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Autore: yonoi    24/09/2018    7 recensioni
Un paese di montagna, un liceo di città: al liceo, una normale mattina di lezione si trasforma in terrore.
Quindici anni e un fucile da caccia, un ragazzino introverso e un alter ego deciso, dominante, senza sensi di colpa. E poi i giorni difficili in cui occorre riprendere in mano le proprie vite, rimettersi in cammino ed affrontare un viaggio: nella bellezza estrema e impervia delle montagne o semplicemente tra le piante da far crescere in un vivaio, alla ricerca del Dio delle Vette e della semplice libertà che la natura offre.
Perché ci si mette sempre in cammino verso una meta, per poi scoprire, a volte, che la meta è il viaggio stesso, sono gli incontri e i cambiamenti del cuore.
Prima classificata al contest "In viaggio" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP a pari merito con "Lultima battaglia di Resen-Law di Old Fashioned
Seconda classificata al contest "Specchi, ombre e presagi: il doppelganger" indetto da Shilyss, sul Forum di EFP, e vincitrice del premio speciale "Angst e dramma, questa vita è solo angst e dramma".
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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È impossibile soffrire
senza far pagare a qualcuno
la sofferenza.
Ogni lamento
contiene già una vendetta”
(F. Nietzsche)
 
L’uomo sano non tortura gli altri,
in genere è chi è stato torturato
che diventa torturatore”
(Carl Jung)
 

2. La Via delle Nevi

 
            Quando non trascorreva le sue giornate fuori dal tempo nella stanza di Walter, Lidia si rifugiava in una tavernetta attrezzata con un piccolo schermo, e di là ascoltava le voci dal mondo attraverso il filtro della televisione. Gli sceneggiati a puntate e le interruzioni pubblicitarie facevano da sfondo ai lavoretti con cui occupava le ore, nell’attesa che scivolasse via un altro giorno: era molto abile Lidia, e senza levare gli occhi dal video né perdere un punto confezionava calzettoni e sciarpe di lana, coperte a patchwork che consegnava puntualmente a suor Pesca, dando per scontato che fosse sua figlia a utilizzarle. Finché un giorno Pesca l’aveva ringraziata a nome di tutta la comunità: i suoi lavori a maglia erano molto graditi dalle sorelle anziane, che per l’assenza del riscaldamento nelle celle pativano molto il freddo, e gli acciacchi dell’umidità.
            Una volta di più Lidia si era sentita ingannata, ma nonostante tutto aveva continuato a sferruzzare, perché quello era il modo che aveva escogitato per star vicino a sua figlia: di andare a trovarla non voleva neppure sentirne parlare, ma in fondo sperava che di tutto quel mucchio di berrette pesanti, calzettoni al ginocchio e sciarpe da esploratore, qualcosa prima o poi arrivasse a tener calda suor Pesca mentre trafficava in cucina all’alba, a novembre potava i cachi nel frutteto, e già a ottobre spalava metri di neve per liberare l’unica strada che portava alla comunità.
            Non era la prima volta che Lidia si sentiva messa nel sacco da quella figlia che non amava le discussioni, le liti, gli scontri ma riusciva sempre ad imporsi con una sottigliezza così piena di grazia che alla fine neppure ci si accorgeva d’esser stati fregati.
            Quando Pesca aveva deciso di andarsene da casa dopo la maturità, lo aveva fatto senza contrasti e senza drammi, semplicemente infilando l’uscio di casa con lo zaino sulle spalle.
            La sua decisione aveva lasciato di stucco Lidia Del Valle: proprio la sera prima, si era discusso in casa della facoltà universitaria più adatta ad una studentessa con la media dell’otto, e mentre Enrico Del Valle, da tempo al corrente di ciò che ribolliva nella testa di sua figlia, si era astenuto dal dare un parere, Lidia al contrario non aveva alcun dubbio: ingegneria era il ramo più adatto, con la tua intelligenza non puoi fare di meno:
            -“Le facoltà umanistiche sono una perdita di tempo, con ingegneria invece trovi lavoro subito: tuo zio Firmino Del Bon sarebbe ben contento di averti nel suo studio, ne abbiamo già parlato, così cominceresti subito a fare pratica e a guadagnare qualcosa”-
            A quel punto, si era intromesso Enrico: -“Firmino è un imbecille e anche un disonesto, ha lucrato sull’appalto per la nuova statale facendo abbattere sei ettari di bosco solo per riempirsi le tasche”-
            Senza far caso all’interruzione e neppure alle scempiaggini di Walter - iscriviti a ingegneria aerospaziale, così poi vai a caccia di alieni su Marte, e io intanto mi trasferisco nella tua stanza - Lidia era andata avanti imperterrita:
            -“Certo, quando si tratta della mia famiglia... Non dar retta a tuo padre, lui si trova più a suo agio tra gli stambecchi che in mezzo agli esseri umani”- Lidia tirava dritto senza neppure accorgersi che Pesca, in realtà, aveva qualcosa da dire.
            -“Allora siamo intesi, domani scendiamo in città per formalizzare l’iscrizione e già che ci siamo possiamo passare dallo zio, così avrai occasione di visitare lo studio. Ha con sé cinque collaboratori, tutte persone giovani, ti troverai a tuo agio”-
            Riguardo a quell’agio Pesca aveva dei dubbi, perché i suoi progetti andavano in direzione esattamente contraria, con buona pace dello zio Firmino e del suo prestigioso studio di ingegneria.
