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Autore: Adeia Di Elferas    20/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Natale era ormai alle porte e Caterina cominciava a chiedersi se Ottaviano Manfredi sarebbe tornato in tempo per festeggiarlo assieme a loro.

L'eco delle sue incursioni nelle campagne faentine aveva scosso nel profondo – almeno così dicevano – Astorre Manfredi e, per quanto quelle mosse paressero necessarie al fine di favorire un colpo di Stato a breve, dall'altro la Sforza cominciava a temere che i Bentivoglio si sarebbero presto mossi per spegnere le loro velleità.

Le pareva strano, soprattutto, che Annibale Bentivoglio stesse soprassedendo in modo tanto composto al furto dei suoi bagagli. L'unica richiesta che era stata fatta, giusto quella mattina, era, per favore, di far avere al signore di Bologna almeno gli effetti personali del figlio. Non si faceva nemmeno cenno ai prigionieri.

La donna era nella sala delle armi, intenta a sistemare un arco la cui corda si era spezzata. Non era un'arma di pregio, ma una di quelle usate negli addestramenti e quindi si fidava ad aggiustarla in prima persona. Fosse stato un arco più costoso, l'avrebbe affidato a un armaiolo.

“Mia signora...” il castellano arrivò davanti a lei quasi senza che la Tigre se ne accorgesse.

Nella sala c'era una mezza dozzina di soldati, alcuni intenti a bardarsi per gli allenamenti di quel giorno e altri che sistemavano spade e lance. Non c'era confusione, ma un soffuso brusio, condito dal rumore metallico del ferro.

“Ditemi.” fece Caterina, appoggiando un momento l'arco sul tavolo.

“Messer Manfredi è appena rientrato a Forlì con i suoi e chiederebbe di vedervi. Vi aspetta nel mio studiolo. Lo volete incontrare?” chiese Cesare Feo, che, in cuor suo, conosceva già bene la risposta.

Infatti, ancor prima di rispondergli, la Contessa aveva lasciato il suo sgabello ed era andata a passo svelto alla porta dell'armeria, voltandosi solo per dire: “Fate che non ci disturbi nessuno.”

Il castellano strinse le labbra, e, incrociando lo sguardo con il maestro d'armi, che aveva sentito il breve scambio di batture, sollevò le spalle e commentò a denti stretti: “E vedremo di non disturbarli...”

La Tigre, dopo aver attraversato il porticato, era corsa al piano di sopra, le gonne appena sollevate sopra alle caviglie, riuscendo a tratti a fare due gradini per volta, malgrado fossero molto alti.

Quando giunse allo studiolo del castellano e aprì la porta, si trovò davanti Manfredi che portava addosso gli abiti umidi del viaggio. Senza attendere un saluto formale, la donna si tufò tra le sue braccia, trovandole pronte ad accoglierla con una stretta salda.

Lasciò che il faentino la baciasse e poi, allontanandolo da sé quel tanto che bastava per fissarlo negli occhi, gli disse: “Bianca ti vuole parlare.”

L'uomo sollevò appena le sopracciglia chiare. Il suo viso era coperto in parte dalla barba vecchia di qualche giorno e in parte dai capelli lunghi e biondi, un po' in disordine per via delle giornate campali appena trascorse.

“Ha deciso di accettare?” chiese lui, di rimando, senza mollare la presa sulla sua amante, anzi, stringendole i fianchi con maggior possessività.

“Prima di decidere vuole parlarti.” rispose la Leonessa, restando molto seria e non accennando a distogliere le sue iridi verdi da quelle azzurrissime di Ottaviano.

Il giovane si morse il labbro e guardò altrove, pensoso. Non si era aspettato di dover fronteggiare la figlia della Sforza da solo. Pensava che la ragazzina avrebbe fatto tutto quello che la madre le avesse detto di fare.

“Va bene. Le parlerò già oggi, se per te va bene.” concluse il ventiseienne, annuendo piano.

“Magari fallo dopo cena.” disse Caterina, pensando a quando fosse un buon momento per sua figlia Bianca: “Vi farò accendere il camino in una delle salette al piano di sotto. Là nessuno vi disturberà.”

“Troppo gentile da parte tua.” sorrise Manfredi, le dita agili che tornavano a indagare il corpo della donna che sentiva sua come non mai: “Ma adesso che ne dici di...”

