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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bartolomeo sperava di arrivare alla fine di quella notte infernale. Non c'era ancora stato tempo di fermarsi un attimo, ma a spanne dovevano aver perso un'ottantina di lance e i fiorentini continuavano a inseguirli.

L'Alviano, senza esitazioni, aveva deciso di guidare i suoi verso i monti della Vernia, ma con quel buio e quel clima nefasto, temeva di perdere altri soldati per il gelo, più che per l'attacco del nemico.

“Ci dovremo asserragliare a Montalone – disse Carlo Orsini, il labbro un po' gonfio per un colpo preso mentre cercavano di tenere la difesa, prima di dichiarare la ritirata – da lì potremmo impedire loro di avanzare ancora.”

Lo zio annuì, secco, sconfortato dalla prospettiva di essere visto come il perdente. Si era sentito sminuito, nel vedersi attaccare all'ora del pasto proprio alla Vigilia di Natale e passare quella notte in fuga lo faceva sentire indegno del nome che portava.

Sapeva che era un atteggiamento sciocco, il suo, ma non poteva evitare di vergognarsi, per essere stato preso così alla sprovvista e, ancor di più, per il fatto che il nemico si era atteso di trovarlo impreparato.

“Ce la caveremo.” gli disse Carlo, con un colpetto sulla spalla, a mo' di incoraggiamento.

Bartolomeo non rispose, lanciando tacitamento un occhio alla colonna dei suoi uomini, che avanzava lenta e troppo scoordinata. Se i fiorentini avessero davvero voluto distruggerli, sarebbe bastato loro usare la cavalleria e riprenderli.

“Ci taglieranno i rifornimenti e faremo la fame.” disse, la lingua che faticava a seguire la velocità delle sue parole: “Avrei preferito morire per un colpo di spada a Marzano.”

L'Orsini non ribatté in alcun modo. Anzi, dopo un momento di silenzio, gli fece un cenno, a metà strada tra il saluto e l'assenso, e andò a incitare i loro soldati, soprattutto quelli che erano rimasti feriti nello scontro del giorno prima, nella speranza di farli camminare più rapidi.

 

“Sei una donna bellissima.” quelle parole le riecheggiarono nel petto come un colpo di cannone.

La voce del giovane soldato stava scacciando del tutto quella di Manfredi, che l'aveva chiamata ragazzina. Sentirsi appellare 'donna' a quel modo sulla Riario ebbe un effetto ancora più potente di quanto il ragazzo avrebbe mai potuto immaginare.

Usciti dal salone, erano andati verso le scale. Il giovane aveva morbide labbra carnose e il naso dritto. Capelli curati e di un castano caldo, occhi svegli e una voce profonda che sembrava in grado, da sola, di scaldare quella notte di gelo.

Bianca voleva portarlo nella sua camera, e anche in fretta, per evitare di essere vista da qualcuno, ma quando erano arrivati al pianerottolo, lui l'aveva fermata e avevano cominciato a baciarsi.

C'era buio e silenzio, eccezion fatta per i suoni che giungevano ancora dalla sala dei banchetti.

Dapprima le loro labbra si erano sfiorate e cercate in un modo che Bianca già conosceva bene. Con alterne vicende, aveva già avuto sottomano qualche ragazzo con cui scambiare quel genere di effusioni e sapeva come gestirle. Poi, però, il soldato aveva cominciato a baciarla in modo molto diverso, più profondo e deciso, fino a spingerla contro il muro, per riuscire a far aderire meglio i loro corpi che, anche se coperti dai pensati abiti invernali, fremevano nell'avvicinarsi a quel modo.

“Sei la donna più bella che io abbia mai visto.” ribadì lui, smettendo per un attimo di baciarla, in modo da poterla guardare negli occhi.

Le iridi blu della Riario erano quasi nere, in quella luce fioca, e il suo respiro caldo sollevava un po' di vapore, che si mescolava a quello che usciva dalle narici e dalle labbra del ragazzo.

Mentre lui tornava a indagarla con i suoi baci, scendendo sul collo, Bianca sentì la sua mano forte e intraprendente indagare le sue forme sotto la stoffa.

L'avvertì dapprima sulla spalla, poi la sentì scendere, e, quasi togliendole il fiato, fermarsi sul seno, poi sul fianco e poi risalire un po', per seguire la linea sinuosa della sua schiena, fermandosi poi in modo quasi prepotente sui glutei.

