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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'ingresso nella sala dei banchetti fu trionfale. La Tigre venne applaudita e acclamata dai presenti con grida di approvazione e motti guerreschi e sorte simile toccò a Bianca, dopo che la madre ebbe specificato che il merito di quella festa andava a lei, unica organizzatrice dell'evento.

La ragazza aveva dimostrato una grande attenzione ai dettagli e, in particolare, pensando alle danze che sarebbero seguite alla cena, aveva fatto sì che gli invitati uomini fossero circa il doppio delle donne, evitando, a quel modo, che ci fossero dame scompagnate in vana attesa di un cavaliere che chiedesse loro di ballare.

Tra i presenti c'erano soprattutto soldati – molti veterani, alcune reclute e parecchi uomini di stanza a Ravaldino – ma anche alcuni esponenti delle famiglie più importanti della 'nuova' nobiltà forlivese, come veniva considerata la classe dominante che la Sforza aveva scelto per sostituire quella sterminata alla morte del Barone Feo.

Tra le dame, poi, oltre a figlie e mogli di possidenti e uomini importanti, c'era anche qualche amica di Bianca, scelta tra la servitù, e qualche donna del popolo, soprattutto conoscenti della Riario, che per quella sera avevano abbandonato le vesti di bottegaie o massaie e si erano trasformate in autentiche nobildonne.

Caterina, ben impressionata dalle scelte fatte dalla figlia, si sedette a tavola e ordinò che si cominciasse il banchetto. Le portate non erano molte e pressoché tutte a base di selvaggina. Il piatto principale, per il tavolo d'onore e per quello dei Capitani, risultò essere il cinghiale cacciato da Galeazzo.

Ottaviano Manfredi, la Tigre se ne accorse dopo almeno mezz'ora dall'inizio del banchetto, era seduto accanto a un paio di soldati molto giovani. Stava mangiando con gusto e ridendo come un pazzo, quasi non gli importasse nulla della litigata che avevano appena avuto. Tracannava un calice di vino dopo l'altro e, se non fosse stato grande e grosso, probabilmente il suo stomaco si sarebbe ribellato presto a tutto quel bere.

La Sforza, invece, masticava quasi con fatica quello che aveva davanti a sé. Per quanto la carne fosse ottima e magnificamente stufata, la rabbia – e la paura – che aveva provato poco prima, quando Manfredi aveva cercato di forzarla, le si erano stratificate in pancia e le rendevano difficile godersi la cena.

Per distrarsi, cominciò a scrutare i figli. Giovannino, ovviamente, non c'era perché appena dopo la Messa era stato portato in camera dalle balie e probabilmente si era anche già addormentato.

Cesare non si era presentato al banchetto. L'aveva annunciato e l'aveva fatto. Aveva detto alla madre che si sarebbe fermato in Duomo per delle orazioni.

“Immagino che questo sarà l'ultimo Santo Natale che passerò qui – le aveva detto, quella mattina, prima di uscire dalla rocca – e dunque non intendo angustiarvi fino all'ultimo momento con la mia presenza.”

Caterina non aveva saputo controbattere, anzi, aveva fatto un cenno d'assenso e così, da quel momento, non l'aveva più rivisto per tutto il giorno.

Mentre pensava a Cesare e al modo catastrofico in cui negli anni il loro rapporto si era incrinato e poi disfatto del tutto, la Tigre posò lo sguardo su Sforzino, che mangiava senza tregua, divorando un pezzo di carne dopo l'altro, intingendo spesso e volentieri un po' di pane nel sughetto dello stufato.

Gli altri erano bene o male tranquilli, perfino Ottaviano che, zitto e solitario, mangiava e beveva senza tregua, occhieggiando solo, di quando in quando, verso Manfredi, che iniziava a farsi davvero chiassoso. Solo Bernardino non era del tutto tranquillo. Era seduto in fondo a uno dei due lati del tavolo e aveva mangiato pochissimo e teneva il viso imbronciato, come se stesse rimuginando su qualcosa di molto brutto e doloroso.

La Leonessa, a quel punto, immaginando che suo figlio stesse pensando al padre, tornò a concentrarsi sul cinghiale che aveva davanti e, per stemperare un po' il suo stesso stato di irrequietezza, disse: “Bianca, devo farti i complimenti per questo stufato. Sono pronta a giurare che l'hai cucinato tu stessa.”