“Mi raccomando, Manfredi – lo interruppe la Contessa, sollevando l'indice e puntandoglielo contro con fare minaccioso – voglio fidarmi di te, ma... Stai attento a quello che fai. E anche a quello che dici. Non dimenticarti mai che quella è mia figlia.”

Ottaviano capì perfettamente tutte le implicazioni di quell'avvertimento e così ci mise un po', prima di ridistendere i lineamenti del viso e ribattere, apparentemente divertito: “Che c'è Tigre, hai paura che lei, come te, non sappia resistere al mio fascino?”

“Farai meglio a evitare questo genere di commenti, in futuro.” lo zittì la donna, andando alla porta.

Il faentino, che da quando l'aveva vista entrare nello studiolo non aveva desiderato altro che farla sua il prima possibile, nel vederla avvicinarsi all'uscio si avvilì, temendo di aver rovinato l'occasione di soddisfare la propria voglia con una sola, stupida frase.

Così rimase abbastanza stupito quando, invece di vederla uscire, la vide chiudere la serratura a due mandate e tornare verso di lui.

Si lasciò sfilare il mantello, che portava con sé l'odore greve della neve sciolta e delle notti passate in giacigli di fortuna, e poi, senza riuscire a trovare nulla di intelligente da dire, lasciò che fossero i suoi gesti a parlare per lui.

La Contessa avrebbe tanto voluto lasciarlo sul più bello, ma il sentore amaro della pelle di Ottaviano e l'odore pungente del viaggio che ancora si portava addosso, le avevano messo una fame difficile da controllare. Se avesse dovuto trattenersi a tutti i costi, forse ce l'avrebbe fatta, ma visto che non aveva nulla da perdere, nel prendersi quell'uomo ancora una volta, si permise di fare quel che voleva.

“Stai attento a quello che le dirai e soprattutto a quello che le farai.” disse piano la Tigre, mentre, dopo avergli tolto anche il giubbone e avergli slacciato le brache, lo faceva sedere sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo: “Perché se verrò a sapere anche solo di una parola storta o di un atteggiamento che non mi piace, ti taglierò la gola con le mie mani, esattamente come tu hai cercato di fare con me. Solo che io non mi lascerò fermare. Intesi?”

Per nulla intimorito da quelle intimidazioni, anzi, acceso dal tono roco con cui la Sforza gli aveva parlato, Manfredi annuì un paio di volte. Mentre la Leonessa, poi, stava per mettersi sopra di lui, l'uomo ebbe uno sprazzo di prepotenza, se così la si poteva chiamare, e si rimise in piedi.

Un po' contraddetta da quel comportamento, Caterina aspettò di vedere cosa avesse in mente il suo amante. Con le mani che la cercavano sotto le gonne, Ottaviano la spinse contro muro, facendole capire che l'avrebbe presa così, un po' come era successo la prima volta, sul pianerottolo delle scale.

Pur avvertendo con un certo fastidio la parete ruvida contro la schiena che l'abito, cominciando a scivolarle dalle spalle, le lasciava scoperta, la donna non si oppose a quell'iniziativa e lasciò che Manfredi avesse a quel modo l'illusione di averla in suo pugno.

 

Simone si aggirava nervosamente per il salone. L'unica fonte di luce era il camino acceso. Non aveva avuto voglia di accendere delle candele e non si era nemmeno dato pena di chiedere a un domestico di farlo per lui.

Teneva le mani dietro la schiena e lo sguardo basso. Quel giorno, mentre si occupava delle nuove reclute – una manciata in tutto e ancora tra quelle precettate dalla leva forzata della Contessa – era successo l'ennesimo episodio storto che gli aveva fatto provare un brivido tremendo lungo la schiena.

L'ordine della Tigre diceva che chiunque fosse stato richiamato con quel provvedimento straordinario doveva presentarsi al banco di reclutamento con una corazzina o un pettorale e una lancia. Chi, per caso, non potesse portarsi appresso quanto richiesto, avrebbe avuto direttamente al momento dell'arruolamento ciò che gli mancava, il cui prezzo sarebbe stato decurtato dallo stipendio.

Da Milano erano arrivate ottocento pettorine e mille corazzine, che bastavano a coprire il fabbisogno dei nuovi soldati imolesi, e senza che la Sforza dovesse sborsare un soldo per averle, e quindi Ridolfi faceva un po' fatica a capire il perché trattenere dal salario dei soldati il presunto prezzo di quel ferro, causando nelle truppe fresche malcontenti e maldicenze.

