Il
piccolo Oikawa Tooru, si sapeva, era un bambino pieno
di fantasia.
A
scuola ogni suo disegno era appeso al vetro decorato
della finestra e ci rimaneva per quasi un mese intero; la sua mamma
aveva un
raccoglitore con centinaia di fogli, rigorosamente corredati da firma e
data, realizzati
da Tooru sin da quando non riusciva ancora a distinguere la destra
dalla
sinistra. Non era raro vederlo parlottare da solo, o costringere sua
sorella
maggiore a prendere parte ai suoi giochi di fantasia (aveva persino
dato un
nome al suo cavallo, quando immaginava di essere un pellerossa che
doveva
scappare dagli inglesi) e lei non smetteva mai di ripeterlo: durante il
gioco,
recitava come se davvero riuscisse a vedere quel mondo intorno a lui.
Era
impressionante.
Un
bambino con una marcia avanti, senza dubbio.
Grazie
anche al suo faccino tutto occhi, era sempre il
protagonista di ogni recita scolastica.
Sua
mamma diceva che avrebbe dovuto fare l'attore, da
grande.
E
poi era vanitoso, godeva dei complimenti, che di certo
non gli mancavano.
La
sua mamma, infatti, quando compì sei anni e si
dovettero trasferire per il lavoro di suo padre, era proprio questo che
diceva
nel tragitto verso la loro nuova casa: avrebbe voluto iscrivere suo
figlio ad
una scuola con un club di recitazione.
Peccato
che il mondo che Tooru amava di più immaginare era
fatto di cori, adrenalina, una rete e una squadra intorno a lui.
Quante
volte aveva sognato di andare alle Olimpiadi con la
sua palla di Ben10 e sua sorella, dal pavimento, gli lanciava chicchi
di riso
come se fossero fiori.
Oh,
che mente che aveva.
Sua
nonna diceva che aveva qualcosa che non andava.
Diceva
che doveva raddrizzarsi,
correggersi.
Ma
poi arrivava la sua mamma e gli proponeva di andare in
giardino a giocare ai pirati.
Comunque,
andava tutto bene.
Il
piccolo Tooru di sei anni fu però dispiaciuto di
lasciare il paese in cui era nato, d'altronde aveva molti amichetti
nella sua
classe e c'era una gelateria proprio all'angolo di casa sua, una
libreria con i
libri –con le figure!- sui Grigi... a dir la
verità era arrabbiato e il suo
broncio si percepiva ad un pianeta di distanza.
Forse
Venere, forse Marte.
Voleva
davvero dirgliene quattro al signore che aveva
fatto cambiare lavoro al suo papà, era colpa sua se ora
lasciava tutto quello a
cui si era affezionato!
Che
strani, gli adulti.
Nessuno
di loro vedeva i suoi cavalli.
Nessuno
di loro capiva che doveva scappare, e in fretta
anche, perché un branco di tori li stava caricando!
Nessuno
vedeva le stelle.
Eppure
erano così reali...
La
casa che la sua famiglia aveva preso in affitto però
era carina, questo doveva ammetterlo.
Era
fatta interamente di mattoni rossi dallo stile
occidentale, con le porte che _si trascinavano_ e tante finestre.
Tante,
tante finestre.
Era
una casa luminosa a due piani nel bel mezzo di un
complesso di case simili, una uguale all'altra, ma evidentemente in
quella di
loro proprietà l'agenzia teneva a presentarla in modo
accogliente, visto che la
prima cosa che Oikawa notò furono i fiori.
Fiori
di un rosso scarlatto circondavano il balcone della
villetta, nonostante la primavera fosse già sbocciata.
"Forse
il clima, forse l'umidità, ma qui i fiori non
muoiono mai. Seccano e il giorno dopo ci sono dei nuovi boccioli.
Nessuno se ne
occupa, in realtà", aveva detto loro l'agente immobiliare.
Ad
Oikawa erano brillati gli occhi.
Sua
mamma gli aveva sorriso dolcemente mentre gli
scompigliava i capelli. "Ti piacerà vivere qui", aveva detto.
Per
la prima volta, Tooru aveva annuito piano.
Gli
era tutto sconosciuto.
Qualche
settimana dopo, nella sua vita entrò a par parte
Iwaizumi Hajime.
Un
bambino dai capelli neri e gli occhi verde bosco, che
sembrava aver stuzzicato una particolare zona della sua mente.
Lui
aveva già sentito quel nome.
