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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Firenze, in quella notte di Natale, sembrava un piccolo presepe spazzato da un vento freddo che portava con sé qualche rado fiocco di neve.

Jacopo Salviati e sua moglie erano appena usciti sul sagrato della chiesa e stavano salutando gli ultimi conoscenti, prima di tornare al loro palazzo. Lucrezia si stringeva nelle spalle, cercando di proteggersi dal gelo, e, nel farlo, restava il più vicino possibile al marito che, da buon capofamiglia, stava sbrigando i convenevoli anche per lei.

“Tutto bene?” le chiese, quando finalmente poterono ritagliarsi un momento di pace, lasciando che fossero un po' gli altri a scambiarsi auguri e saluti.

“Preferirei andare presto a casa.” disse lei, senza dare altre spiegazioni.

L'uomo si accigliò, un po' perplesso, ma alla fine disse, senza fare domande: “Va bene.”

Data la voce agli altri membri della famiglia e della servitù che li avevano seguiti alla funzione, i Salviati attraversarono le poche strette vie che li dividevano dalla chiesa a buona velocità, senza parlare.

A un certo punto, in una delle strade che portavano verso Santa Maria del Fiore, avevano intravisto alcuni uomini correre, dandosi la voce l'un l'altro, ma avevano immediatamente pensato che fosse qualche guaio che con loro non c'entrava nulla, e quindi avevano fatto finta di non vederli e non sentirli.

Una volta a palazzo, prima di andare a cena, Lucrezia frenò un momento il marito nell'ingresso, tenendolo per una mano: “Devo dirti una cosa...” gli bisbigliò, e poi gli fece segno di seguirlo.

Arrivati a uno dei salottini, lontano dagli sguardi e dalle orecchie di familiari e domestici, Jacopo guardò la moglie: “Allora? Di cosa devi parlarmi? È una cosa bella o brutta?”

La donna si morse il labbro. La luce fiochissima della stanza era dovuta solo ed esclusivamente alle lingue di bianco che arrivavano dalla finestra. Probabilmente, se non fosse stata una notte di neve, in quella camera senza nemmeno il camino acceso, i due Salviati non sarebbero neppure riusciti a intravedersi l'un l'altra.

“Aspettiamo un altro figlio.” disse piano Lucrezia, dopo aver aspettato qualche secondo che il proprio cuore tornasse a battere normalmente: “Il freddo mi stava dando un po' fastidio, per questo ti ho chiesto di tornare a casa in fretta... Sai che quando sono incinta mi danno noia il troppo freddo e il troppo caldo...”

Mentre la moglie parlava, l'uomo restava fermo sui due piedi, un sorriso un po' malinconico sulle labbra, mentre i suoi occhi pacati la indagavano senza tregua: “Sai che l'avevo immaginato?”

La Medici smise subito il suo monologo e ricambiò lo sguardo del Salviati con la stessa strana malinconia addosso: “Davvero?”

“Ultimamente hai voluto passare la notte con me quasi sempre. Ho fatto due conti e... Insomma, Lucrezia, dopo cinque figli comincio a capire, quando mia moglie è in stato interessante.” fece lui, il sorriso che si apriva un po' di più, quasi in imbarazzo, come se quel genere di argomenti lo mettesse ancora in difficoltà, anche dopo tanti anni di matrimonio e tanti figli insieme.

“Perché non mi hai detto che lo sospettavi, allora?” indagò la donna, lasciandosi prendere la mano da quella gentile e calda di lui.

Jacopo alzò una spalla: “Perché volevo me lo dicessi tu.” e fece la medesima espressione che faceva ogni qualvolta cercava di scusarsi con lei per non aver preso per tempo una posizione o un'iniziativa.

Se nei primi tempi del loro matrimonio quel genere di remissività avrebbe un po' irritato la Medici, adesso, a distanza di anni, la rassicurava e basta. Era come una garanzia del fatto che l'uomo che aveva sposato – pieno di difetti, come tutti, ma fondamentalmente buono – non fosse cambiato.

Gli diede un lieve bacio sulle labbra e poi sussurrò: “Comunque è presto, per averne la certezza assoluta.”

“Un paio di mesi abbondanti. Direi che possono bastare per esserne certi, no?” disse Jacopo, dimostrando di aver fatto i calcoli molto meglio di quanto avesse lasciato intendere.

“Meglio essere cauti comunque.” lo mise in guardia lei: “Lo sai che queste sono cose delicate.”

L'uomo, come suo solito, non volle scatenare una guerra per così poco e così, dandole tacitamente ragione con un cenno d'assenso, le porse il braccio e propose: “Andiamo a cena?”