            Pesca aveva le idee chiare: eppure, quella sera, come già era accaduto in molte altre occasioni, di fronte all’entusiasmo di sua madre non riuscì a trovare le parole per spiegare ciò che si era insinuato tra le pieghe della sua vita, dapprima in sordina poi con sempre maggior sicurezza.
             Tutto era cominciato con l’insoddisfazione, con la ricerca di una meta, poi c’era stato l’incontro con Qualcuno che non teneva i piedi per terra, a differenza dei giovani dello studio Del Bon: quell’incontro apparteneva al dominio dell’inspiegabile, ed era la ragione per cui Pesca Del Valle, l’indomani mattina, invece di iscriversi nelle liste di un futuro assicurato, avrebbe fatto il proprio ingresso in comunità per un periodo di prova, con il fermo proposito di restarci per sempre.
            La vocazione era l’unico motivo per cui Pesca non aveva alcuna intenzione di diventare matricola a ingegneria: in più, Pesca era negata per le materie scientifiche, era andata a ripetizione di matematica fin dalle elementari e si era iscritta al liceo classico nel tentativo di sfuggire alla trigonometria, alle incognite dell’algebra e alle radici quadrate. Malgrado ciò, era incappata in un’insegnante ancora più quadrata delle radici in questione, e il risultato era stato che l’allieva Del Valle era stata rimandata a settembre tutti gli anni, con una puntualità implacabile.
            Tra Pesca e ingegneria, i calcoli e gli integrali si stendeva l’oceano dell’incomprensione totale: ma al momento del dunque, travolta dall’entusiasmo di Lidia, Pesca non se l’era sentita di contraddirla. Le era venuta solo una gran voglia di fuggire, e questo era esattamente quello che aveva fatto il mattino seguente.
            L’appuntamento in città con lo zio Firmino era stato fissato per le nove del giorno dopo: giocando d’anticipo, la sveglia nella cameretta di Pesca aveva suonato alle cinque, e quando due ore dopo sua madre aveva iniziato a bussare alla sua porta, la futura matricola era già per i campi, libera e insindacabile nei suoi diciott’anni appena compiuti. Aveva avuto anche il tempo di fermarsi ad ammirare l’alba sulle colline, mentre si dirigeva a passi ben distesi verso la comunità.
            Suo padre si era offerto di darle un passaggio in auto, o almeno di pagarle il biglietto della corriera, ma Pesca si era dimostrata irremovibile nella sua decisione d’intraprendere a piedi il viaggio della sua vita. Si erano salutari la sera del giorno prima, me la vedrò io con tua madre, aveva assicurato Enrico Del Valle mentre stipava nello zaino della figlia tutto ciò che pensava potesse servirle durante la sua prossima vita senza di loro.
            Pesca si era limitata a sorridere ma poi, il mattino dopo, aveva lasciato tutto in un mucchio ordinato fuori dall’uscio: i maglioni pesanti, i vasetti di marmellata fatta in casa, l’ombrello in caso di pioggia; le chiavi di casa e persino le scarpe, tenendo per sé soltanto due paia di mutande e due panini al formaggio.
            Quello era il particolare che maggiormente aveva impressionato Enrico Del Valle, facendogli avvertire la gravità del distacco: le vecchie scarpe da ginnastica di Pesca, con ancora attaccata l’erba delle sue passeggiate solitarie e le chiavi di casa posate a parte, come a dire che quella non era più casa sua.
            Dopo quel fatto, la famiglia si era divisa: da una parte Pesca e suo padre, che aveva pagato il prezzo della libertà di lei col muro di rancore levato da sua moglie. Dall’altra parte del muro, Lidia aveva tirato a sé il figlio minore, prendendone pieno possesso a titolo di risarcimento e cedendo a ogni richiesta pur di tenerselo stretto. Sicché erano arrivati il cellulare e il tablet a undici anni, la paghetta da cinquanta euro settimanali e il motorino a quattordici, mentre Walter Del Valle cresceva bullo e arrogante: impunito grazie a Lidia che a scuola puntualmente battagliava per via dei voti bassi, le note sul registro dovute, secondo lei, a semplice antipatia da parte degli insegnanti.
            Fu soltanto per caso che un giorno suo padre, volendo fare l’improvvisata di andare a prenderlo in auto alla fine delle lezioni, aveva beccato suo figlio nel bel mezzo di un capannello all’uscita dal liceo: al centro, Walter Del Valle aveva immobilizzato a terra un altro ragazzo, ed era occupatissimo a strofinargli il volto sul marciapiede, su qualcosa che Enrico non riuscì a guardare a lungo ma riconobbe subito come un pozza di urina, e che fosse umana o di cane non cambiava la sostanza delle cose. Il tutto si svolgeva tra gli applausi e il tifo da arena dei compagni.
             Il rampollo Del Valle era così impegnato a dar fondo alle proprie energie che neppure s’era accorto dell’arrivo del padre alle sue spalle: evento inatteso che aveva già contribuito a zittire il pubblico dei tifosi e a fargli il vuoto attorno, mano a mano che Enrico li spingeva da parte e arrivava fino a lui.
