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Autore: Adeia Di Elferas    17/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano Manfredi si passò un pezzo di straccio sul volto. L'aveva bagnato con un po' di neve, e così poté finalmente lavarsi un po' il viso, su cui erano rimasti i segni dell'ultimo scontro a cui aveva partecipato.

Guardò il cielo livido e si chiese con un velo di rabbia perché mai nessuno accennasse a interrompere gli scontri in quella stagione. Le ore di luce erano poche e il freddo rimordeva le ossa di quelli che dovevano marciare nella neve. Morire in mezzo al ghiaccio, pensava, non era certo una bella morte. Forse essere ucciso sotto il sole d'agosto era ancora peggio, ma almeno si moriva più in fretta.

Aveva visto con i suoi occhi soldati feriti che si dissanguavano a rilento, rendendo l'anima a Dio anche in alcune manciate di minuti, con quel gelo, mentre, in piena estate, sarebbero morti in pochi istanti.

Era seduto su un tronco secco. L'aveva pulito per bene, prima, per evitare di inzaccherarsi le brache. Finito di ripulirsi la faccia, era passato alla spada. Ne aveva dovuto infilzare solo due, quel giorno, ma i Serenissimi parevano sanguinare come maiali sgozzati. Si era sporcato meno nel corso di certe battaglie...

“Mio signore – lo raggiunse uno dei pochi soldati che lo avevano seguito il quella serie di incursioni nel faentino – allora avete deciso di tornare a Forlì?”

Manfredi prese il pezzo di carne che l'uomo gli stava offrendo. Alcuni dei contadini che avevano sollevato dalla presenza dei veneziani avevano offerto loro un capretto e così l'avevano subito macellato e cotto sul fuoco.

Azzannò un grosso pezzo di carne e poi, con la bocca ancora piena, disse: “Ancora un paio di azioni. Voglio essere sicuro che quasi tutta la parte meridionale del territorio di Faenza sia pronto a stare con noi. E poi torneremo a Forlì. In tempo per Natale.”

Il soldato non riuscì a trattenere un sorriso. Aveva voglia di dormire di nuovo in un letto comodo e di avere la certezza di due pasti al giorno. Sapeva che la Tigre avrebbe ripagato tutti loro con vitto e alloggio, perché quella serie di azioni erano volte a indebolire Astorre Manfredi, al fine ultimo di evitare la consegna forzosa di madonna Bianca al suo sposo.

“Sarà il Natale più bello di tutti.” gongolò l'uomo, già sognando il succulento pranzo che avrebbe fatto, una volta rientrato in città.

“Sperando che non sia l'ultimo.” fece eco Manfredi.

“Questo è sottinteso.” sorrise l'altro, non cogliendo la vena mesta nella voce del suo comandante.

 

Da quando erano ritornati nel cuore del bosco, sia Caterina sia Galeazzo avevano parlato pochissimo. Stavano per rinunciare a trovare una preda degna di tal nome, quando la donna intravide un'ombra scura nella neve.

Alzò una mano, facendo in modo che anche suo figlio facesse fermare il cavallo. Con un dito guantato sulle labbra, smontò di sella e lui la imitò. Legarono le loro bestie all'albero più vicino e poi la Sforza prese dalla sella la sua lancia da cinghiali e la spada.

Ci pensò un momento e poi, decidendo che era l'occasione per mettere davvero alla prova il valore di Galeazzo, porse a lui la lancia e lei si tenne la spada.

Avanzarono con passo calibrato per qualche metro e poi, prima che la Contessa riuscisse a individuare il punto esatto da cui era arrivato, un grosso cinghiale prese a correre in loro direzione.

O, meglio, in direzione di suo figlio.

Nell'avanzare, i due si erano un po' separati e, anche volendo, con la neve così alta la Leonessa non sarebbe riuscita a raggiungerlo in tempo per colpire la bestia al posto suo. Sperò solo che la sua fiducia in lui non fosse mal riposta.

