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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bartolomeo d'Alviano prese con una mano la ciotola di brodaglia che gli veniva porta dal suo attendente.

Avrebbe preferito addentare un bel cosciotto caldo di pollo, o anche solo un pezzo di pane nero fragrante, come quello che sfornavano le cucine del castello di Bracciano, e invece la sua ferita non ancora del tutto guarita alla lingua gli impediva di mettere sotto i denti cibi che fossero più consistenti di qualche zuppetta.

Faceva ancora molta fatica a parlare e secondo il cerusico che lo controllava di quando in quando, non avrebbe mai più ripreso ad articolare le parole come un tempo. Questo fatto, in tutta franchezza, a Bartolomeo interessava molto poco.

Era sempre stato di poche parole e quindi gli bastava poter fare il minimo indispensabile, con la voce. Riusciva ancora a sussurrare gli ordini ai suoi e non aveva mai avuto bisogno di gridare, per farsi obbedire dalle truppe. Parenti con cui chiacchierare non ne aveva più, e per quanto riguardava Pantasilea Baglioni... Ebbene, quando fosse tornato da lei, l'avrebbe evitata il più possibile e quindi anche in quel caso la sua lingua martoriata non sarebbe stato un problema.

Era la vigilia di Natale e Marzano era immersa in una sorta di coltre di nebbia gelata che dava l'illusione di essere in mezzo a una nuvola.

Bartolomeo stava cercando di ricordare l'ultimo Natale che aveva passato con sua moglie Bartolomea, ma tutte le volte che le ripensava non poteva evitare di rivederla com'era la prima volta che l'aveva vista, quando ancora non si conoscevano. Lei era già una donna nel fiore degli anni, mentre lui era poco più di un bambino, eppure, fin dal primissimo momento, l'Alviano aveva saputo che un giorno sarebbe riuscito a diventare il suo uomo.

“Il cibo è sempre più scarso, vero?” fece Carlo Orsini, sedendosi accanto allo zio, davanti al braciere: “Speriamo che le nuove vettovaglie arrivino presto, perché sono stanco di mangiare questo schifo...”

Bartolomeo non commentò, sollevando appena il sopracciglio. Adesso che aveva la scusa della lingua ferita, gli altri facevano meno caso al suo mutismo.

“All'armi!” gridarono all'improvviso delle voci dal limitare del campo: “All'armi! Vitelli! Le insegne fiorentine! All'armi!”

Senza attendere oltre, l'Alviano gettò in terra il suo scodellino di brodo e riprese in mano la spada che aveva appoggiato in terra. Non c'era tempo di indossare l'armatura. Non si era aspettato un assalto a quell'ora, tanto meno alla vigilia di Natale.

Quella guerra, pensò, stava facendo saltare tutte le convenzioni di buona creanza e cristianità. Se non si rispettava la tregua nemmeno nei giorni santi come quello, allora significava che non ci sarebbe stata altra tregua se non una sconfitta per una delle due parti.

Correndo laddove le guardie indicavano, Bartolomeo aguzzò la vista e contò a spanne circa cinquecento fanti che correvano sotto l'insegna di Paolo Vitelli.

Lanciò uno sguardo ai suoi. Spaventati, colti alla sprovvista e in gran parte in cerca di armi ed elmi, impossibilitati a indossare le armature o sellare i cavalli per motivi di tempo.

In quelle condizioni, non potevano vincere: “Carlo – chiamò il nipote, biascicando un po', la lingua che andava per conto suo – dai ordine di resistere. Appena vedi i nostri iniziare a cadere, ci ritiriamo.”

“Verso dove?” chiese l'Orsini, che si stava infilando di fretta un mezz'elmo.

“I monti della Verna.” decise Bartolomeo e poi, con un cenno d'assenso, cedette il lato destro al nipote e lui si tenne il sinistro, liberandosi in un urlo disarticolato che diede ai suoi soldati quel minimo di coraggio utile a resistere al primo impatto con il nemico.

 

Caterina stava finendo di prepararsi. La Messa in Duomo sarebbe iniziata nel giro di un un paio d'ore, ma lei avrebbe preso parte a quella nella chiesa di San Girolamo, dove il Natale si sarebbe celebrato quasi un'ora prima.

Era seduta davanti allo specchio della sua camera e stava scegliendo i gioielli da indossare. Aveva passato un po' di tempo a decidere se portare al collo la collana che era stata di sua madre Bona o quella molto più costosa e vistosa che le aveva regalato il papa, Sisto IV.