            Quando se l’era trovato a portata di mano, aveva acchiappato suo figlio per la collottola, gli aveva stampato in faccia cinque dita e tutti i calli del palmo, l’aveva trascinato in macchina senza dire una parola. Mentre guidava cercando di prestare più attenzione alla strada che alla propria rabbia, Enrico Del Valle aveva superato una volta per tutte quella ritrosia naturale che lo spingeva a non prendere mai posizione, a sottrarsi alle discussioni e ai contrasti trovando rifugio lungo i sentieri delle montagne. Si diede la sua buona parte di colpa, mentre una volta a casa sequestrava ogni sorta di marchingegno elettronico, dal cellulare al computer alla televisione in camera, passando per il motorino che non era elettronico ma rientrava a pieno titolo nei termini di una punizione esemplare.
            Prendendo di petto moglie e figlio, aveva dettato le nuove regole della casa:
            -“D’ora in poi qua dentro si fa come dico io. La festa è finita, ragazzo: l’anno prossimo andrai in collegio a tempo pieno e intanto, per quest’estate, andrai a fare la stagione nei rifugi. Ci penso io a raddrizzarti la schiena come si deve, e considerati fortunato che non te la raddrizzo a legnate”-
            In accordo con i principi di Enrico Del Valle, che per certe cose era più massiccio della montagna, alla cattività imposta si era aggiunta una pena accessoria: lui stesso avrebbe provveduto ad accompagnare Walter a casa del compagno, perché il colpevole si scusasse a voce abbastanza alta per farsi udire dall’interessato, dai genitori di lui e possibilmente dalla città tutta intera.   
            Per giorni, Enrico del Valle aveva braccato Walter per conoscere nome e indirizzo di quello studente che, nella calca, aveva intravisto soltanto di sfuggita: quel tanto che bastava per rendersi conto che era la metà di suo figlio e sembrava anche più giovane, il che rendeva l’intera faccenda ancora più vergognosa.
            Di fatto, il nome di quell’alunno che fino a poco prima aveva rivestito i panni della vittima Enrico l’aveva imparato dalle prime pagine dei giornali, quando la vittima si era trasformata in carnefice e Walter Del Valle si era sottratto suo malgrado a qualsiasi punizione: finendo di diritto nell’olimpo dei buoni insieme ad altri due allievi, freddati con un colpo diritto alla testa da quello che per tutti era diventato il Ragazzo della Sparatoria. Uno psicopatico gelido che, a lavoro finito, li aveva addirittura cosparsi di benzina e dati alle fiamme come se si trattasse di un mucchio di cartacce.
            Nei giorni successivi, Enrico Del Valle aveva attraversato tutta la trafila dei sensi di colpa, eppure un tarlo continuava a rosicchiare nella sua mente: perché doveva pur esserci una ragione se il Ragazzo della Sparatoria non aveva colpito a caso, ma era entrato nella classe di Walter e tra tutti aveva scelto proprio lui come bersaglio.
            I giornali si erano dilungati a ricostruire il profilo del Ragazzo della Sparatoria, figlio di un padre che aveva abbandonato la famiglia di punto in bianco, e di una madre con propositi suicidi che a conti fatti erano semplici strategie per ricattare il marito e costringerlo a tornare. Rabbioso e solitario, il Ragazzo si era progressivamente ritirato dalla realtà, rifugiandosi nella passione per le armi e per i giochi di ruolo: dopo la sparatoria, Dies Irae era finito nell’occhio del ciclone della polizia postale, ed era stato immediatamente oscurato.
            Come già aveva fatto Lidia prima di cancellare dalla foto di classe il volto del Ragazzo, non potendo cavargli gli occhi personalmente, Enrico Del Valle si era soffermato a lungo su quell’immagine, riprodotta più volte sulle pagine dei giornali. A parte le riprese nei giorno del processo, che lo raffiguravano sempre di spalle o con la testa tra le mani, quella foto era l’unica che ritraeva il Ragazzo della Sparatoria: Enrico era rimasto a osservarla per ore, come se da quegli occhi sgranati dalla stampa dei quotidiani potesse saltar fuori qualche risposta.
            Era giunto alla conclusione che se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, questo vale soltanto quando la persona ce l’hai di fronte, mentre una fotografia resta sempre un mistero.
            Dalla ricostruzione dei fatti di quel giorno emergevano i tratti di una mente distorta, in preda a un’esaltazione distruttiva: eppure il volto era quello, timido ed introverso, dello studente a cui Walter aveva strofinato la faccia sull’urina, e su questo non c’erano dubbi, Enrico Del Valle lo aveva riconosciuto subito. I giornali avevano fornito altri particolari: vessazioni continue da parte dei compagni dovevano aver fatto saltare a quel ragazzo parecchie rotelle che, molto probabilmente, già prima non giravano nella giusta direzione.
            Aveva provato a parlarne con Lidia, chiedendole se Dies Irae le ricordasse qualcosa.
            È musica da chiesa, aveva risposto sua moglie, che subito aveva aggiunto:
            -“Cosa vuoi dimostrare? Che tuo figlio era colpevole? Ma tu, da che parte stai?”-
            -“Vorrei solo capire che cosa è successo”-
            -“Tuo figlio è stato ucciso e non lo rivedrai mai più. Direi che non c’è bisogno di sapere nient’altro”-
            Col tempo, quel muro che li aveva divisi già all’epoca della fuga di Pesca era diventato sempre più insormontabile: una parete ben più impervia della montagna in cui Enrico Del Valle aveva imparato a trovare rifugio, non soltanto durante le gite con i turisti ma anche nel tempo libero. Partiva alla mattina e intraprendeva lunghe camminate solitarie, alla ricerca del silenzio e di quelle risposte che si ostinava a cercare ponendo domande al vento, frugandole nella penombra del sottobosco, nei giochi di luce che l’andare e venire delle nubi tracciava lungo i pendii.