Nella
sua testolina da seienne, Tooru associò quel cognome
alla prefettura giapponese, forse sentito per sbaglio in una delle
conversazioni di suo papà e non ci badò
più, a quel solletico tra le chiocche.
Da
quando quel bambino gli aveva sporcato le scarpette
nuove -quelle con le lucine blu che si illuminavano se saltava, che
rabbia!-,
sembrava non voler più uscire della sua vita.
Ben
presto, 'Hajime' divenne 'Iwa-chan' per lui.
Sembrava
aver trovato l'amico che non aveva mai avuto nel
suo vecchio paese e pensava che, se avesse avuto la coda, avrebbe
scodinzolato
ogni volta che lo vedeva da lontano, dalla finestra da camera sua.
Seppur
Tooru fosse abbastanza alto per la sua età, doveva
sempre farsi spazio tra i fiori scarlatti per affacciarsi e sventolare
la mano
verso Iwa-chan, che probabilmente stava pulendo la catena della sua
bicicletta
insieme al suo papà.
Un
papà che un po' condividevano, visto che il suo non
c'era mai.
Ma
Iwa-chan non aveva una sorella invece, ed era ben
felice di condividerla con lui.
A
lui Iwa-chan piaceva perché sembrava che, dopo un po',
anche lui avesse cominciato a vedere le luci.
Oikawa
gli aveva chiesto cosa ne pensasse, ma lui aveva
semplicemente risposto "saranno dei riflessi" ed era tornato a
sporcarsi le manine con il grasso della bici.
Tooru
non ne era tanto convinto.
Ma
la Cosa doveva ancora accadere.
Ci
vollero anni perché se ne potesse fiutare l'odore
nell'aria.
Precisamente,
Oikawa aveva tredici anni quando il suo cuscino scomparve nel nulla.
Abitava
in quella casa da sette anni ormai, e i fiori sul
suo balcone non erano mai seccati.
Aveva
provato a chiedere a sua mamma -"no Tooru, non
ho lavato il tuo cuscino"-, a sua sorella -"Tooru, io ho quello
ergonomico, ti pare che prenda il tuo?"- e a suo papà
-"Tooru, non
credo di averlo visto, ma ora devo fare una telefonata importante,
potresti
uscire?"
Aveva
persino chiesto alla mamma di Iwa-chan, forse
l'aveva lasciato lì una delle volte in cui aveva dormito dal
suo compagno di merende (d'altronde
c'erano
anche dei suoi vestiti nell'armadio dell'altro, così da non
avere problemi
quando andavano direttamente a scuola) ma "mi dispiace, tesoro, ho
controllato e qui ci sono solo quelli sbavati di Hajime"
Il
suo cuscino sembrava sparito nel nulla.
Eppure
l'aveva lasciato al solito posto, come aveva sempre
fatto...
Come
per magia, la sera stessa il cuscino era di nuovo al
suo posto.
Un
po' sgualcito, ma c'era.
Per
tutta la serata, Tooru non fece altro che chiedersi
chi potesse avergli fatto quello scherzo.
Gli
alieni, senza dubbio.
Una
settimana dopo successe un altro strano evento.
Tooru
si svegliò con i piedi sul cuscino e la testa sul
bordo opposto del letto.
Quella
proprio non riuscì a spiegarsela in alcun modo.
Tuttavia,
preso dalla sorpresa e dallo spavento, si guardò
intorno prima ancora di mettere a fuoco dove si trovava e vide con la
coda
dell'occhio una piccola incisione sulla pediera del suo letto.
Sembrava
una T, da quel che riusciva a vedere quasi a
testa in giù e le ciocche castane a svolazzargli davanti
agli occhi. Dannata
gravità.
Non
ricordava di averla incisa, ma forse risaliva a
qualche anno prima, quando da piccolo gli capitava di avere uno dei
suoi
momenti di noia atroce.
Ma
quella visione gli sembrò particolarmente familiare.
Non
sapeva quando avesse fatto quell'incisione, né il
come, né il perché, ma era certo di esserne lui
l'autore.
Era
il 6 novembre.
-
Quel
giorno a scuola, Tooru avvicinò la sua sedia al banco
di Iwa-chan e divise con lui il suo bento e parte della mela che non
aveva
voluto a colazione.
Quel
giorno Iwa-chan era particolarmente triste, fu quello
il primo pensiero di Tooru non appena lo salutò.
Non
erano nemmeno andati a scuola insieme!
Non
sembrava triste, ma... era come se volesse qualcosa,
ma nemmeno lui sapeva cosa.
Era
come frustrato e non ne sapeva il perché.