Lucrezia accettò il suo sostegno, più metaforico che reale, e andò con lui alla sala in cui era stato allestito un meraviglioso banchetto natalizio.

Mentre i servi preparavano le portate e versavano i primi calici di vino, marito e moglie rimasero tutto il tempo con le mani intrecciato l'uno all'altra, ben in vista sulla tavola imbandita, senza mai togliersi gli occhi di dosso.

Quando dovettero per forza separarsi per iniziare a mangiare, Jacopo si sporse appena verso la Medici e chiese, in un soffio: “Sarai mia anche stanotte?”

La scelta dei termini stupì un po' Lucrezia, poco avvezza a sentirlo parlare in modo tanto audace.

Tuttavia la sensazione che le diede quell'intraprendenza le piacque particolarmente e così rispose, con una punta di rossore sulle guance: “La sarò sempre.”

 

Quando la Contessa e i suoi figli – Cesare escluso – tornarono a Ravaldino, la donna si scusò un momento e si ritirò in camera, con la scusa di volersi mettere qualcosa di più leggero.

L'abito spesso e invernale che aveva scelto era stato perfetto per affrontare quella notte di neve, ma sapeva che nella sala dei banchetti, dopo i primi calici di vino e per colpa della tanta gente, avrebbe sofferto troppo il caldo.

Un altro motivo, poi, non meno importante, che l'aveva portata a cercare quel momento di solitudine era stato il turbinare di emozioni che l'aveva accompagnata per tutta la Messa e poi lungo il tragitto tra la chiesa e la rocca.

Mentre sentiva i fiocchi gelati impattare sul suo volto e sciogliersi uno dopo l'altro, i piedi che affondavano un po' nella neve fresca che aveva coperto la via, Caterina aveva continuato a ripensare al suo passato e, prima che se ne rendesse conto, la sua mente era tornata con crudeltà al suo primo marito.

Ripensare a Girolamo, a quello che le aveva fatto, le aveva fatto provare un freddo profondo, molto più pungente di quello dell'inverno. E aveva desiderato trovarsi da sola, per cercare di ricomporre i pezzi della sua anima, prima di gettarsi in mezzo agli ospiti festanti.

Così si cambiò molto rapidamente, evitando ancora una volta il suo vestito rosso, che simboleggiava a un tempo la sua libertà e la sua immortale nostalgia di Milano, e poi si era seduta sul letto, a pensare.

Proprio mentre cercava di ricacciare ancora una volta indietro il fantasma di Girolamo Riario nell'angolo da cui era uscito, sentì bussare un paio di volte. Chiese chi fosse e quando sentì la voce di Manfredi, andò subito ad aprire.

“Mi spiace che tu non sia venuta a Messa in Duomo – le disse, con tono distratto, quasi senza guardarla, mentre entrava in camera – l'ho trovata una funzione molto interessante. Sontuosa, ma allo stesso tempo molto raccolta, non so se rendo l'idea...”

La Sforza lo ascoltava solo con un orecchio, e approfittò del suo breve discorso per ricontrollarsi allo specchio. Sicura di essere di nuovo in ordine gli disse che, se voleva, potevano andare pure.

Ottaviano, però, la bloccò con il proprio corpo, dando anche un piccolo colpo alla porta, per farla chiudere: “Ascolta, Tigre... Mentre ero in chiesa e stavo pregando, mi sono trovato a farmi qualche domanda...”

“Non mi dirai che ti stai facendo venire degli scrupoli per quello che facciamo, perché in tal caso...” iniziò a dire lei, cercando di farsi strada verso l'uscio.

Manfredi la fermò ancora, ma questa volta prendendola per le spalle e inducendola a guardarlo in viso: “Perché non mi hai punito, quando ho cercato di ucciderti?”

La donna lo fissava in silenzio, senza capire dove volesse andare a parare con quella domanda che le pareva fuori luogo.

Il faentino, andando a Messa, aveva sentito alcuni forlivesi parlare tra loro di un vecchio amante della Leonessa che, dopo aver cercato di ucciderla portando la peste a Ravaldino, era stato gettato da un pozzo. Quell'aneddotto, che all'inizio gli era scivolato di dosso come nulla fosse, con il passare delle ore aveva cominciato a fargli nascere delle domande e, da lì, altre domande e altre ancora.

“Perché?” chiese di nuovo, sperando di sentirsi rispondere come si era immaginato mentre si inginocchiava davanti al prete che impartiva la benedizione di Natale, ovvero con un semplicissimo e conciso 'ti amo'.

“Perché mi piace portarti a letto.” fu invece la risposta secca e volutamente ruvida data dalla Contessa.