“Mi hanno aiutata, ma in effetti ho curato io la cottura.” si vantò un po' la Riario, sorridendo alla madre: “Ma se Galeazzo non avesse cacciato un simile esemplare di cinghiale, difficilmente sarebbe venuto tanto buono.”

Il fratello ringraziò con un cenno del capo e da lì i due cominciarono a chiacchierare in modo abbastanza disteso da riuscire a distendere in parte anche i nervi di Caterina.

 

Isabella accelerò ulteriormente il passo, mentre Francesco le arrancava alle spalle: “Ti prego, aspetta! Perchè fai così?”

La Marchesa di Mantova, dopo quell'ennesimo tentativo del marito di bloccarla, si fermò davvero, voltandosi all'istante.

Il Gonzaga per poco non le finì addosso, ma riuscì a frenarsi appena in tempo: “Isabella, perché mi hai trattato così per tutto il tempo?” le chiese, esasperato, gli occhi scuri che cercavano quelli accesi di rabbia di lei.

“Non potevi restartene a Marmirolo con i tuoi falconi e le tue amanti?!” esplose l'Este, tanto furibonda da sentire le mani tremare e gli occhi pungere per le lacrime che rischiavano di presentarsi da un momento all'altro.

“Ma quali amanti..!” la riprese lui, alzando le mani al cielo: “Lo sai benissimo che lì ci vado solo per cacciare!”

Erano poco lontani da una finestra che dava su Mantova. Fuori la nevicata iniziata in tarda serata stava continuando a coprire la città, ma la torcia a muro lì accanto, con il suo riflettersi sul vetro, avrebbe impedito loro di vedere i fiocchi turbinare, se solo avessero avuto tempo di rimirare il paesaggio.

“Non sono una stupida, Francesco, quindi non trattarmi come tale.” lo rimproverò la donna.

Il Marchese scosse il capo e riprese: “Hai passato tutto il banchetto a ignorarmi! Hai continuato a parlare dei tuoi vestiti e di tuo fratello, mentre con me non hai scambiato nemmeno una parola!”

“E allora? Non avevo nulla da dirti.” ribatté Isabella, sporgendo in fuori il mento, che si era fatto spesso e arrotondato.

“Ma ti rendi conto che la politica è anche questo? Cosa penseranno della stabilità del Marchesato, se ci vedono così distanti...” tentò il Gonzaga.

“Ah! Tu parli a me di politica! Come un asino che dà lezioni di trotto a un cavallo! L'unico messaggio chiaro di unione che potremmo dare al Marchesato sarebbe la nascita di un erede maschio, ma è chiaro che tu non sei in grado di fornirne uno alla tua cara Mantova!” l'attaccò l'Este, rivangando un terreno già più volte dissodato.

“E come diamine faccio a fare un figlio maschio con te, se non vuoi nemmeno che ti sfiori?!” fu l'esasperata risposta dell'uomo.

Nel litigare, i due si erano trovati così vicini da poter sentire l'uno il respiro dell'altra. Nella penombra di quel mezzo corridoio di passaggio i loro cuori parevano battere così forte da potersi sentire a orecchio nudo.

Isabella, nel vedere il viso contratto del marito, ricordò i primi tempi, sia quando lei era una bambina e poi una ragazzina, intenta a conoscere il carattere dell'uomo che avrebbe sposato, sia quando poi si era fatta donna e l'aveva amato perdutamente, perdonandogli tutto, finché aveva potuto. Poi le cose si erano lisate, come uno straccio troppo consumato anche per levare la polvere dagli scaffali, e di loro non era rimasto che qualche brandello sparso.

Allo stesso modo Francesco stava rivedendo in lei la figlia degli Este, che gli era stata inizialmente propinata come futura sposa, con sua insofferenza, e poi, man mano che l'aveva conosciuta, gli era apparsa per quella che era. Già da piccola l'aveva trovata di viva intelligenza, di forte animo e di coraggio inusuale. Poi lei era diventata adulta e avevano imparato a conoscersi anche in un altro modo e lui ne era rimasto soggiogato. E poi Isabella era cambiata, si era arroccata sempre di più nelle sue posizioni, non lo aveva perdonato per averle fatto partorire due figlie femmine e ancor meno per averla coperta di scandalo, quando aveva preso pubblicamente delle amanti mentre era lontano da casa. E, ancora di più, quando lei aveva infine capito l'inconsistenza del marito in campo politico e diplomatico.