Anche il Riario aveva capito di essere fortuitamente da solo dinnanzi al pericolo. Mettendo in pratica le cose apprese nell'arco degli anni, allargò un po' le gambe, piegando le ginocchia per sopportare meglio il colpo. Tenne la lancia con ambo le mani, bloccandola sotto al gomito, esattamente come gli aveva detto di fare sua madre.

Quando il cinghiale lo raggiunse, a testa bassa e in piena carica, il colpo fu così forte che, dopo un solo istante in cui il ragazzino riuscì a tenere la prese, gli fece sfuggire di mano l'arma. La punta della lancia l'aveva ferito, al collo, ma l'animale era ancora vivo. Galeazzo non venne centrato in pieno dalla sua corsa – rallentata dal colpo subito – per puro miracolo.

Finalmente Caterina era riuscita ad arrivargli accanto, ma il cinghiale, che pure sembrava intenzionato a voltarsi e tornare alla carica, aveva già perso molto sangue e, con un grugnito straziato, a metà galoppo piegò le zampe, finendo con il muso nella neve.

“Stai bene?” chiese la Tigre, afferrando il figlio per le spalle.

Galeazzo era un po' stordito, ma non era ferito. Si era sporcato con il sangue della sua preda, e, nel cadere, si era riempito di neve, ma per il resto non aveva addosso alcun segno di quello che era appena successo.

“Sto bene.” assicurò.

Colta da un sollievo difficile da descrivere, la donna lo strinse a sé in un abbraccio tanto vigoroso che per un secondo tolse il fiato al ragazzino, che, tuttavia, ricambiò la presa con altrettanta foga, incredulo di vedere nella madre quella manifestazione di affetto.

Mentre erano ancora stretti l'uno all'altra, un grufolare fioco e stentato li ridestò. Il cinghiale non era ancora morto e la sua agonia si stava prolungando con uno strazio difficile da ignorare.

“Vieni.” disse piano la Contessa, prendendo per mano il figlio.

Raggiunsero la preda morente. I suoi piccoli occhi tondi li guardavano, pieni di terrore. La Tigre aveva guardato negli occhi molte bestie che stavano morendo, e anche molti uomini. Eppure, ogni volta, sentiva una profonda sensazione di freddo. Era come se quelle pupille nere e fonde le volessero ricordare che alla fine sarebbe arrivato anche il suo turno.

“Tieni.” fece, prendendo da sotto le gonne il suo pugnale e porgendolo al figlio: “Uccidilo.”

Il Riario afferrò l'impugnatura dell'arma della madre, ma era come se qualcosa lo bloccasse.

Caterina rivide se stessa, a caccia con suo padre. Ricordava ancora benissimo di quella volta in cui lui le aveva dato una lezione che non aveva mai dimenticato.

“Finisci sempre quello che cominci. Non lasciare mai nulla a metà.” sussurrò, ripercorrendo le parole che il Duca Galeazzo Maria Sforza le aveva detto, quasi trent'anni prima, nei boschi di Pavia.

Galeazzo prese fiato e poi, mentre una lacrima sorda e muta scivolava fuori dall'occhio tondo del cinghiale, sollevò la lama e con un colpo secco, lo trafisse in pieno collo, uccidendolo sul colpo.

Il corpo dell'animale fu scosso da un breve tremito e poi, prima che la Sforza trovasse qualcosa da dire, il figlio ripulì il pugnale, e glielo porse, guardandola con due occhi duri e fermi che le ricordarono come non mai i propri: “Farò sempre come dite voi, madre.”

Tirandolo a sé un istante, la donna gli diede un bacio sulla fronte e poi, tornando a guardare la carcasse che stava davanti a loro, disse: “Ripuliamolo. È un maschio, hai visto? Macelliamolo con attenzione e riportiamolo alla rocca, prima che faccia buio. Scommetto che tua sorella sarà felice di poterlo far cucinare per Natale, non credi?”

