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Autore: LyaStark    22/09/2018    4 recensioni
Erano quindici anni che la nave Realgar solcava la rotta tra Veran e Encondida, trasportando il rame da quest’ultima alla capitale. Il dirigibile tracciava la sua strada nel cielo battendo la bandiera della Compagnia dei Mercanti, la più potente gilda commerciale di tutto il mondo conosciuto.
Qualsiasi capitano che desiderasse trasportare merci all’interno dell’Impero doveva sottostare alle sue regole.
I furti e le truffe erano severamente puniti.
Dai dirigibili in partenza dalla capitale si potevano vedere i cadaveri dei ladri, penzolanti da lunghe funi attaccate ai moli del porto. C’erano capitani, marinai semplici, timonieri e macchinisti. La Compagnia non perdonava nessuno, non accettava nessuna giustificazione. Quei corpi non erano nient’altro che un monito.
Chi ruba verrà punito, dicevano. Ricordate a chi dovete la vostra lealtà.
Era la legge, e la legge valeva per tutti.
O perlomeno per quelli che venivano scoperti.
Seconda classificata al contest "Racconti al profumo di frutta” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP
Prima classificata a parimerito al contest “Bionica mente” indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CARDS SPEAK FOR THEMSELVES

LA LADRA
 
“And once you're gone, 
you can never come back 
When you're out of the blue 
and into the black”

Hey Hey, My My (Out of the Blue), Neil Young 
 
I giorni di navigazione sulla Realgar erano una gioia per Sheridan. Viveva per quella nave e lo dimostrava porgendole tutta la sua attenzione. Quello era il suo regno e non c’era altro luogo in cui si sentisse ugualmente a suo agio. Era casa sua molto più dell’appartamento striminzito che divideva con sua madre, ma a volte faceva di tutto per farla davvero incazzare.
– Dan! – urlò per la terza volta, mentre un getto di vapore a una temperatura ustionante colpiva il legno poco sopra di lei. Era sdraiata sotto alla macchina per la pressione, aveva i capelli sulla faccia e faceva un caldo maledetto. – La chiave! –
– ‘Riva! –
Una chiave inglese dorata le si materializzo accanto. La prese senza spostare gli occhi dallo scomparto che aveva aperto, dove un bullone stava palesemente cercando di evadere. Trafficò per alcuni minuti, sudando e mormorando parole a mezza voce, stringendo viti, ruotando ingranaggi e in generale rimettendo a posto quel casino che sembrava essersi autogenerato.
Riemerse da sotto quell’inferno metallico completamente anchilosata, con tracce di grasso sul viso sudato. Sfilò i pesanti guanti di cuoio e alzò il monocolo, fissando Dan con severità da sotto le sopracciglia corrugate.
– Dan – disse, sforzandosi di stare calma. – Da quanto sei qui? –
– Poco più di due mesi. –
– Poco più di due mesi, signore. Sono più alta in grado di te. Anzi, a dir la verità, sono più alta in grado di chiunque tranne il capitano su questa stramaledetta nave. –
– Sissignore. –
Dan non le piaceva. Era un ragazzo di circa tredici anni, capelli chiari e mani nervose, faccia magra sotto un cappello floscio che aveva visto tempi migliori. Era pigro, lento, con l’insopportabile capacità di sparire quando c’era bisogno di lui. Era sulla Realgar ma Sheridan non pensava ci sarebbe rimasto a lungo.
– E in due mesi non sei ancora riuscito a capire una cosa basilare. –
– Cioè, signore? –
– Cioè che se io ti chiamo tu corri! – Sheridan urlò a pieni polmoni, facendo sobbalzare un meccanico che stava lavorando lì vicino. – Se ti chiedo una chiave inglese tu me la porti in due stramaledetti secondi! – Sottolineò le ultime tre parole colpendo il tubo metallico che correva di fianco a lei. Il rumore riecheggiò per tutta la stanza. – E ora sparisci! Vai a importunare qualcun altro con la tua ignoranza! –
– Sissignore – Dan incassò la testa nelle spalle, indietreggiò e corse via rapido, su per le scale a chiocciola che portavano fuori dalla sala macchine e al resto della nave.