Pensare a Bona l'aveva resa nostalgica e le aveva fatto sentire la tentazione di cercarla. La sapeva nelle terre dei Savoia, ma nulla più di questo. Dopo la morte di Lucrezia, non l'aveva mai più cercata.

Così, alla fine, aveva preferito la collana del papa. Vi aveva aggiunto degli orecchini molto pesanti e braccialetti e anelli, chiudendo il tutto con una spilla d'oro massiccio che teneva ferma la reticella per i capelli.

Aveva scelto un vestito elegante, ma non molto alla moda. Risaliva ancora ai primi tempi dopo la morte di Girolamo. Era uno di quelli che le erano stati regalati dalle signore di Stati vicini. Non ricordava nemmeno da chi.

Era stata tentata di indossare quello rosso, molto scollato, che era piaciuto così tanto a suo marito Giovanni. Poi, però, quando si era resa conto di non avere nessuno a cui le importasse di far vedere come stava con addosso quell'abito, aveva lasciato perdere.

Era curiosa di vedere come Bianca avesse organizzato il banchetto che sarebbe seguito alla Messa.

Dopo che sua figlia aveva incontrato Manfredi, il giorno prima, non aveva più avuto modo di parlarle, così come non aveva più incontrato da sola il faentino. Quella notte, addirittura, l'uomo non era alla rocca e così la Contessa, che l'aveva cercato, aveva finito per accontentarsi della compagnia di un soldato qualunque, troppo stanca per cercare di meglio e troppo sconfortata per restare da sola fino all'alba.

Quando il soldato se n'era andato, poi, lei aveva passato un paio d'ore leggendo uno dei libri di Giovanni, uno di quelli che aveva ancora il segno laddove lui aveva smesso di sfogliarlo l'ultima volta e alla fine aveva dormito molto poco. Non c'era quasi notte, ormai, in cui riuscisse a riposare davvero. Anche quando si addormentava, il più delle volte era tormentata da incubi di ogni sorta e quindi finiva a svegliarsi più stanca di quando si era coricata.

Il suo medico personale le aveva detto tante volte che quell'insana abitudine l'avrebbe portata a logorarsi troppo in fretta, ma orai la Sforza aveva imparato a convivere con quelle lunghe notti di tormento e sapeva che non sarebbe mai riuscita a riavere la tranquillità di un tempo.

Stava finendo di sistemarsi una ciocca di capelli bianchi che continuava a ricaderle sulla fronte quando sentì la porta aprirsi.

La sua reazione, eccessiva, ma giustificata dalla vita che aveva fatto dai suoi nove anni in poi, fu subitanea. Invece di chiedere chi fosse entrato o sobbalzare di paura, la donna si era alzata in piedi, il pugnale già in mano, pronta a fronteggiare un eventuale assalto.

“Sono solo io.” disse piatto Ottaviano Manfredi, restando vicino all'uscio.

Caterina si tranquillizzò subito e, mentre l'uomo si chiudeva la porta alle spalle, lo guardò con attenzione. Aveva un'espressione u po' contrariata, ma ciò non andava a inficiare il risultato finale.

Indossava un abito che sembrava nuovissimo, impreziosito da qualche perla. Il giubbone imbottito era di un raso blu finissimo e le calzabrache mettevano in risalto le sue gambe lunghe e forti. I capelli biondi erano ben lisciati e ricadevano morbidi sulla schiena. Al fianco, poi, portava una spada dall'elsa decorata, un'arma degna di un principe.

“Non credevo che saresti passato di qui, prima di andare in chiesa.” notò sottovoce la Contessa, rimettendosi seduta e controllando ancora la propria acconciatura.

Il faentino non rispose, ma restò rigido dov'era. Guardandolo riflesso nello specchio, la Tigre notò come il suo amante stesse passando nervosamente i guanti imbottiti di pelo da una mano all'altra, come se fosse indeciso se iniziare un discorso o no.

“Che hai?” chiese la Leonessa, non sopportando più quella tensione che, per quanto sotterranea, era ben presente tra loro.

“Niente. Mi chiedevo solo se tu avessi parlato con tua figlia, dopo che l'ho incontrata.” disse lui, con voce piatta, una mano sull'elsa della spada e l'altra al mento, per controllare la rasatura perfetta che si era fatto fare giusto quel pomeriggio.

Il modo in cui gli occhietti azzurri del faentino saettarono verso di lei non piacque per niente alla donna, che, con un sospetto improvviso molto spiacevole, si voltò una volta per tutte verso di lui, domandando: “Che le hai fatto?”