Di contro, anche lei cominciò a saggiare il fisico di lui: le spalle forti, il petto ampio, il ventre piatto... Lo guardò un po' meglio, tra un bacio e l'altro, e improvvisamente si ricordò dove l'aveva già visto. Era alla rocca da poco, ma lei e la sua amica avevano già fatto in tempo a vederlo fare il bagno assieme agli altri.

Con un tocco di compiacimento che, assieme al vino, la rese ancora più sicura di sé, Bianca richiamò alla mente le immagini del giovane che si spogliava e si immergeva nella tinozza e si disse che aveva avuto fortuna. L'aveva scelto a caso, ma si trattava di uno dei migliori, più bello nudo che vestito.

I loro respiri si stavano facendo sempre più rapidi e Bianca sentiva la paura e il desiderio mescolarsi, facendole pulsare le orecchie e le vene. Avvertiva distintamente l'eccitazione del giovane uomo che aveva scelto, e ebbe un piccolo sussulto quando lo sentì sollevarle lentamente il bordo della sottana, tanto da riuscire alla fine a infilarvi sotto una mano.

Non si ritrasse, a quel gesto, anzi, si mise a baciarlo con maggior intensità, mentre lo sentiva cercare con le dita la pelle liscia della sua coscia, risalendo lentamente, cercandola con cautela, ma con decisione.

“Aspetta...” gli disse, negandogli le labbra, ma non sottraendosi alle sue mani: “Non qui. Andiamo in camera mia.”

Ciò che l'aveva fatta parlare così non era più tanto un senso di pudore o il pericolo di essere visti, ma il ricordo insopportabile della volta in cui aveva visto proprio lì sua madre assieme a Manfredi.

Non voleva essere come lei. Non da quel punto di vista, almeno.

“Sì...” sussurrò lui, sfiorandole la guancia con il naso: “Tra un attimo... Restiamo qui ancora un po'...”

Incapace di dirgli di no, Bianca gli bisbigliò un piccolo sì di risposta e poi si riabbandonò a lui, al suo fiato caldo e alle sue mani gentili, tanto che, dopo qualche minuto, complice la testa leggera per il troppo vino, nemmeno si ricordava più di Manfredi e del suo modo arrogante di chiamarla 'ragazzina'.

 

“Arrivo.” disse piano Caterina, alzandosi dal suo scranno e uscendo dalla sala.

Aveva notato che Bianca non c'era più, ma non aveva avuto il tempo di chiedersi dove fosse, che una delle serve era arrivata al suo tavolo per dirle che Bernardino stava creando scompiglio nei locali della servitù.

Assonnata e innervosita dai discorsi che aveva appena fatto con i Capitani e alcuni Consiglieri, la Tigre era arrivata al cospetto del figlio già arrabbiata.

Bernardino, così spiegò una domestica che aveva visto, si era messo a litigare con uno dei bambini della servitù e dalle parole sia lui sia l'altro erano presto passati ai fatti e in breve era nata una piccola rissa di infanti che avevano però dimostrato di sapersi picchiare come uomini.

La Contessa prese per la collottola il figlio e lo guardò fisso negli occhi. Ora che si trovava dover pagare per le proprie azioni, aveva assunto un'espressione che era la brutta copia di quella che aveva offuscato il bellissimo volto di Giacomo ogni qual volta che la moglie l'aveva dovuto riprendere per qualcosa di grave.

Avrebbe voluto sgridarlo e chiedergli spiegazioni, ma alla fine l'unico gesto che le risultò spontaneo fu uno schiaffo.

Bernardino incassò il colpo senza protestare, e senza piangere, ma il modo in cui la guardò – più stupito che contrariato – per lei fu la cosa peggiore.

“Ti ho già detto più di una volta che devi imparare a rispondere alle offese in modo diverso, non alzando le mani.” gli disse, cercando di tenere la voce controllata, mentre, nel frattempo le serve i cui figli avevano dato vita alla zuffa assieme al piccolo Feo rimbrottavano i rispettivi bambini.

Di solito, quando scoppiava qualche contenzioso tra ragazzini, le madri ne stavano fuori, ma la presenza della Tigre aveva fatto sì che tutte si preoccupassero che, non vedendo i colpevoli almeno sgridati, sarebbe stata la Contessa stessa a provvedere a una punizione. Alla rocca, lo sapevano tutti, andava mantenuta la maggior armonia possibile, soprattutto in tempo di guerra. Ogni trasgressore era un pericolo e, come tale, andava o allontanato o reso inoffensivo.

Bernardino abbassò i grandi occhi e poi, non riuscendo a trattenersi, disse: “Vorrei che mio padre fosse ancora vivo. O lui o almeno messer Giovanni.” e, prima che Caterina potesse fare altro, le scappò via da sotto al naso.