            Come posso riconciliarmi con me stesso perché io non ho visto, perché non sono riuscito a impedirlo, e come posso dar da mangiare a un figlio che mi ha deluso, che non c’è più ma io non riesco a perdonarlo, neppure con la migliore buona volontà.  Le domande seguivano la cadenza dei passi mentre cercava di stancare il corpo e la mente, sforzandosi di proseguire il cammino anche quando era sfinito. Più macinava strada più le risposte parevano allontanarsi, ma Enrico Del Valle era deciso a inseguirle, e fu per questo che un giorno uscì di casa per non fare più ritorno.
            Una sera, al rientro da una delle sue escursioni solitarie, Enrico Del Valle aveva trovato la casa vuota. Ci aveva messo un poco ad accorgersene: aveva cercato Lidia nella camera di Walter e poi nella tavernetta, finché aveva trovato un biglietto scritto di fretta, a cui era seguita una telefonata. Lo squillo l’aveva colto di soprassalto, mentre si aggirava nella penombra come in un luogo estraneo. Neppure del gatto c’era più traccia, Lidia doveva averlo preso con sé.
            -“Sono da mia madre, stanotte ha avuto un malore”-
            -“Il tempo di prendere la macchina e ti raggiungo”-
            -“Resterò qui per un po’. Al mio ritorno, dovremo discutere di alcune cose. Voglio il divorzio”-
            Enrico accusò il colpo, ma in fondo sapeva che era a quel capolinea che lui e Lidia si stavano dirigendo, perché da troppo tempo viaggiavano su due binari che non s’incrociavano mai.
            Si sedette sul muretto di pietra viva che circondava la casa, accanto agli occhi rossi e bianchi dei gerani spalancati nel buio. Si ricordò di annaffiarli prima di affidare alla terra dei loro vasi il telefono e le chiavi di casa: prima di caricarsi lo zaino sulle spalle e tenere per sé soltanto i sentieri della montagna, sopra di lui il cielo che non aveva risposte ma che era comunque immenso, e in quell’immensità persino le domande più pressanti si perdevano, diventavano piccoli punti nell’orizzonte e poi svanivano come le stelle al loro tramonto, lasciando solamente la quiete.
             Nello zaino, una copia del Vangelo che era stato di Pesca ai tempi del catechismo: una delle tante orecchie che arricciavano le pagine riportava a quel brano del padre in cerca di aiuto, che continuava ad aver fede contro ogni evidenza. Enrico continuava a considerarlo una favola dal lieto fine strano, eppure aveva l’impressione che camminando tra le righe di quel passo forse qualche risposta l’avrebbe ottenuta. L’avrebbe chiesta al Dio delle vette e alla Gran Madre dei Ghiacci, la cima più alta e imprendibile delle loro montagne: o alla Via delle Nevi, quaranta chilometri di cielo e di ghiacciaio a tremila metri di altezza.
            Come era stato per Pesca dieci anni prima, era incominciato anche per lui il viaggio che l’avrebbe condotto al cuore dell’esistenza.
 
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            Ancor prima di poter essere libero di partire, il Ragazzo della Sparatoria aveva iniziato a tenere un diario di viaggio: “rompere col passato, con le solite lamentele, i rancori, le chiacchiere” annotava con la sua calligrafia aguzza, e il suo interlocutore non era la pagina bianca come ai tempi dei temi in classe - appunto quel passato che intendeva lasciarsi alle spalle - ma l’uomo della montagna, che un giorno lontanissimo gli aveva offerto sicurezza e protezione, mettendogli a dimora nell’anima una domanda: perché ci mettiamo in cammino?
            “Non più spazzatura nella mia testa: né quella del computer, né quella delle persone della mia vita di prima. Rompere totalmente. Soltanto la libertà, questo grande sogno, e riempirmene totalmente: la libertà comincia da dentro”.             A quattro anni dalla sentenza di primo grado, divenuta definitiva dopo la sua rinuncia definitiva agli appelli, il Ragazzo stava imparando cosa significa mettere a dimora nel senso più stretto: aver cura di un seme, creare le condizioni perché le radici possano affondare con forza e risucchiare il nutrimento dalla terra, vigilare perché la crescita avvenga indisturbata, senza eccessi o mancanze.
            Nei primi tempi della sua detenzione, su consiglio dell’assistente sociale si era iscritto a un corso per programmatore informatico, ma presto si era accorto che continuare a restare dietro a uno schermo lo riportava sempre là, al tempo dell’odio e dell’alienazione, del Dies Irae e di Barry Dale.
            Quando aveva deciso di far piazza pulita della vita di prima, computer e dispense erano stati cestinati senza rimpianti: aveva fatto domanda per iscriversi a un corso per giardiniere professionista, spiegando che preferiva dedicarsi alle piante piuttosto che continuare a coltivare quella parte di sé che ancora lo spaventava. Di notte, nel sonno, l’incubo di Barry Dale ancora lo visitava, di nuovo con le immagini della sparatoria al liceo, l’odore acre della benzina che bruciava e l’eco degli spari che avevano seminato il panico nelle classi.
