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Autore: LyaStark    18/09/2018    6 recensioni
Erano quindici anni che la nave Realgar solcava la rotta tra Veran e Encondida, trasportando il rame da quest’ultima alla capitale. Il dirigibile tracciava la sua strada nel cielo battendo la bandiera della Compagnia dei Mercanti, la più potente gilda commerciale di tutto il mondo conosciuto.
Qualsiasi capitano che desiderasse trasportare merci all’interno dell’Impero doveva sottostare alle sue regole.
I furti e le truffe erano severamente puniti.
Dai dirigibili in partenza dalla capitale si potevano vedere i cadaveri dei ladri, penzolanti da lunghe funi attaccate ai moli del porto. C’erano capitani, marinai semplici, timonieri e macchinisti. La Compagnia non perdonava nessuno, non accettava nessuna giustificazione. Quei corpi non erano nient’altro che un monito.
Chi ruba verrà punito, dicevano. Ricordate a chi dovete la vostra lealtà.
Era la legge, e la legge valeva per tutti.
O perlomeno per quelli che venivano scoperti.
Seconda classificata al contest "Racconti al profumo di frutta” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP
Prima classificata a parimerito al contest “Bionica mente” indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CARDS SPEAK FOR THEMSELVES
 
REALGAR
 
Look, if you had one shot, one opportunity
To seize everything you ever wanted
One moment
Would you capture it or just let it slip?”

Lose Yourself, Eminem
 
Erano quindici anni che la nave Realgar solcava la rotta tra Veran e Encondida, trasportando il rame da quest’ultima alla capitale. Il dirigibile tracciava la sua strada nel cielo battendo la bandiera arancione e grigia della Compagnia dei Mercanti, la più potente gilda commerciale di tutto il mondo conosciuto.
Qualsiasi capitano che desiderasse trasportare merci all’interno dell’Impero doveva sottostare alle sue regole. I profitti erano prestabiliti, le rotte e i tempi di percorrenza definiti. Non erano contemplati imprevisti, malfunzionamenti o ritardi. Ogni ingranaggio di quella macchina perfetta che era la Compagnia doveva operare perfettamente, in ogni momento e in ogni luogo.
I furti e le truffe erano severamente puniti.
Dai dirigibili in partenza dalla capitale si potevano vedere i cadaveri dei ladri, penzolanti da lunghe funi attaccate ai moli del porto. C’erano capitani, marinai semplici, timonieri e macchinisti. La Compagnia non perdonava nessuno, non accettava nessuna giustificazione. Quei corpi non erano nient’altro che un monito. Chi ruba verrà punito, dicevano. Ricordate a chi dovete la vostra lealtà.
Nessuno avrebbe cercato di rubare alla Compagnia, almeno non chi era ancora affezionato alla propria vita. La paura dell’impiccagione e l’efficienza della polizia privata della gilda erano più che sufficienti per scoraggiare qualsiasi tentazione. I troppo deboli per resistere avevano vita breve.
Chi ruba verrà punito.
Tutti, anche i non affiliati, la riconoscevano come la regola aurea della gilda. Era talmente inflessibile che non ci si sarebbe stupiti se fosse stata il motto stesso della Compagnia. Era una garanzia sia per i compratori che per i venditori, necessaria perchè tutto funzionasse al meglio e i profitti fossero sempre in aumento.
Chi ruba verrà punito.
Era come affermare che il cielo era blu o che il sole sorgeva a est. Un’ovvietà. Tutti avrebbero fatto bene a tatuarselo in testa. Se cercavi di fottere la Compagnia, era la Compagnia a fottere te.
Chi ruba verrà punito.
Era la legge, e la legge valeva per tutti.
O perlomeno per quelli che venivano scoperti.
 
▪▪▪
 
Quando la avvicinarono, Ella Sheridan stava finendo di bersi i suoi ultimi rigali in una squallida taverna nel porto di Encondida. Aveva perso la paga di un mese in una disastrosa partita a quattro assi che non era finita in sangue solo per la comparsa di tre robusti galoppini con altrettanto robusti manganelli.
Alla dannazione pensò, guadagnandosi un’occhiataccia dal suo vicino al bancone. Probabilmente l’aveva detto ad alta voce. Era troppo ubriaca per riuscire a capire bene cosa stesse facendo.