Era scaturita proprio da quella discutibile decisione della Tigre il discorso che, quel pomeriggio, sotto una neve leggera, ma fastidiosa, Simone aveva sentito tra due dei nuovi. Si lamentavano proprio del taglio della paga dovuto al fatto che entrambi mancassero tanto di arma quanto di corazza, e quando lui aveva provato a farli tacere, ricordando loro che un esercito costa e che l'ordine della Contessa specificava chiaramente che ogni soldato era tenuto a portare con sé il necessario, una delle due reclute aveva sputato in terra, in sua direzione.

Per evitare di punirlo in modo plateale, come, forse avrebbe fatto meglio a fare, Ridolfi era andato avanti per la sua strada senza guardarlo più.

Tuttavia, prima che fosse sera, sentì altri borbottare e si rese conto che in molti cominciavano ad avere inviso sia lui – che imponeva le decisioni della Sforza – sia la stessa Leonessa, benché fino a poco prima fosse idolatrata dagli imolesi quasi fosse una Madonna in terra.

I Riario, Ottaviano in particolare, restavano i più detestati in città, ma tra i contadini che erano da poco arrivati a Imola si notava una crescente insofferenza verso la Tigre, vista ormai come distante e straniera.

Tommaso Feo aveva il suo bel da fare a negare l'evidenza, ma Simone cominciava a non sentirsi troppo sicuro, nella sua veste di Governatore e, sempre più spesso, evitava certi quartieri e certi orari, per la paura di venire attaccato all'improvviso da qualche ribelle.

Stava rimuginando sulla sua situazione, quando finalmente sentì la voce di sua moglie, che diceva qualcosa a una serva. Avvertì i suoi passi avvicinarsi al salone e rimase in attesa. Se fosse arrivata solo un paio di ore prima, probabilmente le sarebbe corso incontro, desideroso di avere da lei la consolazione e l'incoraggiamento che non riusciva a trovare da solo.

E invece, ormai, la rabbia aveva mangiato via tutto il resto e Ridolfi non mosse un piede, le braccia incrociate sul petto e gli occhi puntati sulla porta.

“Dove sei stata?” le chiese, a voce bassa, appena la intravide nella penombra dell'uscio.

Lucrezia si tolse la velina di pizzo che portava in testa e lo guardò, interrogativa: “Perché me lo chiedi?”

L'uomo la fissò in silenzio fino a che non se la trovò davanti. Indossava una bellissima gammurra blu scuro che, malgrado fosse molto pesante, lasciava ugualmente intendere le sue forme e la sua prosperosità. Simone sollevò lo sguardo, incrociando quello di fuoco di lei, e poi indugiò un solo istante sui suoi capelli neri e lunghi, appena mossi, tornati in libertà e scapigliati da un tocco di mano della Feo.

“Non sei tornata a casa nemmeno stanotte.” riprese lui, con tono ancora più mesto.

“E tu come fai a saperlo? Eri uscito pure tu, no?” ribatté lei, non riuscendo a sostenere il suo sguardo.

“Ma sono tornato presto, e non ti ho vista tornare fino a mattina fatta.” puntualizzò lui, deglutendo rumorosamente.

“Credevo che saresti stato fuori tutta notte pure tu.” si scusò Lucrezia, togliendosi con delicatezza i guanti, un dito per volta.

“E oggi dove sei stata? Sei uscita prima di pranzo e torni a quest'ora...” continuò Simone, ostinato, con un piglio cupo che la moglie gli aveva visto assumere un paio di volte al massimo, da che si conoscevano.

Avrebbe voluto rispondere con una battutaccia, o con un'altra domanda, ma il modo in cui il marito era tornato a fissarla le fece capire che non era il momento di scherzare: “Sono stata trattenuta in campagna da degli impegni importanti. Tu hai il tuo lavoro e io ho il mio. Se non fosse per me, tu non sapresti nemmeno chi coltiva le nostre terre.”

“Ti sei vista con uno dei nostri fittavoli?” chiese Ridolfi, i denti che si stringevano, come le palpebre.

“Non credevo che fosse un problema, per te.” fece la donna, sentendo qualche lacrima di rabbia fare capolino.