Galeazzo annuì e aiutò la madre a issare la bestia con una corda, in modo che potessero iniziare a prepararne per bene le carni. Sapeva che di norma i cacciatori lasciava quell'incombenza alle cuoche, ma il ragazzino aveva capito quanto la madre trovasse rilassante quel genere di lavoro e così cercò di seguirne le indicazioni, finendo per apprezzare almeno quanto lei l'odore secco del sangue ancora tiepido e il vapore che si sollevava dalla carcassa, nel vento gelido di quel 18 dicembre.

 

“Fatelo stare zitto!” sbottò Pandolfo Malatesta, battendo i pugni sul tavolo.

Le balie si affrettarono ad affaccendarsi attorno alla culla del piccolo Sigismondo, ma il bambino continuava a piangere e strillare come un ossesso.

Il signore di Rimini stava svicolando da tutti i suoi impegni politici e militari con la scusa di stare accanto a suo figlio e a sua moglie, ma se quel neonato non avesse smesso in fretta di frignare, allora il Pandolfaccio avrebbe di certo ritrovato la voglia di starsene sotto i colpi di falconetto dei fiorentini.

“Se gridi a questo modo, non farai che agitarlo di più.” fece notare Violante, con un tono algido che diede i brividi al marito.

Da quando il loro primo figlio era venuto al mondo, la Bentivoglio si era fatta di nuovo distante e impenetrabile, come quella volta che aveva perso il figlio che portava in grembo.

Il Malatesta l'avrebbe volentieri strapazzata per farla tornare in sé, ma temeva troppo di scatenare inutili tensioni con i Bentivoglio. C'erano degli strani maneggi, a Bologna, e aveva anche sentito parlare di un incidente con la Tigre di Forlì.

Lui aveva pochi soldi e aveva pochissimi soldati che potessero dirsi davvero fedeli. Non poteva permettersi di inimicarsi eccessivamente il suocero. Anche se Giovanni Bentivoglio si era sempre occupato molto poco della felicità di sua figlia Violante, Pandolfo sapeva che in casi come quello sarebbe bastata una lettera stonata della donna per dare il pretesto al padre di muoversi contro Rimini e, magari, condurla sotto il proprio dominio, sbarazzandosi del genero.

“Scusami.” disse il Malatesta, sforzandosi notevolmente al solo scopo di non urtarsi troppo con Violante: “È che stavo pensando a come rispondere alla lettera che mi è arrivata da Venezia e sono nervoso.”

La Bentivoglio lo fissò a lungo, gli occhi spenti e il viso scarno. Aveva mangiato molto poco, dopo la nascita del figlio, e non aveva un colorito salutare.

Secondo il medico, però, stava bene e tutto il suo problema arrivava solamente dall'inquietudine del suo spirito.

“Dovresti occuparti della corrispondenza nella tua stanza, senza angustiare noi con i tuoi problemi, non pensi?” fece Violante, sospirando e adagiandosi ancor più mollemente sui guanciali del letto.

Una delle balie osò sollevare lo sguardo verso il suo padrone, quasi a dire che la Bentivoglio aveva ragione, ma il modo in cui lui ricambiò l'occhiattaccia, la spaventò tanto che, con il pretesto di andare a prendere della biancheria pulita per il piccolo, lasciò la stanza.

Anche l'altra balia si spaventò, più per la reazione dell'amica che non per altro e borbottando una mezza scusa, uscì anche lei.

Rimasto solo con la moglie e con il figlio che riprendeva a piangere disperato, forse preda di qualche colica o, semplicemente, insofferente alla tensione che percepiva, Pandolfo si alzò e andò al letto: “Io non mi fido.” disse, senza specificare di chi: “E voglio tenere sotto controllo mio figlio, giorno e notte, se riesco. Se dovesse morire, anche per una malattia o perché un fulmine lo ha colpito, sappi che saprò di chi è la colpa.”

“Pensi davvero che ucciderei mio figlio?” chiese Violante, l'espressione che riprendeva un po' della viva intelligenza che l'aveva accesa da ragazza: “Pensi che io sia un mostro come te?”

“Dimmi cosa devo scrivere a Venezia.” fece lui, felice di aver ritrovato almeno in parte la moglie di un tempo.