Qualsiasi
cosa che Tooru facesse o dicesse, lui la
spazzava via con un gesto della mano come se stesse pensando a qualcosa
di
molto più importante, al momento.
Accadeva
spesso tra loro, ma bastava una linguaccia da
parte di Tooru per azionare quello strano meccanismo nell'altro che lo
portava
a guardarlo male e a spingerlo, per poi finire a fare la lotta e
sporcarsi di
terra come sempre.
Ma
quel giorno no.
Sembrava
quasi che Iwa-chan volesse stargli alla larga.
Come
se la sua sola vista lo facesse svalvolare.
Quando
quella sera tornarono a casa insieme, Hajime non
riusciva proprio a stare calmo: continuava ad allentarsi il cravattino,
si
faceva aria con le mani.
Aveva
il respiro affannoso.
Camminava
a passo serrato.
Si
passava in continuazione le dita tra i capelli sudati.
Se
solo Tooru provava ad aprire bocca, sembrava volesse
mangiarlo vivo.
Era
insofferente a praticamente tutto.
Oikawa
non l'aveva mai visto così: lui che era sempre
calmo -tranne quando c'entrava lui-, rispettoso e taciturno, non sapeva
come
gestire quella situazione. Più lo guardava, più
si faceva prendere
dall'angoscia.
Cosa
diavolo stava succedendo?!
Sulla
via del ritorno, poco prima del parco dove andavano
ogni giorno a giocare a pallavolo o a catturare coleotteri, Hajime ebbe
per la
prima volta un attacco di panico.
Ormai
sembrava non riuscisse più a percepire nemmeno
più
le parole che Tooru gli urlava nelle orecchie, di stare calmo, c'era
lui, non
aveva niente da temere, andava tutto bene.
Hajime
aveva gli occhi persi e Tooru non sapeva come ritrovarli.
"Smettila
di pensare... smettila!"
Raccogliendo
un briciolo di lucidità, il moro lo fece
togliere dal centro della strada e lo fece stendere sull'erba
all'entrata del
parco; l'altro sembrava volersi strappare i vestiti di dosso come se
fossero
una camicia di forza, e Tooru l'aiutò a sbottonarsi la
camicia, gli fece
scivolare dalle braccia la giacca e gli sciolse il cravattino verde
dell'uniforme. Dovette combattere contro le sue braccia che lo
allontanavano
terrorizzate, quasi come se Hajime pensasse che stava per fargli del
male.
"Nessuno
ti farà male, resisti!"
Tooru
era più disperato di lui, ma non faceva altro che
dirgli "va tutto bene, calmati" come se fosse un mantra.
Non
sapeva cosa fare.
Non
gli era mai successo.
Quando
sarebbe finito tutto ciò?
Perché
stava accadendo?
Perché?
Sembrava
vedesse cose che non c'erano, come lui faceva da
piccolo durante i suoi giochi.
"Quello
che
vedi non è reale!"
E
con quella frase, con sole sei parole, Tooru Oikawa
considerò concluso un capitolo della sua vita.
Quando
vide che il moro cominciava ad alternare qualche
respiro ai singhiozzi impanicati, Tooru si sedette sulle sue gambe per
tenerlo
fermo e si sbilanciò fino ad afferrare il suo zaino, che
aveva lanciato via nel
momento in cui aveva sorpassato il cancelletto con un Hajime in preda
al
terrore.
A
tentoni, scovò il telefono che sua mamma gli aveva
regalato per il suo compleanno, ma che giaceva inutilizzato per gran
parte del
tempo, e compose il più in fretta possibile il numero della
madre di Iwaizumi.
In
meno di un tre minuti, l'auto che per infinite mattine
li aveva accompagnati fino al grande cancello della scuola
sbucò da dietro il
cespuglio di bacche che costituiva da perimetro del parco pervaso
dall’autunno.
Hajime
era sotto di lui e nel frattempo aveva ripreso a
respirare, ma guardava il vuoto.
Non
si muoveva più come un indemoniato, ma non sembrava
nemmeno calmo.
Aveva
l'espressione più rassegnata che Tooru avesse mai
visto.
Si
lasciò cadere al suo fianco, stremato e senza forze
anche lui, e chiuse gli occhi per un istante mentre sentiva il motore
della
macchina spegnersi e la portiera aprirsi.
Quello
fu l'attimo in cui Hajime sussurrò quel "non
doveva finire così..." che gli fece accapponare la pelle.
Si
voltò a guardarlo con occhi sbarrati.
La
sua mente ebbe un flash.
Non
dormì per tutta la notte.