            “Uscire dalle regole di questa società che schiaccia i più deboli, applaude il più forte e fa crescere l’infinita violenza che uno si porta dentro”: il primo giorno, insieme alle nuove dispense aveva ricevuto una rastrelliera composta da tanti piccoli vasi, un sacco di terriccio e una busta di semi. Una volta aperto il pacco di quella terra morbida, ricca di humus, aveva risentito la fragranza dei boschi dopo la pioggia, dell’erba a capo chino sotto al peso delle gocce: il tepore del sole che le faceva splendere trasformando i prati in una distesa di gemme.
            “Soltanto la natura non inganna e si mostra per quello che è veramente, e quel che vedi è bellezza. Soltanto la natura sa essere sincera”.
            Dentro alla rastrelliera, i piccoli semi germinavano con forza e il Ragazzo li teneva sempre vicino a sé, mentre scriveva il suo diario di viaggio e durante la notte si svegliava di soprassalto, perseguitato dallo spettro di Barry Dale: malgrado tutti i tentativi per liberarsene, la memoria di quel giorno tornava puntualmente a srotolare la stessa pellicola dal principio, replicando ogni sera sempre lo stesso orrore.
            Finì per sviluppare un’autentica fobia per il buio: gli agenti di custodia all’inizio lo avevano preso in giro, poi avevano ceduto di fronte alla sua richiesta di avere una luce in più da tenere nella cella, oltre a quella che restava sempre accesa nel corridoio.
            Un secondino gli aveva procurato uno di quei piccoli fanali verdognoli che si usano nelle stanze da letto dei bambini, e che spesso hanno il vizio di creare, dal buio, ombre ancor più terribili.
            Non era servito a nulla: sia ci fosse il buio oppure la penombra, non appena il Ragazzo chiudeva gli occhi il suo alter ego virtuale prendeva il sopravvento, e lui ne risentiva daccapo tutta la rabbia, lo spirito di rivalsa, il senso di onnipotenza. Lo rivedeva mentre entrava nella scuola quando gli altri studenti erano già in aula, e le varie lezioni erano cominciate.
            Quel giorno, nella sua classe, alla prima ora era prevista la lezione di scienze con la professoressa Giusti, un’anziana naturalista che viveva per il suo laboratorio, dove aveva creato il microclima ideale per la crescita di specie arboree e del sottobosco. In quello stanzone che odorava di muschio d’estate si stava al fresco, d’inverno si gelava come nella foresta: ma dai ricci e i pinoli raccolti dai ragazzi, e dalla stessa insegnante che amava inoltrarsi nei sentieri col suo bastone, spuntavano radici e fusticini simili a fili d’erba, che poi s’irrobustivano e diventavano abeti, pini mughi e silvestri, altissimi castagni. Alla fine dell’anno si andava tutti insieme a piantarli in cortile, oppure in qualche radura, quando nel cortile finì per non esserci più spazio.
            All’inizio dell’anno, la Giusti aveva distribuito ai ragazzi manciate di fagioli da avvolgere nel cotone, per poi seguire lo sviluppo della germinazione. Il Ragazzo li aveva riposti dentro a una scatola piena d’ovatta nella sua stanza, controllando ogni giorno il grado di umidità e se spuntava qualcosa. La sua felicità nel vedere un piccolo stelo che faceva capolino era stata pari alla noia dei compagni di classe, che su quella faccenda di piantare i fagioli ci ridevano sopra: una perdita di tempo tanto su Internet trovi tutto, ci sono anche i filmati su YouTube, così quando poi la vecchia t’interroga riesci a farla contenta senza perdere tempo.
            Il tempo, i suoi compagni, preferivano usarlo per tirare i fagioli nei capelli delle ragazze.
            Con la fionda che portava perennemente in tasca, Walter Del Valle riusciva addirittura a spararli fin nel cortile, sulla testa di quelli che uscivano durante l’intervallo: aveva sviluppato una mira così precisa che un giorno riuscì a spezzare in due parti gli occhiali di un quattrocchi del primo anno.
            Si trattò di un fatto grave: il malcapitato riportò la frattura del setto, i genitori imbestialiti denunciarono l’accaduto, il preside s’imbestialì ancora di più e minacciò provvedimenti disciplinari anche per gli insegnanti, se il colpevole non fosse saltato fuori immediatamente.
            Anche se erano in molti a sapere, tutti recitarono la parte dei beati ignoranti: nessuno aveva voglia di finire nel mirino di Del Valle, bullo per eccellenza se mai ve ne furono, il cui destino era evidentemente quello dell’impunità.
            Almeno finché non gli capitò d’incontrare sulla sua strada Barry Dale.
            Dopo quel fatto, Del Valle aveva ripiegato su un altro divertimento: non ritenendo più conveniente esibire la fionda, si limitava a lanciar e i fagioli sulla cattedra, al solo scopo di esasperare l’insegnante.
            La professoressa sbraitava, con la voce fragile e un po’ piagnucolosa tipica degli anziani: Walter Del Valle rideva forte della bravata e ancor più forte lo detestava il Ragazzo, a cui Del Valle ricordava suo padre, la stessa brutalità, l’idea che il più debole debba sempre subire, ed essere schiacciato: selezione naturale, diceva suo padre durante le battute di caccia, non te ne ha mai parlato la tua insegnante di scienze?