Simone si era piantato davanti a lei, quasi minaccioso, ma Lucrezia non ne aveva paura. Se aveva fatto quel che aveva fatto, era stato solo per ripicca nei suoi confronti. Ci aveva provato, a restargli fedele, ma era stato lui il primo a non fare altrettanto. E, allora, a che serviva impegnarsi?

“Ho cercato di non vederlo come un problema, ma, adesso, sapere che mia moglie si incontra di continuo con altri uomini non...” cominciò a dire il Governatore, alzando la voce.

“Ma stai zitto!” lo interruppe Lucrezia, sporgendo in fuori il mento, la sua bellezza feroce che riemergeva, crudele e aggressiva, come quando si erano conosciuti e avevano stretto lo scellerato patto che, ormai, non faceva altro che dividerli sempre di più: “Stai zitto, che non c'è bordello qui a Imola in cui non ti conoscano!”

“Ma adesso io credevo che...” tentò di dire Simone, prima di venire interrotto di nuovo.

“Credevi cosa?!” gridò la Feo, l'ira che le rigava il volto di lacrime di frustrazione: “Guarda che ti ho visto anche l'altra notte, uscire per andare a donne! Credi che sia tanto stupida da non accorgermene? Credi che non sappia che fai, quando dici che ti devi trattenere coi soldati? Io ti ho seguito, a volte, e ho visto che lasci le baracche alla solita ora, ma che poi tiri tardi andando al lupanare!”

Ridolfi pareva aver perso la lingua. Quel silenzio quasi inquietante portò Lucrezia a cercarne lo sguardo. La luce nel salone era catacombale. Il camino era troppo poco per illuminare degnamente l'ambiente. Il viso dell'uomo, in parte coperto da barba rossiccia, era solcato da profonde rughe di preoccupazione e da ombre, che parevano rispecchiare quelle della sua anima.

“Perdonami...” sussurrò lui, dopo un po', perdendo tutta la sua bellicosità: “Sono solo nervoso perché avrei voluto averti accanto a me, quando sono tornato a casa, prima.”

Lucrezia si asciugò con il dorso della mano le guance e poi chiese, la voce che ancora tremava un po': “Perché?”

“Ho avuto una brutta giornata e...” provò a dire il Governatore, per poi, con una sorta di timorosa cautela, prendere la mano della moglie con le sue e spiegare: “Io sono qui da solo, capisci, Lucrezia? I parenti che mi sono rimasti sono tutti a Firenze, e non ricevo nemmeno più le loro lettere. Qui non ho nessuno, a parte te. Se non ci sei tu, io sono solo, completamente solo.”

“Siamo tutti soli.” gli disse, con un po' troppa durezza, la Feo.

Adesso sembrava Ridolfi quello sul punto di piangere, ma finalmente Lucrezia trovò la via per addolcirsi.

Si stava rendendo conto che, nonostante tutto, da quando si era sposata con lui, la sua vita era cambiata in meglio. Non era stato solo perché ora al suo fianco c'era un uomo con una posizione e un cognome di discreta importanza. La sicurezza che le dava avere Simone come marito andava oltre quel genere di apparenze e convenienze sociali. Era quel genere di senso di protezione che avvertiva nelle lunghe notti invernali in quelle di pioggia in primavera, quando lui la stringeva sotto le coperte pesanti o sopra al lenzuolo leggero e umido di sudore. Era il modo in cui la teneva stretta a sé, come se volesse impedirle di cadere. Era qualcosa che Lucrezia faticava a spiegare e a capire, ma sapeva che non aveva mai provato nulla di simile.

Perciò, cercando di fare a sua volta la sua parte e ripagare almeno un po' la protezione che lui sapeva offrirle quando ne aveva bisogno, passò la mano che aveva ancora libera sull'ampio petto del marito e poi appoggiò la fronte contro la sua spalla. Era un uomo forte, alto, ancora giovane. Sapeva difenderla e, a modo suo, amarla.

Era più di quanto avrebbe potuto ancora sperare di avere dalla vita.

“Ci sono io.” gli disse: “Ci sono io...” e lasciò che l'abbracciasse, forte, una stretta di paura, più che di desiderio o affetto.

Era come un bambino spaventato che si aggrappava a una madre e quella consapevolezza incrinò il cuore della Feo che si ripromise, nei suoi limiti, di non lasciarlo più, qualsiasi cosa fosse successa.