Sheridan sospirò, spostandosi nel suo ufficio e lasciandosi cadere sulla sedia. Sulla scrivania davanti a sé c’erano fogli sparsi e pezzi di ingranaggi. Si asciugò la fronte con la manica e prese l’orologio che portava sempre nella tasca, osservando le lancette ticchettare. L’ora stabilita con Renard si stava avvicinando.
Guardò le ampie finestre che si aprivano alla sua sinistra. Il cielo era di un blu cobalto attraversato da rare nuvole. In basso scorrevano le ombre dei paesini, distanti migliaia di piedi e grandi come modellini. Si sentiva strana e nemmeno quella vista, che di solito la calmava, serviva a placarla.
Sheridan chiuse l’orologio con un gesto secco. Il ticchettio delle lancette minacciava di farle esplodere il cervello. – Basta – mormorò alzandosi. Si spostò nella sala e salì la scala a chiocciola senza fretta, osservando le colonne di macchine funzionanti attorno a sé. Il caldo lì dentro era soffocante.
– Ottone! – gridò poco prima di uscire dalle doppie porte.
Un uomo con un vistoso braccio metallico si sollevò dal tavolo di lavoro. – Sì? –
– La sala è tua fino a che non torno. Se ci sono problemi sono sul ponte superiore. –
– Ricevuto, signore – Ottone sottolineò il titolo con una ghignata, accompagnato da tutti quelli che erano vicino a lui. Sheridan scoppiò in una risata prima di sparire dietro alle porte della sala macchine.
Il ponte superiore era così diverso che sembrava di entrare in un altro universo. Il vento spazzava la superficie di legno e il silenzio che regnava al piano di sotto era rimpiazzato dalle urla dei tenenti e dall’obbedire rumoroso dell’equipaggio. Sheridan fece un respiro profondo e si appoggiò al parapetto di prua, lasciando che l’agitazione scorresse via.
Sopra di lei si stagliava il pallone della Realgar, migliaia di metri cubi di elio che permettevano alla nave di librarsi in aria. Subito sotto si intravedeva il berretto di Charleston, il poveraccio che passava più tempo sulla coffa che sul ponte. Il vero panorama però era attorno a lei: centinaia e centinaia di miglia di cielo libero, dove il sole splendeva caldo. In lontananza, in basso, si vedevano le prime propaggini di Rindegar, città al limitare dell’Impero.
Le nuvole erano bianche e soffici come panna. Alcune Ozene si libravano attorno alla nave, attirate come al solito dal cibo lanciato dai marinai. Erano sinuose come serpenti marini, coloratissime e del tutto innocue. Si diceva che portassero fortuna.
– Sheridan. Strano vederti sopracoperta. –
Il capitano Chapman stava avanzando verso di lei. Capelli brizzolati, occhi neri, bastone di legno. La giacca della Compagnia, bottoni ramati su un profilo grigio, gli dava un’aria affascinante e severa allo stesso tempo. Aveva un’andatura zoppicante che era un lascito dello stesso giorno in cui era morto suo padre.
– Capitano – la macchinista si spostò per lasciargli spazio. – A volte persino io tradisco gli ingranaggi per il panorama. –
– Non stanca mai, vero? –
Sheridan non rispose, osservando un’Ozena che si attorcigliava attorno a una gomena. Il sole stava avanzando verso la linea dell’orizzonte, una striscia color ocra sfocata e indefinita.
– Tra pochi giorni saremo a Venar – il capitano appoggiò il bastone al parapetto e allacciò le mani dietro la schiena. – Ci vorrà del tempo prima di ripartire, ci sono dei controlli da fare. Prenditi qualche giorno lontano da questa vecchia signora. –
– Come no – Sheridan fece una smorfia. – Mia madre sarà così felice di riavermi a casa. Non vedo l’ora di risentire la solita tiritera su quando mi sposerò, sul lavoro che faccio e su quanto sono una delusione rispetto a Charlotte. –
Charlotte Sheridan, sua sorella e figlia perfetta. Già sposata e con un bambino in arrivo, era il ritratto della felicità coniugale. Che il suo matrimonio e il mantenimento della famiglia fossero stati garantiti dal lavoro di Ella quando la pensione di loro padre era finita, era un dettaglio che nessuno nella famiglia Sheridan sembrava voler ricordare.