“Volete che lo rincorra?” chiese una guardia, seguendo a vista il piccolo che correva via.

La Sforza fece segno di no, e, abbattuta, decise di ritirarsi per la notte. Sapeva che suo figlio non sarebbe uscito da Ravaldino, perché aveva dato ordine di fermarlo, se ci avesse provato, e sapeva altrettanto bene che lei non sarebbe stata capace di consolarlo per la rabbia che covava nel cuore.

Andò così verso le scale, a passi tardi e lenti, le braccia lunghe contro i fianchi e le labbra strette in una riga severa.

Non c'era nemmeno Manfredi con cui cercare di distrarsi. E Giovanni da Casale era ancora a Milano, e chissà se sarebbe mai tornato a Forlì da lei. Se conosceva ancora suo zio Ludovico, era probabile che avrebbe fatto di tutto, pur di non lasciarlo andare.

Era così soprappensiero che arrivò a metà scala, prima di rendersi conto che qualche gradino più in alto c'era qualcuno. Sentiva i respiri veloci e qualche sospiro ed era facile intuire cosa stesse succedendo. In fondo, pensò, quando c'era una festa che durava tutta notte, non era insolito che qualche invitato si imboscasse nei punti più bui e tranquilli della rocca...

Non avendo alcuna voglia di imbattersi in una coppia intenta ad amoreggiare, la Sforza si apprestò a tornare sui suoi passi, quando, nel sentire qualche parola bisbigliata, riconobbe la voce della figlia.

Non sapendo che fare, preferì se non altro tentare di capire quanto in là si stesse spingendo Bianca.

L'aveva vista con dei ragazzi, qualche volta, a baciarsi nelle alcove del corridoio o cose del genere, ma ciò che sentiva le lasciava intendere che quella volta la giovane Riario avesse deciso di andare oltre.

Salendo a passo felpato qualche gradino, riuscì a intravedere meglio i due che, per quanto poteva intuire a quella luce fioca, si stavano davvero solo baciando, per quanto in un modo che preludeva inequivocabilmente a qualcosa di più compromettente.

Poteva intravedere la pelle chiarissima della gamba di Bianca, lasciata scoperta dalla sottana un po' sollevata, e stretta attorno a quella del ragazzo. Seguendo il bordo della stoffa, poteva scorgere la mano di lui che si perdeva sotto la gonna. Sua figlia, invece, teneva una mano infilata tra loro due, quasi sicuramente intenta a cercare il cavallo delle brache del soldato, se non addirittura a slacciargliele.

Con la bocca secca, in bilico tra l'andarsene, lasciandola alle sue scelte – in fondo aveva già diciassette anni, un'età in cui molte altre nobili erano madri, ed era impegnata con un uomo che aveva già detto se ne sarebbe infischiato di saperla l'amante di un altro – o il restare e l'evitarle quello che sarebbe potuto diventare un errore, Caterina restò ferma sul gradino qualche istante di troppo.

Bianca, passando una mano sulla nuca del soldato, schiuse un attimo gli occhi e, come un'ombra, intravide la madre che la fissava, in fondo alla rampa di scale.

Istintivamente, si irrigidì, fermandosi di colpo. Il ragazzo, allarmato da quell'improvviso cambiamento di atteggiamento, si accorse che la giovane stava guardando un punto oltre la sua spalla, così voltò appena il capo e vide anche lui la Tigre.

Spaventato al punto di cominciare all'istante a sudare freddo, convintissimo che la Leonessa di Romagna l'avrebbe sgozzato sul posto per essersi permesso di toccare a quel modo sua figlia, il soldato lasciò Bianca di scatto e, riallacciandosi di fretta le brache, corse via talmente veloce che la Riario non ebbe nemmeno il tempo di chiedergli cosa stesse facendo.

Rimaste sole, madre e figlia si guardarono per un minuto buono, senza sapere cosa dire o cosa fare.

“Non volevo interrompervi.” fece alla fine la Sforza, salendo gli ultimi gradini che la separavano da Bianca: “Ma ti do un consiglio.”

La ragazza, i capelli biondissimi un po' arruffati per il tocco un po' ruvido del giovane e le gote in fiamme per l'imbarazzo, fissava la madre con le labbra un po' aperte e gli occhi blu pieni di ansia.

“Se proprio vuoi farlo, cercati un uomo, non un coniglio che scappa appena vede muoversi una foglia.” proseguì la Contessa, a voce bassa.

La Riario, il sangue che ribolliva ancora nelle vene e la mente confusa, non più per il vino, ma per l'intrico in cui si era ritrovata, stava osservando con attenzione il viso della madre. La vide immensamente stanca e abbattuta.