– Alla dannazione! – ripeté, fissando meglio il suo vicino e alzando il boccale di legno in un brindisi immaginario. Un po’ di birra scura cadde per terra, schizzandole sugli stivali. Rise all’occhiata disgustata dell’uomo per poi tornare a dedicarsi al fondo del suo bicchiere, l’ilarità scomparsa di colpo.
La verità era che non aveva più un rigale. Si era giocata tutto, dai soldi all’onore, dietro a un amore per le carte che non era più ricambiato da mesi. Aveva sperato di vincere qualcosa con la paga del mese ma ogni moneta che aveva scommesso era svanita nelle tasche nei suoi avversari. Aveva debiti in tutta la capitale e nessuno che potesse farle credito. Nemmeno sua madre, che aveva mantenuto per anni dopo la morte di suo padre, sembrava più disposta a prestarle dei soldi.
Sheridan chiuse gli occhi, sentendo il mondo ruotare senza assestarsi. Sogghignò, pensando che era una bella definizione di quell’ultimo periodo della sua vita. Sentiva l’inizio di un mal di testa da birra scadente iniziare a batterle contro le tempie. Non aveva idea di come sarebbe sopravvissuta una volta a Veran. Probabilmente non l’avrebbe fatto. I suoi creditori le avevano fatto ben presente che se non fosse tornata con i soldi l’unica cosa che avrebbe ricevuto da loro sarebbe stata una coltellata nella schiena.
Se fosse stata imbarcata su una nave normale avrebbe potuto chiedere al capitano Chapman un anticipo sulla paga del mese seguente, ma la Realgar era nella Compagnia dei Mercanti. E ovviamente, nella stramaledetta Compagnia, chiedere credito era proibito per qualche stupido, insulso motivo.
– Alla dannazione anche la Compagnia – borbottò mentre alzava il boccale e tracannava gli ultimi sorsi di birra. Stava per chiedere un secondo giro all’oste quando una voce la precedette, interrompendola.
– Io non prenderei altro, se fossi in te. –
– E io non ho chiesto la tua stramaledetta opinione – rispose Sheridan, girandosi. La voce apparteneva a un uomo minuto, seduto sullo sgabello di fianco a lei come su un trono. Trasudava sicurezza da ogni poro. I suoi lineamenti sembravano tremolare nell’aria viziata del locale. Sheridan socchiuse gli occhi per metterlo a fuoco.
– Non ti conosco – mormorò, biascicando solo leggermente le parole. – Se sei qui a nome di Denavi, digli pure che avrà i suoi soldi. –
Lo sconosciuto sorrise. – Non sono qui per Denavi. –
– Meglio. Perché non è vero – Sheridan ridacchiò. – Perché diamine sto vedendo il fondo del mio bicchiere? – gridò, richiamando l’oste.
– Cinque rigali se non versi più da bere alla signora – lo sconosciuto iniziò a impilare monete sul bancone. Gli occhi del taverniere si dilatarono mentre vedeva la paga del giorno venirgli fornita senza fatica.
– Sissignore – rispose arraffando il denaro e allontanandosi. – Come desiderate. –
Sheridan aveva assistito alla scena chiedendosi se fosse uno scherzo della sua mente ubriaca. Si girò meglio sullo sgabello, fronteggiando lo sconosciuto. Non le piaceva che qualcuno le impedisse di bere, soprattutto non quando era l’unica cosa che poteva fare per dimenticarsi che la sua vita sarebbe finita di lì a breve.
– Si può sapere chi cazzo sei? – ringhiò, ogni traccia di divertimento scomparsa. La sua mano si spostò sull’elsa della spada che portava in vita, la sbornia per il momento attenuata dalla rabbia.
Lo sconosciuto non si scompose. – Pace – rispose. – Sono solo qualcuno che vorrebbe parlare con te. Possibilmente da sobria. –
– Allora sei fuori tempo massimo. –
– Non credo – l’uomo tirò fuori dalla casacca una boccetta piena di liquido rosato, che assomigliava al vino annacquato. Poi prese il boccale di Sheridan e ce la rovesciò dentro. – Bevi – ordinò.