Il capitano Chapman sorrise e, vedendo le sottili rughe che gli incresparono gli occhi, la macchinista si chiese non per la prima volta come potesse essere a letto. Il loro era sempre stato un rapporto particolare che travalicava quello prettamente professionale. Il fatto che il padre di Sheridan fosse morto per difendere il giovane capitano fresco di nomina li aveva resi più simili a un protettore e alla sua protetta. Aveva funzionato fino a quando Sheridan non era diventata il capo macchinista, rendendo la loro relazione più paritaria.
– Se proprio ci tieni tanto, la tua cuccetta sulla Realgar rimane aperta. Qualcuno rimane sempre sulla nave – Chapman si appoggiò al parapetto, le spalle verso il vuoto e il viso rivolto a Sheridan. – Cosa ti preoccupa? –               
La macchinista si girò di scatto, stupita dall’improvviso cambio di argomento.
– Niente. –
– Ella, ti conosco da quattro anni e la vita su una nave non lascia molto spazio a momenti privati. È abbastanza per capire che sei turbata – il tono si era fatto più confidenziale.
– Nulla di irrimediabile. E nulla per cui tu possa fare qualcosa, Luther, ma grazie – Sheridan non sapeva perché, ma piuttosto che parlare dei suoi debiti con il capitano si sarebbe fatta scuoiare. Per quanto riguardava il furto… era insensato anche solo pensare di poter confidarsi.
Chapman stava per dire qualcosa, la fronte corrucciata. Fu interrotto da un grido.
– Capitano! –
Il timoniere stava avanzando verso di loro a passo spedito. – Siamo vicini alle Losten. –
Sheridan trattenne un sospiro di sollievo. Quando Chapman si metteva in testa una cosa poteva essere insistente come un mastino. Le isole Losten erano un agglomerato di roccia e sassi coperti da vegetazione che per qualche bizzarro motivo fisico ruotavano in aria, intralciando la rotta delle navi e a volte finendoci contro. Erano abituati a passarci attraverso ma era sempre una manovra che richiedeva attenzione. Chapman preferiva condurre da sé la Realgar.
– Arrivo – il capitano recuperò il bastone. – Se mai decidessi di parlarne, Sheridan, sai dove trovarmi – si allontanò zoppicando, seguendo il timoniere.
– Grazie, capitano. –
La macchinista rimase ancora per qualche minuto sul ponte, osservando il punto dove sapeva che sarebbero spuntate le isole. Con un sospiro si staccò dal parapetto e si diresse verso la porta che conduceva al suo regno. Durante il passaggio avrebbero avuto bisogno di lei nella sala macchine.
 
▪▪▪
 
Il grosso problema su una nave era non poter avere un momento privato. Nonostante Sheridan fosse un ufficiale e in quanto tale godesse di una cabina tutta per sé, non era pensabile poter andare a spasso per la Realgar senza essere visti. C’era sempre qualcuno impegnato a governare la nave e in generale a impedire che sbagliassero rotta o finissero travolti da qualche tempesta.
Sheridan sapeva già che la notte del furto la nave sarebbe stata popolata né più né meno delle altre sere. Non poteva sperare di non usare la clessidra se voleva davvero farla franca. Si alzò dalla sua cuccetta in piena notte, la testa che continuava a ripeterle le varie cose che avrebbe dovuto fare.
Uno: alzarsi e andare sul ponte.
Sheridan non era riuscita ad addormentarsi, preda di una sensazione di ansia che le era sempre stata estranea. Le era già capitato di infrangere le regole, di rischiare la vita, di combattere. Mai, nemmeno una volta, era stata così agitata. Sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie mentre camminava sul legno della nave, attraverso la sala macchine e sulla scala a chiocciola. Stava per rubare alla Compagnia. Non sarebbe potuta tornare indietro.
Come previsto, il ponte era animato da una strana e confortante vita notturna. Tre o quattro uomini dormivano vicino al cassero, il timoniere guidava la nave. Anche senza vederlo, Sheridan sapeva che c’era un uomo sulla coffa, subito sotto al pallone della Realgar. La macchinista si avvicinò al parapetto, aspettando che arrivassero le due di notte. Sopra di lei la luna era uno spicchio argentato e le stelle brillavano luminose. Di solito si sarebbe divertita a cercare le costellazioni ma in quel momento non era dell’umore adatto.