Se di norma dimostrava molto meno dei suoi trentacinque – quasi trentasei – anni, in quel momento sembrava una donna di almeno quarantacinque.

“Hai capito quello che ti ho detto?” domandò Caterina, passandosi una mano sulle labbra, provando a scoppio ritardato l'imbarazzo che invece sua figlia aveva avvertito subito.

Bianca annuì e ricambiò il saluto della madre che, lasciandosela alle spalle, le disse: “Passa una buona notte. Da sola o con qualcuno, l'importante è che ne valga la pena.”

La Riario ascoltò i passi di sua madre allontanarsi e poi, con un respiro profondo, si posò una mano sul petto. Il cuore batteva ancora a ritmo di galoppo. E la sua mano tremava leggermente.

Decretò all'istante che per quella notte non avrebbe più provato a cercare compagnia e se ne andò in camera sua, chiudendosi dentro con tutte le mandate possibili.

Si spogliò, senza alcuna voglia di indossare gli abiti da notte. In fondo, pensò, se la Tigre non fosse arrivata a fermarli, avrebbe comunque passato la notte senza vestiti addosso. Anche se non era riuscita a farlo in compagnia, poteva pur sempre mettersi nuda sotto le coperte anche da sola.

Con la stoffa morbida delle coltrici chiare sulle pelle calda, Bianca si coricò supina, lo sguardo vitreo rivolto al soffitto. Ripensò a quello che era successo poco prima. Al sapore di quel ragazzo, alla sensazione di sentire il suo corpo sotto le dita. Chiuse gli occhi e sospirò. Non volle ripensare al modo in cui era fuggito. Da un lato lo capiva, ma dall'altro dava ragione a sua madre: era solo un coniglio.

E, piuttosto che con un coniglio, si disse, era molto meglio passare ciò che restava della notte da sola.

 

Una volta arrivata nella sua camera, la Sforza riattizzò il camino e poi prese uno dei libri di Giovanni, nell'illusione di riuscire a leggere.

Era troppo agitata per dormire, e in breve si rese conto che la sua mente era troppo in tempesta anche per riuscire a concentrarsi su delle poesie scritte in latino.

Chiuse il volume di scatto e si prese la testa tra le mani. Erano stati giorni d'inferno e quella notte, non essere capace di gestire come avrebbe voluto gli eccessi d'ira di Bernardino e l'esuberante adolescenza di Bianca l'aveva messa in crisi.

Senza volerlo davvero, tornò ad arrabbiarsi anche con Manfredi, sia per come l'aveva trattata, sia per ciò che le aveva taciuto e, purtroppo, anche per essersene andato a metà festa, impedendole così di passare poi qualche ora con lui in camera.

La stanchezza, unita al senso di essere una zattera spersa in mezzo a una mareggiata, indusse la Tigre a un pianto dirotto, tanto violento da toglierle quasi il respiro.

'Se ci fosse ancora Giovanni – era l'unica cosa che riusciva a pensare – saprebbe che fare, avrebbe saputo dire la cosa giusta a Bernardino e comportarsi nel modo giusto con Bianca. Saprebbe dirmi come muovermi con Firenze e con Milano, come risolvere la questione con Bologna e come scrollarmi di dosso Faenza...'

Come un altro ferale colpo basso, si ricordò pure che il giorno appresso, il 26 dicembre, sarebbe anche stato l'anniversario della morte di suo padre, trucidato mentre andava alla Messa di Santo Stefano, ventidue anni prima.

Il cuore stretto in una morsa d'acciaio, che altro non era se non il senso di ingiustizia che sentiva da sempre nell'animo, Caterina si sentì pervadere dal bisogno di non pensare a nulla. Rifiutò sul nascere l'idea di drogarsi di nuovo, come aveva fatto alla morte di Giacomo. Era troppo rischioso e pericolo di cadere nel baratro e non uscirne più era troppo alto. Non voleva nemmeno macchiarsi di qualche delitto. Uccidere, lo sapeva anche troppo bene, lavava la sua ira nel sangue, ma l'effetto era troppo effimero.

L'unica altra alternativa era trovarsi un uomo con cui dimenticarsi di tutto per una parentesi di qualche ora.

Sentendosi appesantita dalla grevità della sua condizione mentale, così precaria da rischiare un tracollo, la Contessa si alzò con gesti automatici, quasi fosse un pupazzo, e uscì dalla camera, in cerca di una preda che potesse soddisfare la sua fame.