Sheridan scoppiò in una risata. – Potrebbe essere qualsiasi cosa. Io quella robaccia non la bevo. –
– È ciran – Lo sconosciuto spinse il boccale verso di lei. – E lo berrei, se fossi in te. –
Sheridan scosse la testa, sentendo il mondo girare. – No, grazie. Non ci tengo a finire avvelenata in questo buco. –
L’uomo sospirò, poi allungò la mano verso il boccale e bevve un sorso. – Soddisfatta? –
Sheridan non rispose, fissando lo sconosciuto negli occhi e portandosi il bicchiere al viso. Annusò con attenzione, stupendosi di riconoscere le note amare del ciran. Ovviamente lo conosceva. Era un infuso che era in grado di spazzare via gli effetti dell’alcol in una manciata di secondi. L’aveva già usato, una volta. Gliel’aveva dato il suo capitano quando il mattino dopo un trasporto merci si era ritrovata così ubriaca da non poter controllare la sala macchine. Era miracoloso e troppo caro per chiunque non fosse disposto a spendere come per una piccola casa per aggiudicarselo.
Sheridan tirò giù l’infuso in una golata, suo malgrado incuriosita. Chi era quell’uomo, disposto a spendere centinaia di monete per parlare con lei in quel momento quando avrebbe potuto aspettare la mattina seguente? E comunque, anche se fosse veleno, sarebbe più misericordioso di quello che Devani ha in mente per me, pensò mentre sentiva il liquido scendere gelido attraverso il suo esofago.
Batté il boccale contro il bancone, sforzandosi di non vomitare. Come tutte le medicine, il ciran aveva un sapore orrendo.
Sheridan respirò profondamente, sentendo già gli effetti dell’infuso. La nebbia che le aveva avvolto il cervello si diradò, il mal di testa retrocesse a un lieve pulsare prima di sparire del tutto. Il rossore se ne andò dalle sue guance e la sua vista si fece più acuta. In qualche minuto era tornata l’efficiente Ella Sheridan, macchinista della nave Realgar della Compagnia dei Mercanti.
– Chi sei? – domandò, osservando meglio lo sconosciuto. Aveva una faccia banale, occhi e capelli scuri, una barba curata a coprirgli il mento. Non aveva armi e portava vestiti puliti anche se non nuovi. Le maniche della camicia erano arrotolate e un orologio meccanico faceva capolino da una tasca del gilet lasciata aperta. Sheridan era assolutamente certa di non averlo mai visto prima.
– Puoi chiamarmi Sarin. –
Sheridan inarcò un sopracciglio, mentre le labbra le si piegavano in un sorriso sardonico. Il sarin era un gas nervino che era stato utilizzato nella Guerra dei Dieci Giorni, non troppo tempo prima. Non aveva una buona fama.
– E sono sicura che sia il tuo vero nome – rispose ironica.
– L’unico che saprai e che ti interessa sapere, Ella Sheridan. –
– Come sai chi sono? –
– So molte cose di te – Sarin si mise più comodo sullo sgabello. – So che sei capo macchinista sulla Realgar. So che devi essere intelligente, per aver preso quel posto a soli venticinque anni. So che sei piena di debiti e con una passione smodata per il gioco d’azzardo. So che hai una madre e una sorella più piccola che ti aspettano a Veran. –
Sebbene fosse impressionata Sheridan si sforzò di non mostrare il suo stupore. Incrociò le braccia, assicurandosi che la lama nascosta nella sua manica fosse pronta all’uso. Non le piaceva la piega che aveva preso il discorso.
– Perché mi spii? –
Sarin sorrise. – Perché credo che tu possa essere la persona che mi serve. Per un lavoro. –
– Ce l’ho già, un lavoro. E si dà il caso che mi piaccia anche. –
– Senza dubbio – Sarin infilò le dita nel borsellino che portava alla cintura, facendolo tintinnare in un suono piacevole. Quando poggiò la mano sul bancone al di sotto si potevano intravedere i bordi di una moneta. – Ma è anche ben retribuito? –
Sarin spinse il denaro, che scivolò sul bancone fino a fermarsi davanti a Sheridan. Il bagliore dorato non l’aveva illusa: quello era davvero un aureo. Un aureo intero, puro, ancora luccicante. La macchinista sentì i suoi occhi spalancarsi. Era l’equivalente di quasi metà del suo debito presso Devani.
Si costrinse a rimanere fredda ma i suoi occhi faticavano a staccarsi da quella moneta. – Hai la mia attenzione, Sarin. –
L’uomo sorrise. – So che hai bisogno di denaro se vuoi continuare a vivere. Quell’aureo potrebbe essere tuo. Ma potresti guadagnarne altri. Molti altri. –
Sheridan tacque, sapendo in fondo dove quello sconosciuto volesse andare a parare. Se lo sentiva nelle ossa ma non aveva il coraggio di pensarlo, figurarsi di dirlo.