– Non dormi nemmeno stasera? –
Il tenente di vascello Benson le si era avvicinato silenzioso come un gatto. Sostituiva lui il capitano durante la notte. Aveva in mano il rompicapo di legno che era diventato il suo simbolo distintivo. Ce l’aveva da quando Sheridan era salita sulla Realgar e non era mai riuscito a finirlo.
– Ebbene – Benson era abituato a vederla comparire di notte sul ponte. Sheridan non aveva mai dormito molto.
– Dovresti farti dare delle pastiglie o qualcosa del genere, a Veran. Non fa bene dormire così poco. –
– Lo sai che non posso – rispose. – Se succedesse qualcosa devo essere pronta ad alzarmi, non essere svenuta nella mia cuccetta. –
– Ah, il solito dramma degli ufficiali in comando. Troppe responsabilità e troppo poco riposo – Benson sorrise. Era più vecchio di lei di parecchi anni e la trattava sempre in un modo bonario che, invece di offenderla, la inteneriva.
Due: farsi vedere e fingere di prendere qualcosa in coperta.
– Già – Sheridan ostentò uno sbadiglio, stiracchiandosi. Ogni istante diventava più consapevole del suo orologio nella tasca della giacca. – Credo che andrò a farmi una tazza di tè. Tu ne vuoi? –
– No, grazie – Benson beveva solo caffè o liquori. Il tè, secondo lui, era una bevanda per donne e malati. – Se poi vuoi fare due chiacchiere, sai dove trovarmi. –
Sheridan annuì e si allontanò, diretta verso il ponte coperto. Prese l’orologio sperando di sembrare sovrappensiero. Aveva le mani che le tremavano. Mancavano tre minuti alle due. Rallentò il passo e regolarizzò il respiro, lasciando che l’ansia se ne andasse. Non era il momento per essere agitati. Si fermò sul primo gradino delle scale che portavano alla stiva, fissando il quadrante. Le lancette sembravano procedere al rallentatore.
Finalmente, come in un sogno, indicarono le due.
Tre: alle due in punto attiva la clessidra.
L’ansia era svanita. Sheridan prese la clessidra da sotto la maglia, la torse e prese la chiave. La tenne in mano per qualche secondo, fissandola. Da lì non si tornava più indietro.
‘Fanculo. Con un respiro più profondo mise la chiave nella toppa e girò. La sabbia grigia iniziò a cadere nel bulbo inferiore.
Quattro: corri.
Sheridan non si prese nemmeno un istante per controllare che tutti, sulla nave, fossero bloccati. Corse a perdifiato giù per le scale, saltando i gradini e lasciando che il rumore rimbombasse. Si precipitò fino alla stiva, spalancando senza fermarsi le pesanti porte in metallo. Nessuno si preoccupava di chiuderle perché tanto nessuno rubava alla Compagnia. Sheridan avrebbe riso per l’ironia se non fosse stata così concentrata.
L’interno della stiva era buio come la pancia di una balena. Sheridan scosse la lampada che si era portata dietro, lasciando che una debole luce dorata cadesse attorno a lei. Casse su casse si ammonticchiavano su ogni lato, colonne di legno che sembravano minacciare di cadere da un momento all’altro. Sheridan non aveva tempo per guardarsi attorno. Le istruzioni erano chiare.
Cinque: apri il portellone.
La macchinista corse fino alla leva che sapeva avrebbe aperto il pesante portellone di carico e scarico sul fianco della Realgar. Per sua fortuna non era del tutto digiuna del funzionamento di quell’aspetto della nave. Si era fermata più volte al porto a osservare le manovre. Sapeva benissimo cosa dovesse azionare. Sheridan tirò la leva e le porte di legno grezzo si aprirono sul buio della notte. Era una visione da far rizzare i capelli e la assalì una leggera sensazione di vertigine. Nel giro di qualche istante il nulla totale su cui si affacciava si riempì con il profilo di una piccola nave e dei suoi due passeggeri.
Era una scialuppa di salvataggio, progettata per essere silenziosa e veloce. Dove i ladri l’avessero trovata, non era affar suo. Quello che le interessava era che tutto si svolgesse in fretta. Le parole dovevano essere ridotte al minimo.
Sei: apri una cassa e lancia il rame.