“Io? Niente!” si difese subito Ottaviano, sollevando le braccia, in segno di resa: “Sei sempre così sospettosa, Tigre? Anche con gli altri o solo con me?”

Caterina lo squadrò un momento e decise che probabilmente davvero non aveva fatto nulla a Bianca. Dopotutto, la figlia le era un po' sfuggita, quel giorno, ma perché era impegnata per la festa di quella notte. Non pareva troppo turbata o tesa per qualcosa, quindi probabilmente era vero che Manfredi non si era permesso di andare oltre le parole concordate con la Contessa.

“Ha accettato la tua proposta?” chiese la Sforza, alzandosi e dandosi un ultimissimo sguardo allo specchio, per assicurarsi di essere abbastanza in ordine.

“Sì.” rispose laconico Manfredi.

“Bene. Ero certa che l'avrebbe fatto.” sussurrò la Leonessa, avvicinandosi al suo amante: “E avete chiarito tutto quanto?”

“Sì, anche il fatto che non pretendo che mi sia fedele, dato che nemmeno io lo sarò a lei.” fece lui, guardando la donna che aveva davanti con occhio un po' spento: “Tu sarai sempre mia, no?”

“Io non sono di nessuno.” lo corresse Caterina, con durezza.

Manfredi strinse il morso e sollevò le spalle, come a dire che in fondo non gli importava. Si chinò un po' su di lei e le sfiorò le labbra con le sue, in un gesto un po' disordinato, più adatto a un ubriaco e non a un sobrio. E, in effetti, nel sapore del suo bacio c'era una nota di vino che la Tigre carpì subito.

“E se Bianca avesse figli? Avete parlato anche di quello?” chiese la Contessa, allontanando subito da sé il faentino, non apprezzando quel modo greve che aveva avuto di avvicinarlesi.

L'uomo annuì con un cenno sfuggente del capo e poi fece intendere di aver fretta di andare, ma la Sforza lo trattenne per un braccio: “E..?” indagò.

“E le ho detto che sarebbe meglio che non ne avesse.” riferì il faentino, liberandosi dalla presa della donna con uno strattone.

“Ma Bianca ne vuole, se non erro.” soppesò Caterina, che si era resa conto tardi di quel dettaglio.

“Senti, Tigre – tagliò corto Ottaviano, molto infastidito – se tua figlia si farà mettere incinta da qualcuno, penseremo allora a come gestire la questione, ma che si sappia che sarebbe meglio se non succedesse.”

La Leonessa avrebbe voluto riprenderlo a dure parole, ma si rendeva conto che la pretesa di Manfredi non era eccessiva, per un uomo nella sua posizione. In confronto a lui, le pretese di altri sarebbero state molto più pesanti.

“Cercherò di farglielo capire.” concesse alla fine la Contessa, stringendo le labbra.

“Ah, e comunque mi ha detto di dirti che accetta di sposarmi solo per amor tuo.” ci tenne ad aggiungere Manfredi: “Però non è stata lì a ringraziarmi del fatto che prima le ammazzerò Astorre.”

“Non mi piace il tono che stai usando. Sei più ubriaco di quel che sembri.” lo rimproverò, ricordandosi il sapore vinoso delle sue labbra.

Gli occhi azzurri di Ottaviano vennero percorsi da un lampo di insofferenza, che però si spense subito: “Andiamo. A Messa ci aspettano e...”

“Tu andrai in Duomo.” gli fece presente Caterina, che aveva già preso da un po' quella decisione e aspettava solo l'occasione giusta per comunicargliela: “Preferisco non ci vedano insieme in chiesa.”

“Come dici tu, Tigre.” disse mesto Manfredi, senza neanche provare a opporsi: “Sempre come dici tu.” e, pretendendo ancora un ultimo bacio, le dedicò uno sguardo che le fece quasi venire i brividi, per quanto era scuro, e poi la lasciò di nuovo sola.

 

Lucrecia osservava con attenzione la perizia delle mani delle sue dame di compagnia, che stavano finendo di prepararla per la grande Messa natalizia.

Anche se faceva freddo e Roma era spazzata da un vento tutt'altro che piacevole, sapendo che sarebbe rimasta sempre al caldo del Vaticano, la Borja aveva optato per un abito molto sfarzoso e anche abbastanza provocante.