– Questo, però, non è il posto adeguato per parlarne – Sarin si alzò con un sospiro, riprendendosi la moneta. Le sue ginocchia scricchiolarono quando ci caricò sopra il peso. Con la coda dell’occhio Sheridan vide il luccicare di una protesi d’ottone tra il pantalone e la scarpa.
– Se sei interessata al discorso, aspetta dieci minuti da quando me ne sarò andato e poi esci anche tu. Svolta a destra nella via e prosegui per cento metri, poi gira di nuovo a destra. Sulla sinistra della strada ci saranno delle porte. Entra nella terza: la troverai aperta. E con questo aureo ad aspettarti. –
– Perché dovrei fidarmi? –
Sarin sorrise. – Perché non hai altra scelta. –
L’uomo si allontanò senza un saluto, le mani in tasca, sicuro di sé in una maniera quasi sfacciata. Sheridan rimase immobile sul suo sgabello, gli occhi fissi sul posto che la moneta aveva occupato sul bancone. Sentiva ancora il bagliore dell’oro stampato sulla sua retina. Dio, era la paga di quasi un anno per molta della gente che si trovava in quel posto e poteva significare la vita per lei. O almeno una boccata d’aria nel mare di merda in cui stava affogando. Avrebbe potuto tenere Devani a bada per un altro po’. Agli altri debitori poteva pensare con più calma. Si sentiva talmente sollevata che le sembrò di galleggiare sullo sgabello.
Guardò l’orologio che portava al taschino. Erano passati cinque minuti da quando quel Sarin se n’era andato. Sheridan fissò la porta, dolorosamente consapevole del vuoto del suo borsellino. In cuor suo, sapeva cosa Sarin le stesse offrendo: furto. E la Compagnia non tollerava i ladri.
Chi ruba verrà punito.
Sheridan, come chiunque altro sulla pidocchiosa faccia del pianeta, sapeva cosa volesse dire cercare di fregare la Compagnia. Ma un aureo… un aureo era più di quanto avrebbe mai potuto guadagnare prima del termine dell’ultimatum di Devani. Infinitamente di più. Con due aurei, sarebbe stata quasi libera. Con tre… beh, era quasi impossibile che avrebbe guadagnato tanto. Ma a una donna è concesso sperare.
Sheridan sorrise. Su un piatto della bilancia c’erano le lame di Devani, sull’altro quelle della Compagnia. Per il momento, però, quelle dell’usuraio erano molto più reali e tangibili, molto più vicine alla sua gola.
Sheridan si alzò, dirigendosi verso la porta con un sorriso.
In fondo, Sarin aveva ragione. Che altra scelta aveva?
 
▪▪▪
 
La porta nel vicolo era aperta, proprio come le aveva detto Sarin. Sheridan non era una sprovveduta e sapeva benissimo che molti incontri organizzati come quello terminavano con molto sangue versato e un morto sulle banchine del porto. Però, come sempre quando si infilava in una situazione pericolosa, non era agitata. Solo euforica.
Aprì la porta e si ritrovò in una stanza buia. La luce flebile della strada passava dalle finestre sporche, permettendole di distinguere solo qualche dettaglio. La camera era spoglia, disabitata. Su un lato si intravedevano delle scale pericolanti che portavano al piano di sopra. Una figura si muoveva nell’ombra.
Sheridan portò la mano all’elsa della spada, pronta a combattere se fosse stato necessario.
– Pace – la calmò la voce di Sarin. – Sapevo che saresti venuta. –
Una piccola fiammella illuminò la stanza. Era persino più squallida che nel buio.
– Vieni. –
Sheridan seguì Sarin su per le scale, sentendo il cigolio del legno a ogni passo. Il contrasto con il piano di sotto la lasciò senza fiato. Ogni oggetto, in quella stanza, urlava a gran voce ricchezza. Le pareti erano decorate con una carta da parati di un verde bosco, attraversata da disegni di appena un tono più chiaro. Alternati alle lampade accese c’erano quadri che persino ai suoi occhi ignoranti sembrarono magnifici. Le finestre murate erano dipinte mostrando uno scenario immaginario, di pieno giorno, talmente realistico che cozzava con la consapevolezza di Sheridan che là fuori fosse notte.