 

La saletta in cui Caterina gli aveva detto di aspettare Bianca era ancora molto fredda e così Manfredi non se n'era rimasto seduto sull'ottomana un po' logora accanto alla finestra, ma era andato davanti al camino, le mani protese per scaldarle un po'.

Aveva passato tutto il tempo della cena – frugale e rapida – a pensare a come gestire quell'incontro con la figlia della Tigre.

La Contessa lo aveva abbastanza imbeccato in merito a cosa potesse o non potesse dire e anche a come toccare le giuste corde con Bianca, ma Ottaviano non sapeva quanto sarebbe stato capace di mantenere la via tracciata.

Si era dato una sistemata, prima di scendere al piano di sotto. Si era cambiato d'abito, si era pulito e pettinato i lunghi capelli biondi e si era anche accorciato la barba, lasciando, però, che fosse un barbiere, il giorno appresso, a rasarlo come si doveva. Aveva già abbastanza cicatrici in corpo, senza procurarsene altre con un coltello da barba.

Ci volle ancora quasi mezz'ora, prima che Bianca arrivasse. Quando sua madre le aveva detto che Manfredi l'attendeva, la ragazza, che stava discutendo ancora con il castellano per la festa della notte di Natale – alla quale mancavano davvero poche ore – la Riario aveva dissimulato la tensione e aveva voluto comunque terminare il suo discorso con Cesare Feo, prima di recarsi dal faentino.

Ottaviano si voltò con lentezza verso di lei, e riuscì anche a incurvare le labbra in un sorriso.

Bianca lo osservò per un istante, prima di andare a sedersi sull'ottomana e, occhi bassi, chiedere con un filo di voce: “Mia madre vi ha chiesto di convincermi?”

La diciassettenne stava passando distratta la mano sulla copertura rovinata dell'ottomana. Era uno dei pochi mobili che sua madre aveva recuperato abbastanza interi dopo il saccheggio del palazzo.

La maggior parte della mobilia era stata restituita in una condizione pietosa, e così la Tigre, dopo un primo momento, aveva deciso di lasciare il tutto nella loro vecchia dimora. Quell'ottomana, invece, come qualche scrivania e sedia, era stata ritenuta all'altezza di Ravaldino e così era finita alla rocca.

Manfredi era concentrato sugli occhi scuri della giovane e si chiese a cosa stesse pensando, mentre accarezzava a quel modo la stoffa ruvida. Per un'associazione di idee abbastanza fulminea, l'uomo pensò a come le mani della giovane Riario fossero simili a quelle della Leonessa e si chiese se fosse anche simile la sensazione di trovarsele addosso...

“No.” disse, andandosi a sedere accanto a Bianca, convincendola, finalmente, ad alzare i suoi formidabili occhi blu su di lui: “Mi ha solo detto che volevate parlarmi.”

La giovane smise subito di toccare la copertura dell'ottomana, più per evitare di sfiorare innavvertitamente la coscia del faentino che altro, e annuì: “Bene. Quindi, vi prego, spiegatemi con parole vostre quale sarebbe l'idea che avete avuto assieme a mia madre.”

Ottaviano, allora, si prodigò a mostrare il suo piano facendo ben attenzione a sottolineare tutti i vantaggi che la Riario – e Caterina – avrebbe ottenuto accettando. Solo che, se ne rese conto troppo tardi, man mano che parlava la sua mente si impantanava in un continuo confronto tra madre e figlia e, senza volerlo davvero, si trovò a ricordare l'incontro avuto poche ore prima con la Tigre e a immaginare un possibile futuro matrimoniale anche con la ragazza che aveva dinnanzi.

“Quindi, di fatto – concluse la Riario, che aveva seguito alla perfezione il discorso del Manfredi, senza lasciarsi sfuggire gli sguardi interessati che lui aveva cominciato a lanciarle – mi state proponendo un matrimonio bianco.”

“Sarà così solo se lo vorrete.” sussurrò Ottaviano, gli occhietti azzurri che fremevano, chiedendosi se quelle parole fossero un azzardo troppo rischioso.

“Voi siete uno degli amanti di mia madre.” gli ricordò la Riario, arrossendo.

Manfredi si sentì un po' infastidito dalla scelta dell'espressione 'uno degli'. Avrebbe di gran lunga preferito essere considerato l'unico amante della Tigre. Ma si illudeva, a pensare che fosse possibile.