Sapeva che era troppo presto perché si potesse notare il profilo della sua pancia, ma sperava che qualcuno dall'occhio particolarmente allenato capisse che cosa celasse il suo ventre. Quando si era trovata ad aspettare Giovanni, aveva sperato fino al nono mese di poter preservare un profilo filiforme e impossibile da riconoscere, mentre adesso, che finalmente aspettava un figlio dal suo Alfonso, avrebbe voluto gridarlo al mondo.

Tuttavia le era stato spiegato in tutti i modi quanto fosse importante restare cauta. Il bambino che portava in grembo era ancora troppo piccolo e il rischio di perderlo era ancora altissimo. Però, si era detta, ora che ne aveva la certezza voleva dirlo almeno a suo marito.

Aveva fatto avere un messaggio ad Alfonso, pregandola di raggiungerla in camera, prima di uscire per la messa, ma lui non era ancora arrivato.

Si sentivano in lontananza le prime campane che annunciavano l'appropinquarsi delle funzioni natalizie più importanti e Lucrecia non stava più nella pelle. Quel giorno tutto le sembrava fatto d'oro e d'argento. Era così entusiasta della vita e della promessa di stabilità e felicità che le dava la consapevolezza di aspettare un figlio dal marito, che per tutto il giorno non aveva pensato nemmeno per un istante all'altro suo figlio, quello che aveva lasciato alle cure delle suore, tenendolo lontano da sé, quasi non fosse affar suo.

Si sentì bussare alla porta e la Borja seppe che era Alfonso. Cacciò fuori le sue dame di compagnia, benché non fosse ancora perfetta per uscire, e le giovani lasciarono entrare l'Aragona.

Il diciassettenne, con addosso tanto oro e pietre preziose da poter sembrare un Borja pure lui, la guardò con occhio soddisfatto e commentò: “Mia moglie è la donna più bella d'Italia.”

Lucrecia avrebbe voluto rispondere elogiando lui, come uomo più bello d'Italia, ma non ne trovò il tempo: “Sono incinta.” gli disse, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.

Alfonso la guardò quasi con sospetto. Erano sposati ormai da un bel pezzo e anche se avevano fatto di tutto per concepire, nella speranza che né il papa né gli Aragona si impuntassero per sciogliere le loro nozze, gli pareva incredibile sentire quelle parole uscire dalle labbra della moglie.

La Borja, una diciottenne bellissima e dal viso illuminato di vita, strinse le mani l'una nell'altra in grembo, con un velo di timore: “Non ne sei felice?”

Il giovane, che ci stava mettendo più del previsto per metabolizzare la notizia, finalmente si sbloccò e, con una risata argentina, le corse incontro, cingendola per i fianchi, facendola ridere di gioia a sua volta: “Se ne sono felice? Mi stai chiedendo se ne sono felice?” esclamò lui, facendole fare una mezza giravolta nel centro della stanza.

“Avremo un figlio.” sussurrò poi l'Aragona, sempre stringendola a sé, gli occhi che si specchiavano in quelli profondi e spesso insondabili della figlia del papa.

Questa annuì, il sorriso che se ne andava a poco a poco, sostituito da un'espressione seria e concentrata. Qualcosa era cambiato anche nel modo in cui Alfonso la teneva contro di sé. Sapere con esattezza che Lucrecia fosse incinta gli aveva riempito il petto di una nuova consapevolezza.

Cercando di sorridere di nuovo, anche se con fatica, tanta era l'attenzione che stava mettendo nei gesti sottili con cui cominciava a svestire la moglie, il napoletano sussurrò: “Questa notizia incredibile va festeggiata come si deve, non pensi?”

“Dobbiamo stare attenti.” lo redarguì lei, senza però fermarlo: “Queste settimane sono le più delicate, per il bambino... Avrei dovuto avvertirti già nei giorni scorsi ma...”

“Da quanto credi di essere incinta?” domandò il giovane, stringendo gli occhi nel tentativo di ricostruire lui stesso una possibile data del concepimento del loro preziosissimo figlio.

“Un paio di mesi, o poco di più.” rispose Lucrecia che aveva dovuto fidarsi soprattutto della stima della levatrice che l'aveva visitata che altro, visto che, esattamente come quando aveva aspettato Giovanni, non era stato facile fare calcoli troppo precisi.

“Due mesi... Allora il nostro bambino è già quasi un uomo.” scherzò Alfonso, sospirando poi con aria beata: “Sarò delicatissimo con te, non avere paura...” e cominciò a condurla verso il letto, su cui le dame di compagnia di Lucrecia avevano lasciato gli abiti che si era tolta prima di cambiarsi per la Messa.