“Tornerò ad accettarti nel mio letto quando riuscirò di nuovo a guardarti senza provare nausea.” fu la risposta, appena sussurrata, di Isabella.

“Quand'è così, credo che me ne andrò stanotte stessa.” ribatté Francesco, i capelli lunghi fino alle spalle e un po' radi che ondeggiavano furiosi man mano che lui si muoveva: “E contatterò anche Venezia. Voglio tornare sotto una loro condotta.”

Allarmata da quell'annuncio, l'Este strabuzzò gli occhi: “E perché mai?”

“Perchè non sopporto il modo in cui il Moro mi sta trattando. Mi ha pagato solo in parte e tarda a dirmi quale sarebbe di preciso il mio incarico. E poi, se proprio lo vuoi sapere, mi fa schifo prendere soldi da un uomo che mi paga solo perchè si è portato a letto mia moglie.” quelle accuse furono per Isabella una serie di coltelli dritti al cuore che le tolsero il fiato per qualche istante.

“Ma che stai dicendo?” chiese, attonita.

“Avanti! L'ultima volta ho visto come ti guardava! Se tu non sei stupida, pensa che non lo sono nemmeno io!” fece il Marchese, trattenendosi a stento dall'alzare le mani su di lei, al pensiero che un uomo come Ludovico Sforza l'avesse avuta.

“Tu non hai capito niente. Né di me, né del pericolo in cui ti stai cacciando.” fu l'avvertimento di Isabella.

Il Gonzaga fece un sorriso beffardo: “Ho capito tutto, di te, invece. Vorresti essere tu, il Marchese di questo posto, ma sei solo una donna. Divertiti pure con quel... Come diavolo si chiama... Quel Pietro Bembo che ti porti appresso ovunque tu vada. Ma sappi che se aspetterai un figlio da lui, allora io non avrò pietà. Né per te, né per lui.”

“Francesco, sei ubriaco. Faresti meglio a stare zitto.” la voce di Isabella si era fatta tagliente, e dai suoi occhi era scomparsa ogni traccia di lacrime, per lasciare il posto a qualcosa di molto più pericoloso.

Il Marchese, per quanto non volesse ammetterlo nemmeno con se stesso, ne ebbe paura. Fece un respiro profondo, un passo indietro e una mezza reverenza.

“Hai ragione. Forse ho bevuto troppo. Ripartirò per Marmirolo all'alba.” disse, più controllato, quasi non avessero appena passato gli ultimi minuti a gridarsi contro l'un l'altro.

“Non disturbarti a venire a salutarmi, quando te ne andrai.” concluse Isabella, voltandogli le spalle e cominciando a camminare rapida verso le sue stanze: “Sarò molto stanca e detesterei essere svegliata per un affare di poco conto come salutare te.”

Allargandosi un po' il colletto del camicione, Francesco deglutì e attese di vederla sparire nel buio, prima di muoversi di nuovo. Se avessero continuato così, pensava, prima o poi lei avrebbe trovato il modo di ucciderlo.

Lui si era lanciato in minacce di morte, ma cominciava a pensare che se sua moglie avesse davvero avuto un figlio maschio da un altro... Be', probabilmente l'avrebbe ucciso e lei e il suo erede sarebbero rimasti alla guida del Marchesato.

Il potere poteva deformare la mente, così come la paura, Francesco lo sapeva anche troppo bene, e così, quando arrivò in stanza, preferì chiudere la porta a due mandate, nel terrore che qualche misterioso assassino potesse sgusciare dentro prima dell'alba e tagliargli la gola, sussurrandogli all'orecchio: “Tua moglie Isabella ti porta i suoi saluti.”

 

Finito il banchetto, e iniziate le danze, Sforzino aveva preso da parte qualche pezzo di torta secca ed era rimasto al tavolo, mangiando con lentezza, come se volesse far durare il dolce il più a lungo possibile.

Bernardino, invece, appena finita l'ultima portata, era schizzato via dal tavolo ed era sparito assieme a un paio di ragazzini figli della servitù della rocca. La Contessa aveva cercato di farsi dire dove stesse andando, ma alla fine non aveva ottenuto risposta. Come unica, flebile, forma di sicurezza, aveva pregato il Capitano Mongardini di dare ordine alle guardie di non lasciar uscire il bambino dalla rocca, nel caso ci avesse provato.

