i banchetti più movimentati. Aveva il viso un po' arrossato e gli occhi un po' acquosi, tuttavia non si sentiva troppo alticcio, ma solo un pochino più sciolto.

“Sì, mia sorella è davvero brava, con le stoffe e le pelli.” concordò.

Mentre diceva così, Galeazzo aveva allungato un momento le man verso il camino acceso, per scaldarsi le dita. Caterina le osservò con attenzione. Erano molto belle e, benché ancora quasi da bambino, davano l'idea che un giorno sarebbero state anche forti. Le ricordarono moltissimo quelle di suo padre.

“Sai...” cominciò la donna, con un mezzo sospiro, gli occhi verdi sempre fissi sulle belle mani del figlio: “Io ho voluto chiamarti Galeazzo Maria non tanto nella speranza che crescendo tu diventassi come mio padre...”

Il ragazzino sollevò gli occhi chiari verso la madre, ritirando le mani sulle ginocchia e facendosi più attento.

“Mio padre era un uomo difficile. Facile agli eccessi di collera e di violenza. Non vorrei che tu diventassi come lui.” spiegò la Leonessa, sempre a voce bassa: “Io ti ho chiamato Galeazzo Maria perché amavo moltissimo mio padre e quindi speravo che dandoti il suo stesso nome, sarei riuscita ad amare anche te.”

Il tredicenne si morse il labbro, molto colpito da quella rivelazione. Sapeva, come sapevano tutti i suoi fratelli maggiori, quanto la loro madre avesse faticato ad accettarli e, forse, ancora non c'era riuscita.

Galeazzo non aveva mai avuto il coraggio di chiedere apertamente a Bianca o a Ottaviano se sapessero l'esatto motivo dell'odio che la Tigre aveva sempre nutrito nei confronti del loro padre, e non aveva voglia di saperlo nemmeno quel giorno.

Quando suo padre era morto, lui non aveva ancora compiuto tre anni. Non si ricordava praticamente nulla di lui, se non la fugace sensazione di qualche abbraccio. Ricordava bene che se arrivava un gesto di tenerezza, era da suo padre che doveva aspettarlo. E ricordava ancora benissimo la paura, sia quella del giorno in cui il Conte era stato ucciso, sia dei giorni che erano seguiti, quando lui con sua madre, sua nonna, sua zia, i suoi fratelli e le balie era stato rinchiuso in cella, in attesa di sapere cosa gli Orsi ne avrebbero fatto di tutti loro.

“Ti manca tuo padre?” chiese a bruciapelo Caterina, osservando l'espressione un po' sofferente che si era dipinta sul viso del figlio.

“Io... Io non lo ricordo nemmeno. Non ricordo nemmeno il suo viso.” confessò Galeazzo, senza approfondire troppo la natura confusa delle memorie che serbava del padre.

“Già.” soffiò la donna: “Forse eri troppo piccolo, quando è morto, per potertelo ricordare.”

Nel pensare ciò, la mente della Contessa andò subdolamente a Giovannino. Lui, quando era morto suo padre, aveva appena sei mesi. Se Galeazzo forse conservava qualche vago sentore di Girolamo, il suo fratello più piccolo non avrebbe mai potuto ricordare nulla di Giovanni.

La sensazione di ingiustizia che provò con quel pensiero, le rese gli occhi lucidi, tanto che, quando il figlio riprese a parlare, la Tigre temette di non riuscire a trattenere le lacrime.

“A volte ho sentito i miei fratelli maggiori dire che avrebbero preferito che la sua tomba fosse qui, a Forlì.” fece il ragazzino, sistemandosi, un po' a disagio, sul materasso: “Purtroppo anche se qualcuno di noi volesse recarsi sulla sua tomba a pregare... Imola ormai è troppo pericolosa, da raggiungere. Soprattutto per Bianca.”

La Sforza rimembrava benissimo di quando aveva deciso di seppellire Girolamo a Imola. L'aveva fatto non solo per non averlo più vicino, ma anche per assecondare un breve e debole slancio di altruismo, nel pensare a come il suo primo marito avesse sempre preferito quella città, più tranquilla e a lui meno ostile.

Mentre ragionava su come anche sua madre Lucrezia e sua sorella Bianca fossero sepolte a Imola, Galeazzo riprese: “O, almeno, pur non potendo avere vicina la tomba di nostro padre, avremmo voluto molto poter riportare a Forlì il corpo di messer Giovanni.”

Quell'osservazione fece trasecolare la Tigre, che, sorpresa, domandò pleonastica: “Davvero?”

Il figlio annuì: “Messer Giovanni manca a tutti noi. Vederlo partire e non tornare più non è stato facile. Bernardino piange ancora adesso, quando lo sente nominare.”

Era il vino a rendere tanto loquace Galeazzo, che, di norma, non si sbilanciava mai più di tanto, limitandosi ad assorbire tutto quello che sentiva dire e tutte le impressioni che aveva per poi trattenere tutto quanto dentro di sé, come una spugna.

“Bernardino si era attaccato molto a lui.” concordò Caterina, sentendo dentro di sé due sensazioni contrastanti.

Da un lato era addolorata nel sapere che i figli soffrivano così tanto per la morte di Giovanni e per il non poterlo piangere su una tomba. Dall'altro, invece, era felice di sentire quanto il suo terzo marito fosse stato capace di farsi amare. Forse non era una consolazione tangibile, ma in un certo senso le alleggeriva l'anima.

“A Bernardino manca anche moltissimo suo padre.” precisò Galeazzo: “A volte me ne parla e dice che si ricorda di quando lo andava a trovare, da piccolo, quando ancora non viveva alla rocca con noi. Dopo che è morto, dice che se non ci fosse stato messer Giovanni, lui...”

Siccome Caterina si era messa una mano sulla fronte e sembrava molto provata da quel dialogo, il figlio lasciò calare la voce, evitando di aggiungere che il fratello spesso e volentieri diceva che, dopo suo padre, il Medici fosse stato l'unico, al mondo, che gli avesse voluto un po' di bene.

“A voi messer Giovanni manca?” domandò Galeazzo, il rossore dato dal vino che pian piano svaniva, lasciando il posto a un colore più legato all'imbarazzo.

“Cosa ti fa credere che non sia così?” ribatté la madre, che aveva avvertito nel tono del ragazzino una mezza accusa.

Il modo in cui le labbra piene del Riario si incrinarono parlò per lui. Avrebbe voluto dirle che, per quanto fosse ancora abbastanza piccolo, forse, per capire davvero certe cose, sapeva come i suoi fratelli che lei, dopo la morte del terzo marito, aveva già avuto molti altri uomini, benché da quel maledetto 14 settembre non fossero passati più di tre mesi.

“Mi manca almeno quanto mi manca Giacomo.” fu la risposta che diede Caterina alla fine, sperando di non dover dare ulteriori spiegazioni: “Sono due dolori molto diversi, ma sono entrambi talmente forti da spezzarmi il fiato.”

Abbastanza soddisfatto da quelle parole e desideroso di interrompere quel dialogo, che lo stava agitando nel profondo, Galeazzo annuì e cambiò radicalmente argomento, lasciando indietro i discorsi sui sentimenti e portando la conversazione su qualcosa che fosse più congeniale a entrambi.

“Se dovessimo perdere la guerra – chiese, accigliandosi – che ne sarebbe di noi?”

Cogliendo quell'appoggio come una cima lanciata dal parapetto di una nave, la Sforza iniziò a discutere con il figlio di guerra e strategia e così tutti e due si persero in discorsi da soldati per quasi due ore, dimenticando in apparenza tutti i loro dolori.

 

 
   
 
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