Non badando al fatto che coricandovisi sopra avrebbe sgualcito il finissimo vestito da camera e che le pietre preziose intessute nello scialle di seta le avrebbero graffiato la pelle, la Borja si lasciò sopraffare dall'Aragona, che si era messo subito sopra di lei, le labbra che ne cercavano il collo e le mani che continuavano ad armeggiare per liberarla dal suo prezioso abito da sera.

“Faremo tardi in chiesa...” provò a opporsi lei, senza alcuna convinzione.

“Sei la figlia del papa – le fece notare Alfonso, la voce un po' spezzata, mentre intercalava ogni parola a un bacio – puoi permetterti di fare tardi, tu...”

 

Caterina era in prima fila davanti all'altare, circondata da tutti i suoi figli – eccetto Cesare, che era in Duomo – e da un paio di Consiglieri fidati, tra cui Luffo Numai.

Bianca teneva in braccio Giovannino che, per quanto non amasse i posti affollati, se ne stava tranquillo nel suo bozzolo di coperte, al sicuro tra le braccia della sorella.

Galeazzo, accanto a loro, aveva indossato gli abiti migliori che aveva e, come un uomo d'armi di valore, aveva deciso di portare al fianco la spada e una corazzina decorata sotto al mantello.

Bernardino era irrequieto. Continuava a guardarsi attorno, come se si sentisse gli occhi di tutti addosso, e, difficile non notarlo, nella sua peregrinazione di sguardi finiva spesso a fissare un punto in direzione della cappella Feo, dov'era sepolto anche suo padre.

Sforzino era pacifico e silenzio, seguiva la Messa con attenzione, ma senza il morboso interesse che, di sicuro, stava animando Cesare in Duomo.

Ottaviano, invece, in piedi alla sinistra della madre, l'ultimo, prima della fila di colonne, continuava a spostare il peso da un piede all'altro. L'odore dell'incenso gli faceva pizzicare il naso e lo stomaco vuoto gli dava un senso di bruciore retrosternale insopportabile. L'unica cosa che aveva ingurgitato, dopo il pranzo, era stato qualche calice di vino e ora, a notte ormai iniziata, non aspettava altro che mettersi a tavola. La fame che aveva patito durante il suo anno di isolamento gli era bastata per non voler mai più sopportare quella sensazione di frustrante vuoto.

“Mia signora – la voce dell'Oliva arrivò sottile alle spalle della Tigre che, mentre i preti di San Girolamo intonavano uno dei tanti canti di quella solenne funzione, gli fece un cenno per indurlo a continuare – non volevo disturbarvi qui, ma mi avete detto di tenervi informata all'istante di ogni novità e le mie spie sono appena tornate.”

La Contessa annuì di nuovo, e solo Bianca, alla sua destra, poteva sentire un po' le parole dell'uomo che le stava parlando.

“Ebbene, mi hanno detto che Antonio Maria Ordelaffi è davvero di nuovo a Ravenna, come immaginavamo e che sta chiedendo di continuo soldi al Doge per poter radunare un esercito per invaderci, ma il Doge glieli nega ogni volta.” disse l'Oliva, in fretta, ma senza mai alzare la voce oltre a un sussurro appena udibile: “Poi mi hanno riferito che Vincenzo Naldi è stato ferito a Caresto, dopo uno scontro con i soldati di Chiriaco dal Borgo. Malgrado la ferita, comunque, ne è uscito vittorioso e ha fermato i fiorentini.”

Caterina strinse appena le labbra, contrariata da quell'ennesima sconfitta dei suoi alleati.

“Infine – concluse l'Oliva – pare che Castagnino sia in procinto di chiedervi di mandare il prossimo mese vostra figlia a Faenza, ma Giovanni Bentivoglio sta frenando un po' la mano del nipote, oltre che di suoi figlio Annibale, perché teme la vostra reazione, nel caso vi sentiste troppo braccata. Pare sappiano, o almeno immaginino, che dietro gli attacchi di Ottaviano Manfredi alle loro campagne ci siate voi e questo li ha spaventati.”

Quell'ultima notizia alleggerì appena lo spirito della Sforza, che sentiva, a quel modo, di poter avere ancora una possibilità di riuscita, contro Faenza.

Con un altro cenno, la donna lasciò intendere che aveva capito tutto quanto e così l'Oliva tornò con discrezione nelle retrovie.