Al centro della stanza si alzava un’imponente scrivania di legno scuro, pregiato, piena di carte e libri e documenti. Un calamo e una penna dorati erano appoggiati sul ripiano, pronti per essere usati. Sheridan vide tutto questo in un battito di ciglia, lasciandosi colpire da quella ricchezza come da un maglio. Era talmente stordita che ci mise qualche istante a notare le persone che si trovavano in quella stanza.
Sarin era davanti a lei e la fissava con un sorriso compiaciuto. Appoggiati ai muri della stanza o seduti nelle sedie agli angoli c’erano altri uomini e donne che la guardavano seri. Nessuno di loro sembrava in qualche modo minaccioso, né impugnare un’arma. Sheridan sentì un brivido di sollievo percorrerla.
– Miss Sheridan, avanti. –
L’uomo che le aveva parlato era in piedi dietro la scrivania, le mani impegnate a sistemare dei fogli e un sorriso dipinto in viso. Vestiva una redingote blu notte che probabilmente valeva da sola quanto tutto quello che lei possedeva. Al di sotto si intravedeva una camicia di un bianco quasi accecante, abbottonata fino al collo e chiusa da una cravatta grigia. Sopra al viso sottile aveva capelli rossi che lo facevano assomigliare a una volpe. Gli occhi erano piccoli e scuri e osservavano Sheridan con un’intelligenza fuori dal comune. Avrebbe potuto avere una cinquantina d’anni.
– Lasciateci – ordinò ai suoi uomini, che uscirono chiudendosi la porta alle spalle. – Benvenuta. Il mio nome è Renard. Accomodatevi, prego – le indicò con una mano guantata una delle sedie imbottite davanti alla scrivania.
Sheridan avanzò, per niente stupita da quel soprannome. Renard, la volpe. Non ci sarebbe stato niente di più azzeccato.
– Avete dei nomi fantasiosi – mormorò sedendosi.
La bocca di Renard si inclinò in un sorriso che non si allungò agli occhi. – Forse. Ma converrete con me che in certi affari è più sicuro che affidarsi ai nomi normali. –
– Quindi, al momento, l’unico nome noto qui è il mio. Cosa volete da me? –
– Non desidero insultare la vostra intelligenza, Miss Sheridan. Siete una persona sveglia, vi sarete già fatta un’idea. –
– Vorrei sentirlo dire da voi. –
– Siamo dei ladri. Niente di più, niente di meno. E vogliamo rubare alla Compagnia. –
Sheridan non si aspettava nulla di diverso. Scoppiò in una risata priva di divertimento. – Chi ruba verrà punito – citò. – Ho visto troppi corpi pendere dalla forca per dimenticare questo preciso messaggio. Nessuno ruba alla Compagnia. Ditemi perché non dovrei alzarmi in questo istante e andare a denunciarvi. –
– Perché non avete un soldo – Renard iniziò a camminare per la stanza, girando attorno alla sedia di Sheridan. I suoi passi quasi non facevano rumore. – E più prossima alla morte di quanto non siate mai stata. Conosco l’entità del vostro debito e sapete meglio di me che non avete speranza di ripagarlo. Non fatemi tenere questo teatrino in cui fingo di dovervi convincere a fare qualcosa che è la vostra unica possibilità di salvezza. –
Sheridan si mosse irrequieta sulla sedia. – Come fate a sapere tutte queste cose? –
– Vi tengo d’occhio da molto tempo. Una sorta di patto con vostro padre. –
A quelle parole Sheridan sobbalzò. Suo padre era morto quando lei era piccola. Aveva avuto il suo stesso posto sulla Realgar ed era stato ucciso durante un abbordaggio. La Compagnia gli aveva dato funerali solenni e aveva poi assunto Sheridan quando aveva avuto quattordici anni. Di soldi, ovviamente, non se n’erano visti. Lo ricordava poco, ma di una cosa era certa: non era mai stato un ladro.
– Mentite. –
Renard si fermò, accarezzandosi il mento. – Thomas Sheridan, capo macchinista sulla Realgar. Capelli biondi, occhi scuri, cicatrice sulla guancia destra. Beveva solo whisky, diceva che non gli lasciava il mal di testa al mattino. Aveva, come qualcuno di mia conoscenza, una passione per le carte non ricambiata. Ed era un ladro. Mai scoperto dalla Compagnia, peraltro. –
Sheridan era scossa. Quella era la descrizione di suo padre, ma chiunque avesse parlato con lui per poco, o l’avesse seguito, avrebbe scoperto le stesse cose.