“Stai ancora cercando di farti dare i soldi per riscattare i gioielli che hai impegnato a Milano?” fu la domanda della Bentivoglio.

Il Malatesta annuì, sulle spine. Non sentiva nemmeno più il pianto insopportabile di Sigismondo, tanto era concentrato.

Violante prese fiato e chiuse un momento gli occhi, avrebbe tanto, ma tanto voluto lasciare suo marito impantanato nei suoi problemi, ma sapeva di non poterlo fare.

Suo padre l'aveva sempre odiata e i suoi fratelli, chi più chi meno, non sapevano nemmeno se lei esistesse ancora o meno. Se non voleva soccombere – e non lo voleva per nessun motivo – doveva cercare di tenere a galla suo marito.

Così, una parola dopo l'altra, come se un barbiere le stesse estraendo i denti con le pinze, gli disse quali, secondo lei, fossero le corde da toccare con il Doge. Quando ebbe finito di esporre le sue idee, Pandolfo aveva ancora gli occhi scuri fissi su di lei, le labbra sottili appena aperte e i capelli neri, lunghi e unti a incorniciargli il volto come alghe di fiume.

“Adesso, per favore, lasciami da sola per un po'. Sono stanca di vedere la tua faccia.” sussurrò lei, gli occhi un po' socchiusi, quasi si aspettasse uno schiaffo, in risposta alle sue parole.

“Va bene – disse invece l'uomo, allontanandosi dal letto – tanto non sopportavo più di sentire piangere nostro figlio.”

Appena la porta si chiuse alle spalle del signore di Rimini, il piccolo Sigismondo smise di singhiozzare e, stremata, Violante lanciò uno sguardo alla finestra. Stava per fare buio e pioveva.

Aveva sentito dire che più vicino alle montagne nevicava da giorni, anzi, da settimane. Sospirò e si chiese che ne sarebbe stato di lei. Decidendo che l'unica cosa che potesse fare era aspettare e rassegnarsi a un gramo futuro, si mise sul fianco e si assopì, sperando che nessuno la svegliasse, nemmeno per la cena.

 

Caterina caricò l'ultimo quarto di cinghiale sul cavallo e poi si fece passare da Galeazzo lo straccio per pulirsi un po' le mani dal sangue.

Avevano fatto un ottimo lavoro, ma ormai stava per fare buio ed era tempo di rientrare alla rocca.

Il ragazzino sembrava indeciso sul da farsi, visto che uno dei destrieri era stato usato per portare la carcassa, e ne restava solo uno da montare.

La Tigre avvertiva che quella giornata stava per concludersi e non avrebbe voluto. Si era trovata molto bene con Galeazzo e sapeva che un'occasione come quella, dopo le feste natalizie, sarebbe stata difficile da ritrovare, perché la guerra si sarebbe inasprita e lei avrebbe avuto sempre meno tempo e sempre meno testa per dedicarsi ai suoi figli.

Perciò, come se volesse sfruttare fino in fondo il clima quasi irreale del bosco immerso nella neve, mise da parte lo straccio e, rivolgendosi al figlio, allargò le braccia dicendo: “Vieni qui.”

Lo strinse a sé, in modo diverso, però, da come aveva fatto dopo l'attacco del cinghiale. Se prima l'aveva abbracciato con impeto, adesso lo stava facendo con dolcezza. Il Riario era frastornato da quel modo di porsi della madre. Però gli piaceva e non voleva rovinare quel momento chiedendole come mai si stesse comportando così.

“Ti voglio bene.” sussurrò la donna, le parole che scivolavano fuori dalle labbra prima che se ne rendesse conto.

Galeazzo, che avrebbe voluto risponderle con la medesima frase, non ci riuscì per colpa del nodo che gli aveva chiuso la gola. Così restò addosso a lei ancora un po', il viso immerso nel tessuto morbido del suo mantello, e sperò che nella sua stretta la madre potesse leggere tutto l'amore che provava per lei e tutto il suo desiderio di sentirsi accettato.