Galeazzo, fin da quando erano iniziate le danze, non aveva fatto altro che prestarsi come cavaliere per quelle dame che o perché un po' troppo giovani o perché di estrazione troppo bassa, non avevano trovato di meglio di un ragazzino che, per quanto fosse distinto e ben vestito, aveva pur sempre solo tredici anni.

Era molto pacato e quasi rigido nel suo modo di condurre le danze, perfino quando si trattava di ballate di gruppo, ma faceva comunque la sua bella figura, con il suo passo elegante e con i suoi modi rispettosi.

Anche Bianca stava ballando, fin dalla prima nota dei musici. Durante la cena Caterina aveva notato che la figlia aveva bevuto un po' più vino del solito e che il suo sguardo era scivolato anche troppo spesso a Ottaviano Manfredi.

La Sforza non voleva nemmeno chiedersi cosa le passasse per la mente. Però aveva visto nettamente come la ragazza si era irrigidita, nel vedere il fratello Ottaviano andare vicino al faentino, una volta pronta la pista da ballo nel centro della sala, e continuare a bere e ridere con lui, come fossero due vecchi amici.

Quando poi si era sentito distintamente il Manfredi proporre al Riario di andare a cercare compagnia, dopo la festa, ecco, a quel punto in Bianca doveva essere scattato qualcosa.

La Contessa si rese conto di essere altrettanto infastidita all'idea che quell'uomo stesse progettando di andare al bordello, invece che restare con lei, ma per la Riario il discorso era molto più complesso.

Come se avesse sete di vita, la ragazza si era lanciata tra i ballerini e non era più stata ferma un istante, accettando perfino un calice ogni tanto, andando a sommare ebrezza all'ebrezza.

La Tigre avrebbe voluto fermarla. Non l'aveva mai vista in quello stato e temeva che potesse commettere qualche sciocchezza. Tuttavia, non appena si era risolta a raggiungerla in mezzo alla sala – dove Bianca stava volteggiando in modo anche troppo disinvolto tra le braccia di un giovane soldato – le era arrivato accanto Luffo Numai, seguito a breve distanza da Cesare Feo.

“Non volevo importunarvi proprio ora con questo genere di argomento – si scusò il Consigliere, dopo averle esposto il suo cruccio – ma capite bene che la situazione non è rosea.”

“Manfredi non me l'aveva detto.” soffiò la donna, lanciando uno sguardo a Ottaviano, che, vicino al muro, stava scambiando battute volgari con il suo omonimo.

Numai e il castellano si scambiarono uno sguardo preoccupato e poi il castellano soggiunse: “Se dovesse essere abbandonato anche da Firenze... A noi converrebbe davvero tenerlo qui a Forlì?”

Caterina strinse i denti. Sapeva che Cesare aveva ragione, ma non poteva nemmeno immaginare di separarsi da Manfredi. Anche se avevano litigato, anche se caratterialmente le era ogni giorno più chiaro che non sarebbero mai andati d'accordo, lo desiderava troppo per privarsene.

“Aspettate.” disse ai due uomini e si alzò dal suo scranno, seguita dagli occhi placidi di Sforzino che, a poche sedie da lei, era così preso dalla torta e dalla musica da non aver nemmeno ascoltato le sue parole.

Con passo veloce, la Leonessa arrivò fino a Manfredi e, bloccandolo nel mezzo di una risata scaturita da una frase volgare di Ottaviano, gli disse: “Vieni con me.”

Accigliandosi, l'uomo, che avrebbe voluto dirle che non aveva tempo per lei, capì comunque che la cosa era seria e così la seguì fin fuori dalla sala. Solo Bianca e pochi altri si erano accorti che la Contessa era uscita e che con lei c'era il faentino.

“Perché non mi hai detto che Firenze ti ha fatto reclamo?” gli chiese, appena furono in un punto tranquillo.

Si poteva udire la melodia ovattata che arrivava dalla festa, e qualche voce di guardia che rimbombava tra i muri di pietra della rocca.

Ottaviano si ravviò i capelli biondi e fece una specie di sorriso contrariato. Per il caldo che aveva per colpa del troppo vino, si era slacciato un po' il collo del camicione e del giubbone, lasciando intravedere le prime cicatrici del suo petto.

“Allora? Guarda che non è una cosa da poco.” insistette Caterina: “Se Firenze dovesse revocarti la condotta, che ti ricordo è il tuo unico sostentamento, o, peggio, se dovesse dichiararti fuorilegge e un traditore, anche io ti chiuderei la porta in faccia.”