            L’insegnante in realtà ne aveva parlato, ma aveva anche spiegato che in natura non esiste solamente la legge del più forte, che molte comunità si basano sulla collaborazione, specie le società dei più deboli. Gli uccelli predatori sono dei solitari, mentre le prede volano a stormo, per garantirsi maggior protezione. Le formiche avanzano formando lunghe file, serrano i ranghi guidate dall’odore delle compagne.
            Le creature più fragili si organizzano per sopravvivere, spiegava la vecchia Giusti, ma al Ragazzo era chiaro che spesso anche i più forti si alleano per dominare: Walter Del Valle non era mai solo quando imperversava per i corridoi, quando lo ricattava chiedendogli dei soldi perché io sono il Dio della scuola e i miei fedeli debbono portarmi le offerte, altrimenti sai che succede, ti ficco la testa dentro al cesso e poi ci piscio sopra.
            Con lui c’erano sempre almeno altri due tizi delle classi superiori: uno di loro, un certo Hofer, aveva addirittura vent’anni, tante erano state le volte che era stato bocciato.
            Un giorno suo padre l’aveva sorpreso con le mani nel sacco, o più esattamente dentro al suo portafoglio, e gliele aveva suonate: dopo questo fatto, il Ragazzo era andato dritto dal preside e aveva vuotato il sacco riguardo ai ricatti di Walter Del Valle.
            Quella volta, la testa nel cesso gliel’avevano infilata per davvero, e ben prima che il preside potesse intervenire. Non contenti ci avevano pure urinato sopra, costringendo il Ragazzo a scappare saltando la rete del cortile, perché non aveva il coraggio di ripresentarsi in classe.
            -“Ricordati, bel faccino, domani cifra doppia o giuro che ti affogo”- gli aveva gridato dietro Del Valle -“ti affogo con le mie mani anche se le merde, com’è noto, galleggiano”-
            Ventiquattr’ore dopo aveva avuto luogo la sparatoria: la sorte aveva voluto che toccasse al Dio della scuola - o a quel che ne restava - di ritrovarsi a galleggiare in una pozza d’acqua, sangue e benzina finché la polizia non aveva fatto irruzione. 
            Quel giorno, il Ragazzo era entrato in ritardo proprio perché nessuno facesse caso all’arsenale che portava con sé: nello zaino, tre taniche di benzina al posto dei libri, e sotto a un vecchio impermeabile di suo padre il fucile da caccia, che ormai aveva imparato a usare come un campione.
            Da quando suo padre se n’era andato, il Ragazzo aveva cominciato a tenere il fucile nella sua stanza: custodirlo pulito e in ordine, oltre che frequentare il poligono nei rari week end insieme, gli era parso l’unico modo per continuare ad avere un rapporto con quell’uomo arrogante ma anche in gamba, e per sentirsi un poco più forte anche lui.
            Ma c’era anche un altro motivo per cui preferiva tenere sottochiave il fucile: durante le interminabili liti tra i genitori aveva sentito più volte sua madre fare minacce, dicendo che prima o poi l’avrebbe fatta finita, che si sarebbe ammazzata insieme a suo figlio. Come se non bastasse, nei suoi altrettanto interminabili sfoghi la madre aveva parlato dei suoi propositi suicidi anche con il Ragazzo, e questi aveva finito per prenderla sul serio.
            Più o meno in quel periodo, il Ragazzo iniziò a isolarsi nella sua stanza, uscendo solamente per andare a scuola o a esercitarsi col fucile nel bosco. Là trascorreva lunghi, rabbiosi pomeriggi a sparare ai barattoli in fila sulle rocce: i barattoli li metteva sempre un po’ più distanti, riusciva sempre a centrarli e dentro alla sua testa Barry Dale applaudiva, suggerendo che per i proiettili ci fossero utilizzi migliori che sparare alle lattine oppure agli animali.
            “Gli animali sono innocenti, a differenza degli uomini”- scriverà più tardi il Ragazzo sul suo diario di viaggio - “non conoscono l’ipocrisia, la cattiveria infantile, il disprezzo per gli altri”.
            Quella mattina, alle otto e trenta precise era passato accanto alla guardiola dei bidelli al pianterreno. La scuola era aperta da meno di mezz’ora, ma la signora Minnelli, che occupava il tempo ad ascoltare la radio e a lavorare a maglia per il nipotino in arrivo, e il signor Colliva, un omino sdrucito che andava avanti e indietro lasciando scie bavose col mocio sul pavimento, erano già impegnati nella prima pausa della mattina, sigaretta e caffè davanti ai distributori di merendine.
            Il Ragazzo aveva trovato via libera, ed era riuscito a salire indisturbato ai piani superiori: con tutto il suo armamentario e nella testa la voce di Barry Dale, che lo incalzava implacabile.
            Appena fuori dal laboratorio di scienze, aveva incontrato Nisha:
            -“Ma come sei conciato? Sei in ritardo, la prof ha già fatto l’appello”-
            Lui non aveva potuto fare a meno di sorriderle: aveva una faccia strana, ricorderà in seguito Nisha, come di chi sta aggrappato sull’orlo di un precipizio. Credo che quella faccia non riuscirò più a dimenticarla.