“Avanti...” disse poi la Contessa, asciugandosi furtivamente una mezza lacrima di commozione, prima di indicargli il suo cavallo: “Ce la fai a salirmi alle spalle?”

Siccome il ragazzino aveva annuito, la Tigre montò in sella e poi gli porse la mano per aiutarlo a salire dietro di lei.

“Aggrappati pure, se ne hai bisogno.” gli propose.

Il figlio la ringraziò, ma all'inizio non approfittò dell'offerta, restando aggrappato al bordo posteriore della sella e basta.

“Hai voglia che arrivi la festa alla rocca? Quella per Natale, dico...” fece Caterina, dopo un po', mentre conduceva entrambi i cavalli fuori dal bosco con sicurezza.

“Certo.” assicurò il ragazzino, che, non poteva negarlo, non disdegnava troppo le feste, benché non amasse eccessivamente la confusione e le frivolezze.

“L'ultima volta che si è ballato a Ravaldino – sorrise la Contessa – ho visto che hai danzato con molte giovani. Ce n'è qualcuna che ti piace più delle altre?”

Galeazzo arrossì violentemente e fu felice che sua madre non potesse vederlo: “Io... Non saprei.”

“Sai, prima o poi dovrai cominciare a pensare a una moglie.” disse piano la Leonessa: “Se erediterai il mio Stato, dovrai avere accanto a te una moglie valida.”

“Combinerete le mie nozze?” chiese il Riario, subodorando qualcosa di strano nel tono della madre.

“Se dovessi farlo, vorrei scegliere una donna che possa anche piacerti e non solo tornarti utile.” si premurò di dire lei: “Per questo ti chiedo se ti piace già qualcuna... Per farmi un'idea.”

“Non saprei davvero.” si schermì lui, facendosi poi taciturno.

Caterina sapeva quanto delicato fosse quell'argomento e aveva anche capito che Galeazzo in realtà era un timido, soprattutto con le ragazzine. Forse, crescendo, si sarebbe fatto più sicuro, ma di certo per il momento si trovava più a suo agio con le armi che non con delle giovani da corteggiare.

Erano quasi al limitare della riserva di caccia della Sforza e il cielo si era tinto di nero. I rumori del bosco si erano fatti notturni e dal cielo aveva ripreso a scendere una fitta, ma sottile, neve.

Galeazzo, per quanto volesse apparire coriaceo, era stremato da quella lunga giornata. Il vino, il cinghiale, il freddo... L'avevano sfinito.

Sperando che la madre non lo leggesse come un indice di debolezza, il ragazzino lentamente si adagiò contro la sua schiena, aggrappandosi a lei come un bambino.

La Contessa lo lasciò fare, sentendo come, cullato dalla cieca fiducia che riponeva in lei malgrado con quella scarsa luce fosse difficile tenere la strada giusta, il figlio poco per volta si addormentava.

Sembrava un bambino piccolo, era quasi dolce, il modo in cui si stringeva a lei e si abbandonava al sonno.

Solo quando arrivarono in vista delle mura di cinta di Forlì la donna lo svegliò: “Stiamo per arrivare.” gli sussurrò e il ragazzino la ringraziò tacitamente.

In quel modo, il tredicenne poté entrare in città a testa alta, fiero della preda cacciata, dando di sé un'immagine quasi degna di un uomo, e non quella più tenera, ma meno autorevole di un figlio che si addormentava abbracciato alla madre.

Mentre passavano il portone di Ravaldino, poi, il Capitano Mongardini li aiutò a fermare i cavalli e, osservando la carne di cinghiale – coperta da un leggero strato di neve – disse: “Complimenti, Contessa. Anche questa volta avete ucciso un ottimo esemplare.”

“I complimenti li dovete fare a mio figlio, è lui che l'ha preso.” disse subito la donna, smontando di sella e aiutando Galeazzo a fare altrettanto: “Sono molto fiera di lui.” soggiunse.

E i soldati che assistettero a quel breve scambio di battute furono tutti concordi nel raccontare, il giorno seguente, che mai avevano visto il giovane Riario tanto orgoglioso di sé come quella sera.

 
   
 
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