“Non lo faresti.” disse lui, più speranzoso che convinto.

“Ascoltami molto bene: tuo cugino Astorre mi ha fatto scrivere per ricordarmi che entro fine gennaio Bianca dovrà andare a Faenza e diventare una volta per tutte sua moglie.” fece la Sforza, irritata dal sorrisetto che non lasciava le labbra dell'uomo che aveva dinnanzi.

“E tu non mandarcela.” ribatté lui, con ovvietà.

“Ti rendi conto della situazione in cui mi sono messa per te?” chiese allora lei, ricordandosi di come già i Bentivoglio si stessero interrogando sulla parte di responsabilità avuta da lei negli attacchi nel faentino.

“Sei tu che non ti rendi conto della situazione in cui mi sono infilato io per te, cara Tigre.” la contraddisse Ottaviano: “E ora smettila di rompermi l'anima e lasciami tornare al banchetto. Quello che sta succedendo tra Firenze e me è irrilevante e tu non c'entri nulla.”

La Contessa provò a trattenerlo, afferrandolo per una mano, ma l'uomo le scivolò via, e così alla donna non restò altro da fare se non sospirare e tornare nella sala dei banchetti.

 

Semiramide stava perdendo la speranza di vedere tornare il marito prima dell'alba, quando sentì la sua voce all'ingresso dire a uno dei servi: “No, no... Preferisco ritirarmi subito.”

Chiuse di scatto il libro che stava leggendo e si fiondò fuori dal salotto, nella speranza di poterlo incrociare e chiedergli come fosse andata.

All'inizio non aveva trovato giusto che Lorenzo si prendesse la briga di occuparsi della questione, ma poi, mentre lo aspettava davanti al camino, lo stomaco vuoto e il cuore in subbuglio, si era resa conto che aveva ragione lui.

Se voleva sembrare una guida forte e sicura per Firenze, era giusto che fosse presente anche quando si discuteva di fattacci del genere.

Tutto era successo alla prima Messa di mezzanotte in Santa Maria del Fiore. Qualcuno, non si era capito bene chi, aveva portato un cavallo in chiesa e lo aveva aizzato affinché corresse come indemoniato.

La gente si era spaventata moltissimo, ed essendo la chiesa gremita all'inverosimile, anche chi non aveva visto bene l'ingresso del cavallo si era lasciato prendere dal panico nel sentire gli altri gridare e nel vedere la folla cercare di raggiungere la porta prima di essere travolta dalla bestia imbizzarrita.

Dopo poco, gli stessi che avevano portato dentro il cavallo, si erano messi a compiere atti osceni con donne di strada proprio sotto all'altare, mentre dei loro complici inseguivano il cavallo, ferendolo e bastonandolo per incattivirlo ancora di più.

Colpito e già quasi eviscerato, l'animale a un certo punto era crollato in terra, nel centro della navata centrale, laddove la folla si era ritirata per paura di essere travolta. Il suo sangue denso e scuro aveva imbrattato il suolo, mentre i suoi nitriti agonici avevano riempito l'aria, saturandola del sentore della morte.

Nella frenesia della loro follia, i colpevoli avevano preso per le zampe la carcassa e, lasciando una scia scarlatta sul pavimento, l'avevano portata fino alle scale esterne, lasciandola lì, come segno del loro passaggio.

Nessuno, ovviamente, si era arrischiato a levarla e così lì era rimasta.

I membri della Signoria presenti avevano deciso di riunirsi all'istante, per decidere come agire e come punire i colpevoli, nel caso fossero stati rintracciati, e Lorenzo non era stato da meno. Una volta congedata la moglie, si era portato quasi di corsa al palazzo della Signoria, premurandosi anche di dire a Semiramide di non aspettarlo alzata.

“Lorenzo. Lorenzo!” chiamò l'Appiani, vedendo con disappunto che il Medici aveva fatto finta di non sentirla, la prima volta.

“Sono stanco. Voglio andare a dormire.” disse lui, mesto, un po' di neve che si stava sciogliendo ancora impigliata nei capelli.

“Cos'avete deciso?” chiese Semiramide, avvicinandoglisi.

Gli occhi tondi e un po' pesti di Lorenzo indugiarono sul suo viso. Era davvero stremato. Era stata una riunione infruttuosa e dominata da un'aura di superstizione che era figlia degli anni passati sotto al dominio di Savonarola. L'unica cosa che avrebbe voluto fare, sarebbe stata andare in camera con sua moglie, farsi stringere forte dalle sue braccia e addormentarsi sul suo seno, protetto e tranquillo.