“Infatti, sono uno dei suoi amanti.” sospirò, alzandosi di scatto dall'ottomana e battendo le mani l'una nell'altra: “Quindi ho i miei forti dubbi che accettereste altro che un matrimonio bianco. Ma a me sta bene, sia chiaro. E come ho già detto, potrete avere tutti gli uomini che vorrete, non mi interessa. Tanto credo che vivremmo separati per la maggior parte del tempo.”

“E se volessi dei figli?” chiese Bianca, la voce ridotta a un filo.

Quella, lo doveva confessare perfino a se stessa, era la domanda che più le era pesata, nell'attesa di poter parlare con Manfredi. Da anni, ormai, sapeva di volere dei figli. Curare Giovannino, poi, le aveva tolto ogni dubbio. Sapeva di poter essere una buona madre e voleva diventarla.

“Dato che non sarebbero i miei, preferirei che non ne aveste.” rispose Manfredi, dopo averci ragionato un momento.

Non aveva pensato a quel risvolto della cosa, ma ora che lo faceva, si rendeva conto di non voler crescere con i suoi soldi degli eredi non suoi. Avrebbe avuto figli da qualcuna delle sue amanti, quello lo dava per scontato, e a quel punto li avrebbe riconosciuti e ne avrebbe fatti i figli del signore di Faenza. Bianca avrebbe dovuto accontentarsi di divertirsi con gli uomini che voleva, ma avrebbe dovuto fare il possibile per non restare incinta.

“E se ne avessi da voi?” domandò la ragazza, con il tono di chi cerca di capire, e non di insinuare proposte scomode.

Il faentino si morse il labbro e ribadì: “Non credo che accettereste di consumare le nozze. Io sono uno degli amanti di vostra madre, l'avete detto anche voi. Credo che la situazione sarebbe troppo squallida perfino per voi. Senza contare che, se vostra madre lo venisse a sapere, non credo che sarebbe molto accondiscendente.”

“Ma se...” provò a dire di nuovo la Riario, ma a quel punto Ottaviano voleva solo chiudere in fretta la questione.

“Ascoltatemi bene: se ho accettato una soluzione pacifica per fare di Faenza e delle vostre terre due Stati amici, è solo per l'amore che porto a vostra madre – disse, veloce e deciso, come quando chiamava l'attacco in battaglia – ma se voi non avete intenzione di accettare, e vostra madre si rifiuterà ancora di sposarmi, allora potrò sempre rivolgermi altrove e prendere la mia città con la forza, e da lì marciare su di voi e distruggervi. Prima di arrivare qui a Forlì e conoscere vostra madre, io non avevo alcuna intenzione di esservi alleato. Io rivolevo Faenza e basta, anzi, già progettavo poi di assoggettare al mio potere anche Forlì e Imola. È solo per l'amore che le porto che ho cercato un modo per evitare di scontrarci. Solo per l'amore che le porto.”

Bianca non sapeva come rispondere a quello slancio d'ira che aveva portato Ottaviano a chinarsi su di lei, tanto vicino che i loro volti quasi si sfioravano.

Figlia di sua madre, però, la ragazza non era spaventata quanto il faentino avrebbe creduto, e così trovò lo spirito di rispondere a tono: “Ebbene, messer Manfredi, io vi sposo, ma quando sarete voi a volermi, sarò io a non volervi più.”

Il ventiseienne si ritrasse, mentre la Riario si alzava e si sistemava la sottana: “Parlate, parlate... Voi vi credete chissà cosa, ma siete solo una ragazzina. Io voglio una donna. Se accetto l'idea di legarmi a voi è solo per poter avere vostra madre.”

Bianca fece una reverenza, e poi lo guardò ancora un momento. Benché ciò che si erano appena detti fosse sufficiente per scatenare in lei l'odio e il disprezzo per quell'uomo, la sua innegabile bellezza le impediva di smettere di desiderarlo.

Con un sorriso un po' forzato, concluse: “Dite pure a mia madre che accetto. Tutte le vostre condizioni. Nessuna esclusa. Ma sappiate che lo faccio anche io solo per l'amore che porto a mia madre. Per l'amore che le porto, e per nient'altro.”

Manfredi, ritrovando un po' di autocontrollo, chinò il capo, con fare servile, e ribatté, un po' irrigidito: “Non mancherò di farlo, madonna Bianca.”

 
   
 
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