Sheridan aprì uno dei grossi chiavistelli che chiudevano le casse. Il pesante portello di legno crollò sul pavimento della stiva, alzando grumi di polvere e di truciolato. Dentro c’erano decine e decine di scatole, impilate l’una sull’altra con una precisione millimetrica. Come un automa Sheridan iniziò a prendere una confezione dopo l’altra, lanciandole sulla scialuppa senza preoccuparsi di verificare che le prendessero.
Dopo pochi minuti si sentiva le braccia in fiamme e un velo di sudore coprirle fronte, ma non poteva permettersi nemmeno un momento di pausa. Quando finalmente finì e l’ultima scatola fu al sicuro sulla scialuppa, aveva il fiatone.
Sette: prendi i tessuti.
Si avvicinò al portellone, sporgendosi per quanto glielo permettesse il suo coraggio.
– Pronta? –
L’uomo davanti a lei teneva in mano un grosso rotolo di stoffa colorata. Sembrava in procinto di saltare dalla scialuppa sulla Realgar.
– Pronta. –
Il rotolo le volò incontro, superando lo spazio tra le due navi in un battito di ciglia. Sheridan fece appena in tempo a lanciarlo sul pavimento che gliene piovve addosso un altro. Lei e il ladro lavorarono di buona lena per qualche altro minuto, le confezioni di tessuto andavano accumulandosi attorno a lei. Quanti minuti mancavano alla fine dell’effetto della clessidra? Uno? Due? Le sarebbero bastati?
Stava per chiedere una pausa per vedere quanto tempo le rimaneva quando il ritmo feroce a cui avevano lavorato si interruppe.
– Abbiamo finito – il ladro ghignò e le rivolse una specie di saluto militare, per poi sedersi comodo sulla scialuppa. Mormorò qualche parola alla donna al suo fianco e la piccola nave iniziò ad allontanarsi. – Alla prossima. –
Sheridan si allontanò dal portellone spalancato, tirando la leva per richiuderlo. Le mani le tremavano mentre prendeva la clessidra. Aveva ancora un paio di minuti.
Otto: riempi la cassa con i tessuti.
Sheridan si inginocchiò sul pavimento. Iniziò a buttare i rotoli nella cassa, senza un criterio o una logica, sperando solo che ci stessero tutti. Sapeva che a Encondida, nelle tintorie, non si preoccupavano più di tanto dell’ordine quando riempivano le casse da spedire. L’effetto che avrebbe dato sarebbe stato solo di una confusione un po’ più accentuata, ma niente di preoccupante. Almeno così sperava.
Nove: vattene dalla stiva.
Quando anche l’ultimo rotolo fu messo a posto, Sheridan chiuse la cassa e tirò il chiavistello. Riprese la lampada e corse via, i suoi stivali che battevano contro il pavimento di assi. Sfrecciò oltre le porte e se le richiuse alle spalle, accostandole senza far rumore. Non era sicura che il tempo fosse ancora bloccato.
Risalì le scale e solo quando fu all’altezza del ponte superiore si fermò. Sentiva il cuore batterle nel petto e le mani tremare. Aveva la giacca completamente fradicia di sudore, non sapeva se per la fatica o per la paura. Ormai era fatta. Aveva rubato alla Compagnia.
Sbirciò sul ponte, terrorizzata che qualcosa fosse andato storto. Benson si aggirava ancora per la nave, sereno come quando l’aveva lasciato. I tre uomini dormivano ancora sotto al cassero. Tirò un sospiro di sollievo, camminando con tutta la calma che possedeva verso la sua cuccetta.
Ancora non ci credeva. Quando aveva parlato con Renard, il ladro le aveva spiegato un piano semplice e ben congeniato. La Realgar trasportava soprattutto rame, ma portava alla capitale anche metri e metri di un tessuto tinto di un grigio talmente splendente da sembrare argento fuso. Quella roba si vendeva quasi a peso d’oro. Le donne della capitale ne andavano matte.
Secondo il libro mastro della Compagnia, per quel viaggio la nave carico Realgar trasportava duecento ottantatré casse di rame e ventuno di tessuto. Una di queste però, grazie al prezioso aiuto di un portuale, era piena zeppa di metallo. Una volta avvenuto lo scambio di cui Sheridan si era resa complice, nessuno a Venar avrebbe notato niente. I libri mastri della Compagnia sarebbero stati in ordine e nessuna partita di rame sarebbe scomparsa durante il viaggio.
Quel furto, in verità, non era mai accaduto.
   
 
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