“Tutto qui?” domandò Ottaviano, una mano che passava tra i lunghi capelli biondi, per dissimulare un po' il nervosismo.

“Tutto qui.” assicurò la Sforza che voleva a tutti i costi, a maggior ragione ora che c'era di mezzo anche una proposta di matrimonio per Bianca, evitare qualsiasi legame sentimentale con Manfredi.

“Oh, al diavolo, Tigre!” sbottò il ventiseienne, allargando le braccia, visibilmente alterato: “Per me non è solo... questo!” gridò, indicando il letto con una mano.

Cercando di scansarlo di lato con un mezzo spintone, Caterina ribatté: “Per me invece sì! E adesso togliti di mezzo, che mi aspettano.”

“Allora è così? Mi stai solo usando per potermi avere nel tuo letto quando ti pare? Mi stai usando per liberare tua figlia, per soddisfare i tuoi bisogni e per cos'altro, eh, lo posso sapere?” la raffica di domande uscì dalle labbra di Manfredi con tanta velocità e tanta stizza che la Sforza fu tentata di prenderlo a schiaffi.

Però, quando lo guardò, trovandolo sconvolto in viso e dallo sguardo confuso, non se la sentì e si limitò a dirgli, con voce ferma, ma bassa: “Smettila. E adesso andiamo, ci aspettano giù.”

“Mi vuoi, allora. E basta, è tutto qui, no?” riprese l'uomo, gli occhietti azzurri che stavolta la cercavano con cattiveria, con un'espressione molto simile a quella che li animavano quando in battaglia scorgeva un nemico: “E allora ti darò quello che vuoi.”

La Tigre non capì subito cosa intendesse dire, ma quando lo sentì stringerle un polso e chinarsi su di lei, iniziando a baciarla in modo scomposto, con una mano che armeggiava già con le sue sottane, sentì il sangue gelarlesi nelle vene.

In prima battuta non si mosse, né protestò, congelata dal ricordo che quei gesti le avevano riportato alla mente. In quel modo vorace, ma allo stesso tempo freddo, con cui il faentino la stava toccando poteva risentire l'eco delle strette e dei baci a vuoto di Girolamo.

Fu troppo. E la reazione arrivò prima ancora che la donna si rendesse conto che il suo corpo aveva risposto al pericolo molto prima di quanto avesse fatto la sua mente.

Dando un colpo alla mano di Ottaviano che le stava alzando la sottana, la Contessa prese il suo pugnale e lo puntò all'istante alla gola del suo amante.

“Vai all'inferno, Manfredi.” gli disse, mentre lui, ancora abbastanza lucido da avvertire il bacio freddo del metallo sulla gola, la lasciava di colpo, sollevando le mani in segno di resa.

I due si fissarono ancora per qualche istante, il fiato mozzo, cercando di capire cosa stesse succedendo realmente tra loro. Alla fine, capendo che non avrebbe potuto far altro, il faentino mosse un passo indietro, avvicinandosi alla porta.

Aprendola, e cominciando a uscire in corridoio, soggiunse, dapprima in un sussurro e poi a voce sempre più alta: “Ma guardati... Porti ancora il nodo nuziale di un uomo che dici di aver amato, ma che hai tradito appena ha smesso di respirare. Dici di volermi, ma poi non sai nemmeno tu quello che vuoi. Per una come te è meglio far venire qui gente come quel ragazzo del bordello, almeno lui se ne sta zitto!”

Caterina non si chiese come facesse il suo amante a sapere di quella sua abitudine, pensando che ormai, per quanto avesse cercato di mantenere un minimo di discrezione, era probabile che la voce fosse già circolata, arrivando fino a lui.

“Sei tu che non sai nemmeno cosa vuoi!” l'attaccò la Sforza, affacciandosi fuori dalla camera e gridando verso il giovane uomo che si stava allontanando: “Dicevi di volere una leonessa, ma poi non sai gestire nemmeno una gatta!”

“Vai al diavolo, Tigre!” arrivò la risposta di Manfredi, dal fondo del corridoio.

Con il cuore che batteva ancora rapido e la rabbia che pulsava nelle vene, la Contessa si ritirò ancora un attimo in camera, per darsi una calmata, prima di scendere al banchetto.

Nella concitazione del momento, né la milanese, né il faentino si erano accorti della presenza silenziosa di Bianca. Era andata verso la stanza della madre, per chiederle se preferisse essere presente all'inizio del banchetto o meno, e aveva sentito le prime urla già stando a qualche decina di metri di distanza dalla porta socchiusa.