            -“Nisha, vattene a casa”- le aveva detto il Ragazzo -“Va’ via, non è giornata”-
            La compagna aveva interpretato le parole del Ragazzo nel senso più normale, come se le stesse dicendo molto semplicemente di levarsi dai piedi:
            -“Sei strano, oggi, che c’è? Non ti senti bene? Se vuoi, dopo ne parliamo”-
            In realtà, non c’era stato alcun dopo.
            Il Ragazzo era entrato in classe, spalancando la porta con una tale forza che il tonfo contro il muro aveva incrinato il vetro e spezzato un cardine di netto: esterrefatta, la Giusti si era voltata verso di lui, ma prima che potesse aprir bocca il Ragazzo era già di fronte al primo banco col fucile spianato.
            Aveva chiamato ad alta voce Walter Del Valle, che s’era levato in piedi istintivamente e davanti alla canna puntata s’era fatto di sale, pur conservando un’aria di scherno che oscillava tra l’incredulità e la paura. Evidentemente pensava che il compagno scherzasse, mentre il resto della classe, immobile dietro ai banchi, non aveva alcun dubbio: i loro occhi erano puntati sul Ragazzo con la stessa espressione delle lepri prese in trappola.
            Fissandoli, il Ragazzo era venuto a patti con Barry Dale: loro no, non si toccano. Assomigliano troppo agli animali del bosco.
            Fa’ come credi, gli aveva risposto Barry Dale, condiscendente: ma non dimenticare perché ti trovi qui.
            Aveva ordinato ai compagni e all’insegnante di radunarsi in fondo all’aula.
            In un silenzio in cui si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo l’intera classe si era accalcata in un angolo, al riparo uno dell’altro e dietro ai grandi vasi delle colture arboree.
            Il tempo si era congelato in un lunghissimo istante. Barry Dale aveva concentrato la sua attenzione su Del Valle, che fissava la canna puntata del fucile con un’espressione sempre meno arrogante e sempre più impaurita.
            -“Come andiamo, Walter? Da ieri sono cambiate un po’ di cose, non è vero? Chi è il Dio della scuola, adesso? Dimmi, sei sempre tu? Voglio sentirtelo dire”-
            Sotto tiro, il compagno lo fissava come in sogno, senza riuscire a dire nemmeno una parola.
            -“Così non va bene, Walter. Quando qualcuno ti chiede se tu sei un Dio, devi dire di sì”-
            Era seguito lo sparo di due colpi precisi, puliti e a bruciapelo, che erano esplosi insieme alle grida dei compagni e al lamento fragile della professoressa: l’anziana naturalista s’era afflosciata contro al muro come un vecchio pallone sgonfio.
            Un paio di studenti erano riusciti a guadagnare la porta e a scappare, mentre l’eco degli spari aveva già spalancato le porte di tutto l’istituto.
            -“Sai che c’è?”- aveva continuato Barry Dale, imperterrito -“se proprio devo dirlo, come Dio sei una delusione”-    
            Con un gesto improvviso che aveva scatenato un’altra ondata di terrore nella classe - tutti si erano nascosti sotto ai banchi, pensando che la strage fosse solo all’inizio - aveva versato l’intero contenuto della prima tanica su Del Valle, che era crollato disordinatamente tra la fila dei primi banchi. Di seguito, aveva rovesciato su di lui l’intero contenitore della carta da riciclo.
            Nel momento in cui aveva appiccato il fuoco, le urla dei compagni avevano dato il via a un fuggi fuggi generale dalle altre aule. Un’insegnante si era affacciato sulla soglia proprio nel momento in cui Barry Dale si voltava nella sua direzione: il professore di tedesco, herr Wieser, un vecchietto della stessa età geologica della collega di scienze, era rimasto di stucco e praticamente si era sentito già morto, mentre il Ragazzo gli era semplicemente passato accanto diretto verso la folla in fuga nel corridoio.  
            Circa a metà strada, aveva freddato alle spalle Martin Hofer, il pluriripetente che nel gruppo dei pretoriani di Del Valle aveva di solito il ruolo dell’esecutore materiale: quello, per intenderci, che aveva tenuto fermo il Ragazzo con la testa nel cesso, e lo stesso lavoro era stato compiuto su molti altri studenti a cui il Dio della scuola era solito estorcere le offerte in denaro.
            Hofer era un montanaro con le mani come due pale, e il Ragazzo ci aveva messo un po’ a maciullarle col calcio del fucile, prima di dargli fuoco con la seconda tanica e un colpo di accendino.
           L’ultimo obiettivo si trovava in un’aula del secondo piano, in fondo a un corridoio stretto come un budello. In quel luogo riposto, gli echi degli spari erano giunti attutiti eppure ben distinti, come elementi estranei inframmezzati al brano che la classe era intenta ad ascoltare durante l’ora di musica. Il maestro Cellini, primo violino al conservatorio ma soprattutto virtuoso della fisarmonica, onnipresente a tutte le sagre paesane, si era imbattuto in Barry Dale col fucile spianato come se fosse a caccia di beccacce nel bosco, e aveva persino avuto il fegato di affrontarlo:
           -“Ragazzo, che stai facendo?”-
           -“Ammazzo un po’ di gente”- gli aveva risposto l’altro, tirando un colpo in aria e costringendo il musicista a correre al riparo con le braccia sopra alla testa.