– Immagino che questi pochi dettagli possano non convincervi del tutto – continuò Renard. – Allora lasciate che vi dica qualcosa che potrebbe fugare ogni vostro dubbio. Vostro padre aveva un oggetto che portava sempre con sé. Una piccola clessidra di vetro e rame, con dentro pochi minuti di sabbia grigia e fine. Se non sbaglio, e imparerete presto che sbaglio con estrema difficoltà, l’avete con voi. –
Le mani di Sheridan corsero al suo collo, stringendo la clessidra che portava sotto i vestiti. Era un oggetto piccolo, un ninnolo che le era stato recapitato in un giorno di pioggia nella casetta dove viveva con sua mamma e sua sorella, quando aveva otto anni. La notizia che il padre era morto le avrebbe raggiunte solo dopo qualche giorno, ma dal momento che la clessidra era arrivata avevano capito che doveva essere successo qualcosa di brutto. Thomas non se ne separava mai.
– Una persona arguta come voi deve essersi accorta che, stranamente, non funziona – il tono ironico di Renard le diede una scossa di fastidio sulla schiena. Quell’uomo aveva ragione: la clessidra non funzionava. Le aveva provate tutte, sin da quando le era stata data, ma la sabbia non ne voleva sapere di scendere. Era rotta, per quanto ne sapeva lei. Aveva anche cercato di ripararla, ma presto aveva deciso di lasciar perdere. Se suo padre era stato affezionato a una clessidra che non funzionava non stava a lei tentare di rimetterla a posto.
– Esatto – rispose con un sorriso gelido. – Non funziona. –
– Non è che non funziona – Renard tornò a sedersi. – È che non avete trovato la chiave. –
Sheridan si mise più comoda sulla sedia, incrociando le braccia. – Sentite, è l’una passata e io sono stanca di tutte queste stronzate. Non è un dannato lucchetto, è una clessidra. Non ha una serratura. –
Renard sorrise e tese la mano. – Se volete farmi una cortesia, datemela per qualche secondo. Vi giuro su Dio che non la romperò. –
Sheridan era incuriosita, suo malgrado. Si sfilò la catenella dal collo, tenendo la clessidra in mano per qualche istante. Era leggera, una struttura aggraziata di vetro incastonata tra due dischi del rame più puro. Brillava arancione alla luce delle fiammelle che illuminavano la stanza. La sabbia sembrava come pressata all’estremità superiore, incapace di scendere. L’aveva osservata talmente tanto da averci perso la vista, ma non c’era mai stata traccia di serratura.
La porse a Renard. – Prendete. Se ci tenete così tanto a fare una figuraccia non sarò io a fermarvi. –
L’uomo la ringraziò con un cenno del capo. Poi, dopo averla osservata per qualche istante con aria concentrata, Renard diede una rapida torsione ai due bulbi, ruotandoli in senso opposto. Sheridan saltò sulla sedia e lanciò un urlo, allungandosi sulla scrivania, aspettandosi di vedere pezzi di vetro e sabbia sul ripiano.
– Perdonatemi, ma era necessario – Renard la guardò con un sorriso sornione, tenendo in una mano la clessidra integra e nell’altra una delle due aste dell’intelaiatura. Era lunga e sottile come un ago, e terminava con una piccola struttura a pettine. Era senza ombra di dubbio una chiave.
– Incredibile – mormorò Sheridan, prendendo i due pezzi dalle mani di Renard. Si frugò nelle tasche alla ricerca del monocolo che portava sempre con sé, infilandoselo per osservare quel piccolo capolavoro di meccanica. Le strutture di rame che reggevano la clessidra avevano ruotato su sé stesse con la torsione, liberando una piccola serratura e rilasciando la chiave.
Sheridan si rigirò i due oggetti tra le mani, studiandoli, mentre Renard parlava. – Come potrete immaginare, vostro padre era sicuro che nessuno avrebbe mai usato una clessidra in questo modo. Geniale, non è vero? Thomas era un uomo di viva intelligenza. Non ho mai incontrato nessuno che fosse abile come lui con le invenzioni e gli ingranaggi – vedendo che non faceva niente la spronò. – Usatela, suvvia! –
Sheridan fece come l’uomo gli consigliava. Piano, come se avesse paura di romperla, infilò la chiave nella serratura. La girò dolcemente, lasciando che il rumore di ingranaggi che ruotavano le colmasse le orecchie, tranquillizzandola.
La clessidra si sbloccò con un clic. La sabbia grigia, che le era sempre sembrata incollata a uno dei bulbi, inizio a scorrere.