Indecisa su cosa fare, aveva scelto un angolino un po' in ombra e aveva aspettato, terrorizzata all'idea di essere vista, sia che restasse dov'era, sia che avesse provato ad andarsene.

Anche dopo aver visto correre via Manfredi, era rimasta un po' nel suo nascondiglio. Le parole che aveva udito l'avevano ferita. Sapeva quanto sua madre fosse in difficoltà – non come capo di Stato, né come capo dell'esercito, ma come donna – e quella consapevolezza la faceva soffrire in modo indicibile.

Sentiva piangerle il cuore, pensando che quel poco equilibrio che la presenza di Giovanni Medici, con fatica, dedizione e pazienza aveva saputo dare a sua madre fosse già svanito nel nulla.

Quando finalmente era riuscita a calmarsi un po', la Riario sospirò e uscì dal suo angolino, pensando di andare alla sala dei banchetti, convinta che sua madre non sarebbe uscita più dalla sua stanza, almeno fino al mattino seguente.

Dopo un paio di passi, però, sentì lo scattare della serratura e poi vide la Contessa uscire in corridoio, il volto impassibile e le spalle ben dritte.

“Sei venuta a chiamarmi?” chiese la Sforza, gli occhi verdi sulla figlia.

Bianca si schiarì la voce, l'agitazione che tornava a prenderla. Temeva che sua madre potesse pensare che lei avesse sentito tutto. Non sapeva come gestire quella situazione, ma ci provò.

Annuì e poi aggiunse: “Aspettavo voi per dare inizio al banchetto.”

“Arrivo.” fece Caterina, congedando la figlia con un gesto della mano, salvo poi ripensarci e sospirare con pesantezza: “Anzi, vieni qui accanto a me. Nella sala dei banchetti ci entriamo insieme, va bene? Voglio che tutti sappiano che sono orgogliosa di mia figlia. So che tu sei molto meglio di me, per tanti motivi.”

La Riario provò a schermirsi, balbettando qualche mezza frase per dire che lei non sarebbe mai stata alla sua altezza, ma la madre insistette, fino a che la ragazza si trovò ad accettare il complimento con un sorriso imbarazzato e gli occhi bassi.

“So che ci vuole poco, a essere meglio di me. Ma voglio che tu sappia che sono fiera di averti come figlia.” rimarcò la Leonessa, mentre andavano verso le scale: “E spero che tu non faccia i miei stessi errori.”

 

Ludovico Sforza guardava annoiato la piccola folla festante che era accorsa al banchetto. La sua corte, man mano che passavano i mesi e gli anni, gli appariva sempre più estranea.

Quella confusione, tutte quelle voci e quelle risate, gli sembravano così estranee e insensate che quasi gli davano la nausea. Cercava tra la gente qualche viso amico, qualcuno che gli facesse venire voglia di divertirsi come faceva un tempo. Di quando in quando incrociava lo sguardo di qualcuno che un tempo aveva ritenuto meritevole del suo interesse, ma lui per primo si metteva subito a guardare altrove, sperando di non essere avvicinato per scambiare le solite inutili chiacchiere sul tempo o sentirsi fare allusioni fastidiose alle minacce francesi o alla popolarità di Isabella d'Aragona. L'unico volto che avrebbe voluto vedere, però, era quello di Beatrice, un volto che non avrebbe mai più rivisto.

“Ti vedo dimagrito. Sicuro di stare bene?” la voce di Cecilia Gallerani colpì come una saetta le orecchie del Moro, che si voltò di scatto.

Aveva creduto che la donna non avrebbe partecipato a quella festa e così, trovarsela davanti con un sontuosissimo abito di broccato e il suo sguardo insinuante, lo fece sciogliere tutto in un colpo.

“Non pensavo di vederti, stasera.” le sussurrò, baciandole la mano.

“Il tuo domine magister Leonardo mi pare ancora più insofferente di te.” commentò divertita la Gallerani, indicando l'artista che, quasi dall'altro lato del salone, se ne stava in un angolo con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo torvo.

“Ah...” fece Ludovico, seguendo lo sguardo di Cecilia: “Lasciamolo stare... Se l'è presa perché a dir suo in questo ricevimento non ci sono ospiti alla sua altezza.”

“Dunque è ancora presuntuoso come quando vivevo qui con te.” disse piano la Gallerani, guardandolo dritto negli occhi.

Lo Sforza sentì il cuore tremare e il vuoto nello stomaco, che aveva ignorato fino a quel momento, gli parve all'improvviso una voragine.