E invece le rispose, acido: “Non sono cose che ti interessano. Adesso lasciami andare a dormire, ti ho già detto che sono stanco.”

“Pierfrancesco mi ha chiesto di poterti vedere, quando fossi tornato... Vorrebbe sapere anche lui cosa farete per...” provò a dire l'Appiani, ma il marito stava già agitando la mano, per farla tacere.

“Devi dire a Pierfrancesco che è ancora troppo giovane per pensare a certe cose. Avrà modo di stufarsene anche lui. Tutti noi si ha modo di stufarsene.” tagliò corto il Medici: “E ora lasciami in pace, non ho voglia di parlarti.”

Il tono, spento e piatto, con cui aveva parlato fu il vero motivo per cui la donna desistette. Guardò il marito allontanarsi poco a poco, con passo quasi claudicante, il mantello su una spalla e la testa bassa. Era dimagrito ancora e pareva divorato da un demone.

Semiramide avrebbe solo voluto poterlo portare in camera con sé, sotto alle coperte, stringendolo forte al seno, e lasciarlo dormire, tranquillo come un bambino, su di lei. Ma il muro che il suo omo aveva costruito per difendersi aveva escluso ormai anche lei, e per abbatterlo ci sarebbero voluti una dedizione e un impegno che l'Appiani cominciava a credere di non avere più.

 

Mentre ballava e beveva, Bianca si era trovata a navigare nel gorgo più pericoloso di tutti: l'incertezza.

Aveva ragionato parecchio, spesso in modo tanto profondo da essere a mala pena cosciente dei passi di danza che faceva o dell'uomo con cui stava seguendo il ritmo della musica.

Il litigio tra sua madre e Manfredi, il modo in cui si era trovata ad accettare la strana proposta di matrimonio del faentino e la consapevolezza sempre più opprimente del fatto che, per quanto sostenesse il contrario, sua madre la vedesse solo come una pedina della sua politica, le avevano confuso tanto la mente quanto il cuore.

La cosa che più l'agitava era la prospettiva di non poter sposare chi volesse. Sapeva molto bene che per le ragazze della sua estrazione sociale era la norma, ma nel tempo si era permessa di pensare che per lei ci sarebbe stata un'eccezione alla regola e invece poi si era scontrata con l'amara realtà, e si era fatta molto male.

La festa si stava trasformando nella solita confusione paesana, nella migliore tradizione dei banchetti a Ravaldino, e la ragazza aveva notato che sua madre era impegnata da tempo a discutere con il castellano, Luffo Numai e un paio di Capitani. La Tigre pareva non essersi nemmeno accorta che Manfredi, assieme a Ottaviano, aveva lasciato la sala da tempo.

Pensare che il faentino fosse probabilmente con qualche donna e che sarebbe diventato suo marito, la stava facendo impazzire. E poi si ricordò di come lui le avesse dato della ragazzina, con aria sprezzante, quasi offensiva e quella memoria fece scattare uno strano meccanismo nella mente di Bianca. L'idea le arrivò alla mente quasi per caso.

Stava danzando un amoroso abbastanza audace con un soldato abbastanza giovane. Doveva avere poco più della sua età. Non lo conosceva e, anche se prima lui le aveva detto il suo nome presentandosi, lei l'aveva già dimenticato.

“Sono stanca di ballare.” gli disse, approfittando di una delle prese per parlargli all'orecchio.

Il giovane, pur continuando a seguire la musica, la guardò interrogativo. Voleva essere certo di aver capito bene. Se la figlia della Sforza avesse voluto semplicemente fermarsi, dopo tutte quelle danze, sapeva che l'avrebbe fatto senza tanti annunci. Quella frase, secondo lui, aveva un significato diverso.

Decidendo che fosse il caso di rischiare, il soldato annuì e provò a dire: “Va bene. Sono al vostro servizio, mia signora.”

La Riario diede un rapido sguardo alla madre. Trovandola ancora distratta, prese il giovane per mano e si fece seguire fuori dal salone.

Non era la prima volta che si lasciava tentare da quella prospettiva, ma quella notte era più che decisa ad andare fino in fondo. Manfredi sosteneva che non gliene importava nulla, se lei aveva altri uomini. L'avrebbe messo subito alla prova.

 

 
   
 
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