– Incredibile – ripeté Sheridan, incapace di pronunciare qualsiasi altra cosa. Alzò gli occhi verso Renard, rimanendo sconvolta. Il ladro era immobile. Sul viso aveva un’espressione entusiasta, gli occhi erano spalancati e rivolti verso le mani di Sheridan. Le palpebre non sbattevano. Le labbra erano aperte, come se fosse sul punto di dire qualcosa, lasciando intravedere la superficie dei denti.
Sheridan era perplessa.
– Renard? – mormorò, agitandogli la mano davanti al viso. Non ottenne nessuna risposta. – Ma che diavolo… –
Sheridan si alzò guardandosi intorno, cercando di capire cosa fosse successo. Tutto era bloccato nella stanza. Il fuoco del camino era fermo, le scintille immobili. Persino l’aria sembrava sbagliata, statica. Sheridan si alzò, la clessidra ancora in mano. Sembrava essere l’unica cosa in grado di muoversi lì dentro. Tutto era silenzio.
Cos’è questa clessidra?
Le sembrava incredibile che suo padre avesse inventato un oggetto del genere. Quell’affare era in grado di fermare il tempo. Sembrava impossibile. Dove aveva trovato le competenze? Come mai aveva scelto di tenere segrete le sue scoperte e non di venderle agli Alchimisti? Sheridan poteva immaginare senza sforzo quanti soldi avrebbe guadagnato se avesse deciso di commercializzarla. Poteva avere usi pressoché infiniti: nella vita di tutti i giorni, nel commercio, in guerra. Era un’invenzione geniale.
Si portò la clessidra davanti agli occhi, ruotandola. I pochi minuti di sabbia scivolarono di nuovo nel bulbo inferiore. All’improvviso la stanza si rianimò.
Come se non fosse passato nemmeno un istante Renard si sistemò meglio sulla sedia, finendo il movimento iniziato minuti prima. – Senza parole, vero? –
– È... non ho mai visto niente del genere prima. Come funziona? –
– Non lo so – Renard scosse la testa. – Nessuno lo sa. L’ha progettata tuo padre, gli schemi sono andati persi con lui. Bisognerebbe smontarla per capire come funziona. –
Sheridan tolse la chiave dalla piccola serratura, tenendola in mano. – Non ho nessuna intenzione di smontare un oggetto del genere. Rischierei solo di romperlo – si risedette, incapace di staccare gli occhi dalla clessidra. – Cosa è in grado di fare? –
– Blocca il tempo – Renard non riuscì a trattenere un sorriso. – Per tutti coloro che si trovano nello stesso ambiente del portatore. Escluso il portatore, ovviamente, come avrete ben capito. Lascia dietro di sé solo una piacevole sensazione di déjà-vu. –
– Quanto dura l’effetto? –
– Una decina di minuti in cui un intero edificio o una nave possono essere bloccati. Minuti più che sufficienti per un gran numero di cose – Renard prese un aureo dalla tasca, lanciandolo verso Sheridan.
La macchinista lo prese al volo, rigirandoselo tra le dita. Lo fissò con un sorriso per niente rassicurante, feroce.
– Parlatemi di nuovo di questa rapina alla Compagnia. –
 
▪▪▪
 
Sheridan dormì poco quella notte, nella sua cuccetta sulla Realgar. Nella tasca della giacca sentiva il peso confortante della moneta e in testa sentiva le parole di Sarin e di Renard. Se la sera prima gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto. Invece si ritrovava lì a progettare un furto, viva e con un intero aureo in tasca.
Il piano dei ladri era semplice: doveva usare la clessidra per rubare il rame alla Compagnia. Avevano definito i dettagli e Sheridan, da perplessa, si era via via convinta che avrebbero potuto farcela. Potevano frodare la gilda e vivere a sufficienza da sfruttare il ricavato. Sospirò, rigirandosi per la centesima volta nel letto stretto.
Non aveva mai pensato a sé stessa come a una ladra, ma non riusciva a vedere altre soluzioni. Renard aveva ragione: era indebitata fino al collo e più vicina alla morte di quanto non fosse mai stata. Poteva scegliere se avere una morte certa e impietosa per mano dei suoi debitori o se affrontare il pericolo costituito dalla Compagnia. Non era da lei arrendersi senza lottare. Renard gli aveva dato una possibilità di sopravvivere, sarebbe stato da stupidi non coglierla.