           Pochi secondi dopo, Barry Dale era entrato nell’aula dove il giradischi suonava Il Bel Danubio Blu, e aveva freddato il terzo scagnozzo di Del Valle, un tipo tutto a spigoli dal nome molto appropriato di Federico Di Canto: durante le spedizioni punitive del branco, Di Canto era il responsabile della colonna sonora, nel senso che materialmente non faceva niente, si limitava a ridere con sghignazzi da incubo e a cacciar versi che al Ragazzo ricordavano i fischi delle marmotte.
           Quel giorno, Marmotta Di Canto non fece a tempo a cacciar fuori un grido, né tanto meno un fischio: si limitò a crepitare quando la benzina iniziò a bruciare, perché era ancora vivo e il Ragazzo l’aveva colpito senza però riuscire a ucciderlo sul colpo. Per morire impiegò tre giorni di ricovero ai grandi ustionati, e fra tutti fu quello a cui toccò la fine più tremenda.
           Terminata l’impresa, il Ragazzo aveva cominciato a girare senza meta, sparacchiando qua e là soltanto per continuare a spaventare tutti e assaporare la loro paura. Tutti quelli che avevano sempre saputo delle angherie di Del Valle, tutti quelli che per non andarci di mezzo avevano taciuto, preferendo farsi gli affari loro, adesso se ne stavano rannicchiati sotto ai banchi, adesso toccava a loro tremare come topi presi in trappola.
           Aveva continuato a distruggere tutto quello che gli si parava dinanzi - la vetrata preziosa della biblioteca d’inizio secolo, le bacheche con i fossili trovati sulle montagne, e conservati in una sala adibita a museo di storia naturale: Barry Dale lo incalzava, tutta quella paccottiglia era da sempre il fiore all’occhiello dell’istituto, guardare e non toccare, mentre gli allievi sì, era lecito infilarli con la testa nel cesso e nessuno diceva niente, tanto son ragazzate, succedono dappertutto.
            A un certo punto era sopravvenuta la stanchezza, e Barry Dale era sparito dalla sua testa così velocemente come c’era venuto: si era ritrovato di nuovo fragile e solo, mentre dai piani inferiori cominciavano a salire le voci della polizia e dei soccorsi, via libera al pianoterra, primo piano in sicurezza, avanzare con cautela.
           Il resto era il cammino che l’aveva condotto sin lì, ai semi dei pensieri che annotava nel suo diario di viaggio, ai progetti che coltivava per il giorno in cui sarebbe stato di nuovo libero: alla rastrelliera dei piccoli germogli che teneva accanto a sé, e che riassumeva tutte le novità che erano in fermento e che necessitavano di terra buona per crescere.
            Dal giorno della sparatoria erano trascorsi tre anni e sei mesi: nel frattempo il Ragazzo era diventato maggiorenne, e l’amministrazione gli aveva offerto una piccola festicciola.
           Gli altri ragazzi dell’istituto avevano racimolato due spiccioli per regalargli un vasetto di stelle alpine. Uno aveva raccontato di essersi procurato il contributo direttamente dalle tasche della sua avvocatessa, mai lasciare una borsa incustodita in giro, quando ci sono io.
           La domanda per ottenere il suo primo permesso, per andare a visitare una cooperativa di giardinaggio, era stata inoltrata con il parere favorevole degli assistenti sociali. Tra circa un anno potremo iniziare a chiedere l’affidamento a una comunità esterna, gli avevano assicurato, durante la detenzione non hai dato problemi, non dovrebbero esserci troppe difficoltà: di fatto, però, il giudice del Tribunale per i minorenni faticava ad accogliere già la prima richiesta, relativa a un permesso di sole quattro ore.
           I presupposti per una decisione favorevole c’erano tutti: il Ragazzo era di ottima condotta, collaborava con le iniziative dell’istituto e non creava disordini, non si era mai dimostrato aggressivo nei confronti degli altri detenuti o degli agenti di custodia. In compenso, però, il suo atteggiamento riguardo ai fatti della sparatoria non sembrava cambiato: con gli assistenti parlava solo dei suoi progetti, del suo desiderio di dedicarsi alla natura e poi, una volta fuori, di andare a vivere in montagna e fare la guida alpina.
           Il passato, non era ancora riuscito ad elaborarlo: soprattutto non aveva mai dimostrato ripensamenti, sembrava addirittura impermeabile al rimorso.
            Il giudice del Tribunale era perplesso: non riusciva a capire se questo atteggiamento era dovuto a un tratto di personalità del Ragazzo, oppure se gli occorreva semplicemente più tempo.
           Nell’incertezza, la domanda per ottenere il permesso era stata respinta.
           Lo stesso Ragazzo, in realtà, non si sentiva pronto a uscire. Aveva ancora troppa paura che Barry Dale potesse aspettarlo al varco fuori dall’istituto, pronto a ricominciare alla prima occasione.
           In tutti quegli anni la paura non l’aveva mai abbandonato, anche se si ostinava a elencare sul suo diario i modi per sconfiggerla: “Far crescere delle vite, allevare animali, coltivare le piante. Camminare, quando mi sarà possibile: dedicherò la mia vita intera ad andare, andare continuamente senza fermarmi mai, così che l’ira non possa raggiungermi mai più”.
 
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