Bianca, Giovannino tra le braccia che quasi si stava per addormentare, cullato dall'odore pieno dei turiboli, lanciò un ultimo sguardo in tralice alla madre e poi tornò a concentrarsi sui preti che davano loro le spalle, rivolti all'altare.

Aveva visto la ruga di preoccupazione che si era formata sulla fronte della madre, la stessa che si ripresentava ogni qual volta che gli affari di Stato andavano a cozzare con la sua vita privata. In cuor suo, la Riario si sentì consolata nel pensare che, comunque fosse andata la sua vita, probabilmente non avrebbe mai dovuto fare come sua madre. Avrebbe sposato un uomo capace di far fronte a quel genere di incombenze – perché Ottaviano Manfredi era un uomo molto capace, e serio, malgrado le apparenze un po' ribelli – e lei avrebbe dovuto curarsi solo della casa e delle faccende da donne che la Tigre tanto disprezzava.

Bianca era abbastanza intelligente e aveva studiato in modo sufficiente per capire le guerre e indagarne e forse perfino influenzarne i meccanismi. Ma non le interessava farlo. Se avesse potuto, avrebbe sposato un uomo comune, un commerciante o anche un contadino. Avrebbe fatto un sacco di figli e si sarebbe curata di loro. Non le interessava avere una corte propria.

Non aveva mai avuto un esempio di vita di palazzo, poteva dire. Aveva vissuto gran parte della sua vita in una rocca piena di soldati, con una madre per lo più assente e una mezza dozzina di fratelli maschi. La sua giovinezza era stata molto diversa da quella di tante altre giovani donne della sua medesima estrazione sociale. Di quello, era vero, ringraziava sua madre. Vivere in modo più spartano le aveva permesso di avere una visione più disincantata della vita e quindi sapeva che avrebbe vissuto bene anche senza le comodità che erano prerogative quasi esclusive della nobiltà.

Mentre tutti i fedeli presenti si accodavano ai preti in una serie di preghiere a voce alta, la Leonessa si accorse che Bianca non seguiva il coro sommesso di voci. Era distratta. Teneva tra le braccia Giovannino e lo fissava, occhi negli occhi, con una dolcezza che sarebbe stata più adatta a una madre che non a una sorella. Quella visione le diede una stretta al cuore. Avrebbe voluto poter essere una madre migliore, non solo per il suo ultimo figlio, ma anche per gli altri. Però non ci era riuscita e, se la guerra avesse continuato a prendere quella piega, forse non ci sarebbe riuscita mai e non più per scarsa volontà, ma per mancanza di tempo.

Cercando di non pensare più. Almeno per qualche ora, agli affari di Stato, la Contessa sospirò e riprese a pregare con voce appena più alta, lo sguardo basso, mentre ricordava Livio, l'unico figlio che avesse visto morire davanti ai suoi occhi.

Molte donne perdevano figli ancora in fasce, tante quando ancora li avevano in grembo, com'era successo troppe volte a sua sorella. Lei, invece, era sempre riuscita a proteggerli, se non ad amarli in modo convenzionale, e solo Livio le era sfuggito dalle dita come una manciata di sabbia.

Chiuse le palpebre, la gola che bruciava un po' nell'enunciare l'ennesima e forse inutile invocazione a Dio, e rivide davanti a sé suo figlio, un dodicenne malaticcio e scarno, con il volto livido che voltava al cianotico, le esili braccia tese verso di lei in cerca di un conforto che lei non poteva fornirgli. Sentì la sua stretta disperata, il suo respiro difficoltoso e poi lo spasmo tremendo del suo piccolo corpo che la vita aveva abbandonato.

Si accorse con un velo di rabbia della lacrima che le solcava la guancia. L'asciugò senza farsi notare, con il dorso della mano. Era una lacrima salata e rovente, segno tangibile del suo smarrimento di fronte all'impotenza che aveva avuto davanti alla morte di suo figlio.

Bianca si accorse del suo breve cedimento, anche se non poteva immaginarne il motivo e, tirando a indovinare, le sfiorò il braccio con la mano, Giovannino che protestava appena per quel movimento improvviso, e le sussurrò: “Messer Giovanni manca moltissimo anche a me.”

La Tigre non aveva alcuna intenzione di correggere la figlia, perciò finse che fosse proprio quello il motivo della sua lacrima e, cercando di sorriderle a mo' di ringraziamento, sussurrò: “Lo so.”

 
   
 
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