Rame, pensò, liberandosi dalle coperte. Un metallo così insignificante ma allo stesso tempo così prezioso. Senza quello, l’intera industria della capitale e dell’Impero era bloccata. Se non si fossero prodotti ingranaggi le macchine non avrebbero potuto funzionare e tutto il sistema di produzione sarebbe crollato. Non c’era più nulla, in quel lato del mondo, che non fosse stato industrializzato. Alla base di ogni moneta, di ogni singolo aureo, c’era il potere del vapore e dell’ingegneria. Rubare il rame voleva dire tentare di mettere in ginocchio l’Impero. La Compagnia non l’avrebbe mai tollerato.
Poi c’era la questione di suo padre. Lo ricordava come si ricorda la propria infanzia, una via di mezzo tra sogno e realtà. Era un uomo alto e imponente, biondo come lei. Rideva spesso e volentieri, soprattutto quando era con sua madre. Nonostante fosse quasi un gigante nella sua memoria, Sheridan ricordava l’estrema delicatezza delle sue mani e delle sue dita. Adorava vederlo lavorare nel piccolo studio di casa loro. Era sempre circondato da attrezzi strani, quasi pericolosi. Le parlava quando montava le sue invenzioni, spiegandole nel dettaglio quello che faceva. La passione di Sheridan per le macchine era nata in quei giorni, alla scrivania di suo padre, guardandolo assemblare ingranaggi che sembravano prendere vita sotto le sue mani.
Non aveva mai saputo che fosse un ladro e dubitava che persino sua madre ne fosse a conoscenza. In effetti, pensandoci, ricordava un tenore di vita di poco superiore a quello che ci si sarebbe aspettati dalla famiglia di un capo macchinista, ma aveva sempre pensato che fosse dovuto alle vendite delle invenzioni del padre. Se Renard le aveva detto la verità, Thomas Sheridan non era mai stato scoperto. Era morto per sbaglio, in uno stupido tentativo di proteggere il capitano della Realgar quando la nave era stata abbordata dai pirati.
Sheridan sapeva che Luther Chapman aveva considerato saldato il debito nei confronti di suo padre solo quando l’aveva aiutata a prendere il suo posto sul dirigibile. Lei era brillante, e lo sapeva. Una delle migliori macchiniste in circolazione. Ma ci voleva molto di più per assumere quella carica a venticinque anni. Il capitano Chapman l’aveva aiutata, garantendo per lei e facendo pesare il suo nome nella decisione della gilda.
Il capitano. Sheridan sospirò, stropicciandosi gli occhi. Avrebbe tradito anche lui, la fiducia che aveva riposto in lei. Se fosse stata catturata avrebbe infangato il suo nome agli occhi della Compagnia. Chi garantisce per un ladro non gode della massima reputazione. Mentre finalmente il sole sorgeva e illuminava la sua stanza dal vetro degli oblò, Sheridan capì che non gli doveva abbastanza da sacrificare la sua vita per lui. Lo avrebbe tradito e sarebbe sopravvissuta. Avrebbe potuto conviverci.
Si sedette sulla cuccetta, la camicia stazzonata e il gilet slacciato. Sbadigliò senza trattenersi, strofinandosi la faccia. Quella mattina salpavano per Venar, il ventre della Realgar talmente carico di rame che sembrava quasi stupefacente che riuscisse ancora a muoversi nell’aria.
Sheridan si alzò, dirigendosi verso il ponte superiore e verso la sua tazza di caffè nero. Solo due giorni la separavano dalla sua prima rapina ai danni della Compagnia.

 

Ciao a tutti e ben arrivati fin quaggiù :)
Spero che il primo capitolo di questa storia vi sia piaciuta. Partecipa a un contest, quindi i capitoli sono già belli pronti, solo in attesa di essere pubblicati. A tal proposito, spero che l'editing sia venuto bene. Ho dei problemi con la gestione dell'html, spero di non aver fatto troppi pasticci. 
Ci tenevo anche a spiegare un attimo il titolo, che in italiano può essere tradotto con "la carta canta". In pratica, vuol dire che la tua giocata è dettata dal valore di quello che hai in mano e dalle carte stesse, niente di quello che dirai o farai potrà cambiare il loro valore. Spero che, più in là con la storia, si capisca perchè ho scelto proprio questo titolo.
Ho finito di importunarvi con i miei svarioni, grazie ancora di essere passati da qui e di aver letto.
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya
   
 
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