Mettendosi una mano sul ventre prominente, l'uomo soggiunse: “E poi sostiene che io stia ignorando i segnali... Pensa che stia sottovalutando i francesi... Figuriamoci! Un pittore che vuole dare lezioni di politica a un Duca! Piuttosto... Che ne diresti di mangiare qualcosa?”

“Non ho fame.” fu la risposta quasi sibillina della Gallerani, che lo guardò in modo provocante e poi rimase zitta.

Rispetto a quando l'aveva conosciuta e ne aveva fatto la sua favorita, ora Cecilia, agli occhi di Ludovico, era una donna fatta e finita, con la bellezza cruda della prima giovinezza ormai alle spalle e il fascino della prossima maturità quasi a portata di mano.

“Tuo marito si è distinto moltissimo nelle gare e nelle manifestazioni di questi giorni.” fece, quasi burbero, il Moro, come a ricordarle che era una donna sposata e che certi sguardi, forse, non le si addicevano più: “Ludovico Bergamini, un portento a cavallo e un ottimo tiratore di scherma!”

“Mi pare che messer Galeazzo Sanseverino e Ludovico della Mirandola se la siano cavati altrettanto egregiamente, se non addirittura meglio.” ribatté la Gallerani, gli occhi che indugiavano sui presenti, come volesse cercare i cavalieri appena citati, per poi fermarsi con insistenza sul giovane Pirovano: “Per non parlare di quel Giovanni da Casale. Un diavolo in terra con i cavalli da domare e un autentico Dio della guerra, quando in sella a uno stallone.”

Il Duca sentì una spina conficcarglisi nel petto, nel vedere come quella che un tempo era stata la sua donna, il suo grande amore, la sua perdizione, fissare quel maledetto Pirovano in modo tanto inequivocabile.

Trovava assurdo che una donna intelligente e accorta come Cecilia, che lui aveva conosciuto nel profondo, potesse essere attratta da quel bell'imbusto. Che aveva, in fondo, a parte la bellezza e la giovinezza?

“Che volete.” sbuffò: “Un tempo lo siamo stati tutti, giovani e bravi a cavalcare.”

“Bravo a cavalcare, voi non lo siete mai stato troppo.” lo punzecchiò la Gallerani, sorridendo di nuovo: “Oh, cielo, ecco mio marito... Forse dovrei raggiungerlo.”

Il tono volutamente civettuolo che aveva usato e il chiaro invito a trovare una scusa per trattenerla, risvegliarono nello Sforza l'antico istinto da predatore che gli aveva permesso, negli anni, di guadagnarsi una fama da conquistatore di tutto rispetto.

“Venite con me.” le disse, veloce, proprio mentre il Conte Bergamino si avvicinava, senza, però, averla vista, o, per lo meno, lasciando intendere che fosse così.

Ottenuto quel che voleva, Cecilia si abbandonò a una risatina e seguì Ludovico, certa che almeno quella notte gli avrebbe fatto riprovare i brividi che aveva provato le prime volte, quando lo amava di nascosto da tutti, accontentandosi del suo amore, senza bisogno di gioielli, titoli o reverenze.

Leonardo aveva intravisto il suo signore uscire dal salone con una donna bellissima aggrappata al braccio e ci aveva messo mezzo secondo a riconoscere Cecilia Gallerani. Aveva poi visto il marito di lei vagare come una gallinella intontita in mezzo alla folla, cercandola in affanno, per poi rinunciare, forse intuendo cosa fosse successo.

Accettando finalmente un calice di vino, messo quasi di buon umore da quella scenetta che aveva del patetico, si chiese se il Duca non si sentisse ridicolo, alla sua età, nel correre dietro alle moglie degli altri.

Poi, bevendo qualche sorso, tornò con lo sguardo al Conte Bergamini e pensò che, in effetti, c'erano anche uomini molto più patetici del Moro e, per di più, questi ultimi non ne traevano nemmeno il vantaggio di qualche ora di passione con una donna bella ed elegante come la Gallerani.

Riappoggiando il calice ormai vuoto al primo tavolo che gli capitò a tiro, il domine magister allacciò le mani dietro la schiena. Si specchiò per caso nel riflesso di una caraffa d'argento e anche alla tremula luce dei candelabri scoprì tra i propri capelli qualche filo bianco di troppo.

Guardò di nuovo la festa, un carosello inutile e paesano, al suo occhio, e decise di ritirarsi. Avrebbe passato quel che restava della notte di Natale in modo più costruttivo: aveva da parte ancora un po' di mistura per tingersi i capelli e dunque era il momento di coprire quei fili d'argento che lo facevano sembrare troppo vecchio, troppo vecchio davvero per l'età che si sentiva ancora nell'anima.

 
   
 
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