I.14
Con
un paio di firme e dichiarazioni d'intenti, cambiano i tempi,
cambiano i governi,
da un giorno all'altro, come calzini sporchi; però, a conti
fatti, non cambia
quasi niente.
Quatre
ancora crede che la vita sia una partita a scacchi, e che si
vinca solo calcolando
ogni mossa freddamente, sin dall'apertura, con tutti i dovuti
sacrifici –
pedoni, cavalieri, talvolta una regina, più spesso i nostri
amici. Le scuse ed
il senso di colpa non valgono a lavargli il sangue dalle mani, o
la coscienza;
ma, qualche volta, va al circo a confessarsi dagli spalti,
cercando
l'assoluzione nel volteggiare d'un trapezio, nel richiamo del
vuoto, nel canto
d'ogni lama che Catherine tira, per sentirsi ancora in grado
d'avere paura.
Trowa,
lui trova la bellezza in qualunque cosa: in Elsa ed Aslan, i
suoi vecchi leoni,
che hanno perso i denti senza mai conoscere la caccia, nel loro
disprezzo del
fuoco e della frusta, nel terrore dei topi e dei bambini; nello
sguardo più
freddo, più calcolatore, di Quatre mentre pensa e non vuol farsi
vedere; nei
costumi di scena che odorano di fieno, di sabbia, di sudore, e
che il
capocomico stende ad arieggiare, fischiettando, ma lava
raramente; nel veleno
di Nag, il cobra reale stanco di sognare, che il mese scorso ha
morso fatalmente
il suo incantatore; nel plauso della folla – se chiude gli
occhi, ha il suono
della pioggia che cade sul metallo, o dell'ultimo nastro nel
braccio di
Heavyarms quando non s'ha quasi più niente da sparare. Forse
aveva visto una
bellezza assurda, orripilante, anche nella carezza del vuoto
siderale, quando
non aveva potuto fare altro che fluttuare e ripensare a Zero –
Zero-Quattro? –
che l'aveva abbattuto e abbandonato senza lasciarsi commuovere,
aspettando che
l'ossigeno finisse. Una bellezza così, s'ha da dimenticare,
talora assieme al resto
che non si riesca più a sopportare (lo scopo, la missione, il
suo ed il nostro
nome); ma si continua comunque a respirare con orrore e
parsimonia, perché si
sa che l'aria potrebbe non bastare.
Per
Wufei, il mondo è una biblioteca, o un grande cimitero (che poi
è la stessa
cosa); probabilmente, lo sarebbe anche il paradiso, se lui ci
credesse o almeno
ci sperasse. Avendo perso troppo e non volendo scordarlo, cerca
in tutto una
storia – nel nome d'ogni strada; nel filo d'una spada
arrugginita, nel sangue
che la incrosta e che lui non osa ripulire; nel pezzo di Nataku
che si porta in
tasca, quella interna alla giacca, sopra al cuore –: qualcosa da
mandare a
memoria e tramandare, un'etichetta impressa nella carne, incisa
nella pietra,
che sia quella vera, quella giusta.
Heero,
per chi lo conosce, è come sempre: sotto al gundanium e
all'addestramento,
sotto ai suoi muscoli che piegano il metallo, nel midollo dolce
delle ossa, ha
la stessa costanza, la stessa tenerezza; conscio d'essere
un'arma, s'augura
comunque di non doverla usare – per lui, la pistola è un peso
familiare contro
al fianco; tra le dita, è l'opportunità di non sparare.
Duo
lo capisce, come ha capito tutto, dall'inizio; non è un
sacrificio provare a
lasciarglielo avere – del resto, coi comandi e col coltello, è
sempre stato un
poco più veloce; e ha sempre avuto la coscienza flessibile, il
tocco leggero, e
la discrezione di chi ha imparato a rubare per mangiare. Così lo
protegge, è un'ombra
gentile che lo avvolge, in cui nessun altro si potrebbe
avventurare – Heero fa
finta di niente, spesso neppure se ne accorge –: smonta assieme
a lui questo o
quel motore, per migliorarlo, per ricostruire; gli mostra la
luna dalla Terra, che
sembra così fascinosa, troppo bella, per essere davvero una
grossa roccia;
veglia su di lui, dormendogli accanto con un occhio aperto,
quello affilato,
che mappa innanzitutto ogni via di fuga e vede tutto come
un'arma impropria, uno
strumento di morte – ed ogni vita come un prezzo da pagare, ma
comunque a
sconto.