Siccome erano quasi tutti alla festa, i baraccamenti dei soldati erano praticamente deserti e quindi il suo campo di scelta fu ridotto, ma riuscì comunque a trovare qualcuno che potesse fare al caso suo.

Era giovane, molto giovane, ma aveva già un corpo ben delineato e la Tigre non si premurò di chiedergli quanti anni avesse finché non l'ebbe portato in stanza.

Gli aveva chiesto le solite cose, ovvero se fosse impegnato o meno e se fosse una recluta o un soldato d'esperienza. Sputo che era libero e che era alla rocca da poche settimane, a lei era andato bene.

Però, quando lo guardò meglio, alla luce del camino appena acceso della sua tana, si rese conto che quella che aveva pensato fosse una barba molto chiara rasata male, era in realtà un accozzaglia di primi peli castani, e che le forme guizzanti che l'avevano attratta erano quelle di un ragazzo più che di un uomo.

“Quanti anni hai?” gli chiese, fermandosi un momento davanti a lui.

Non aveva ancora osato nemmeno baciarlo. Doveva ammettere che fosse davvero bello, con tranquilli occhi nocciola e tratti del viso molto regolari. Era più alto di lei e prometteva, un giorno, di diventare un uomo molto robusto e forte.

“Sedici.” disse piano lui, quasi con timore: “Tra un paio di mesi ne faccio diciassette.” soggiunse poi, nel terrore di vedersi rifiutare.

Quando aveva capito che la Contessa voleva lui, si era ritenuto il giovane più fortunato della terra.

Aveva sentito spesso parlare di quell'abitudine della Leonessa, ma non aveva creduto che lui, appena arrivato e tanto giovane, avrebbe potuto attirarne l'attenzione.

“Io ne ho quasi venti più di te.” disse con una sfumatura di tristezza Caterina, accarezzandogli la guancia ancora quasi imberbe e lasciando scivolare le dita sul suo petto coperto solo da una camicia un po' logora che aveva, probabilmente, indossato tutto il giorno e avrebbe tenuto anche per dormire.

“A me non importa.” ribatté subito lui, osando posare una mano su quella della Tigre.

La donna osservò le dita lunghe e fresche del ragazzo. Giacomo, quando l'aveva amata la prima volta, non era molto più vecchio di lui. Però le dava una strana impressione pensare che il ragazzo che aveva difronte fosse più giovane di Bianca...

“Hai mai avuto una donna?” gli chiese, ancora indecisa se tenerlo buono per quella notte o se mandarlo via e cercarsi qualcuno di più maturo.

“No.” confessò lui, che si sentiva così attratto dalla Contessa che avrebbe fatto ormai qualunque cosa, pur di averla.

'Nemmeno Giacomo aveva mai amato nessuna donna, prima di avere me' pensò la Sforza, guardando meglio la figura per intera del soldato.

“Meglio così.” gli disse allora, sciogliendo finalmente il suo riserbo.

“Vi giuro che non sarò sarò all'altezza e che non sarò una delusione.” cominciò a dire lui, impastandosi un po' con le parole.

“Non fare mai questo genere di promesse – lo redarguì la Tigre – sono pericolose.”

Il ragazzo annuì e, da lì in poi, per la Sforza fu semplice guidarlo alla scoperta della passione. Dal canto suo, il soldato era un alunno duttile e dall'apprendimento rapido. Un po' com'era successo anche la prima volta con Giacomo, la mancanza di esperienza del giovane non fu un ostacolo, tutt'altro. Il suo entusiasmo riempì la notte di Caterina come forse nient'altro avrebbe potuto fare e quando finalmente ne ebbero entrambi abbastanza, la donna si mise sotto le coperte, il suo nuovo amante aggrappato a lei, come se non volesse lasciarla andare mai più.

La stringeva a sé, baciandole ancora di continuo i capelli, le orecchie, le guance e il collo e, se solo non fosse stata sfinita, la Contessa avrebbe preteso ancora di più da lui.

Ricordava il suo Giacomo, a diciassette anni. Non era mai stanco. Poteva chiedergli di tutto e lui non aveva mai problemi a soddisfarla. Di certo anche quel ragazzo non sarebbe stato da meno, ma, ora che la fame del corpo era stata placata, a Caterina di lui non importava più nulla.

“Ho sonno, adesso.” sussurrò la Tigre, scorgendo nei riflessi della finestra le prime avvisaglie del sole che tentava di farsi varco anche tra le nubi cariche di neve: “Voglio restare sola.”

Il soldato si prese ancora un momento, la baciò ancora qualche volta, e alla fine, capendo che quello era un ordine e non più solo la richiesta di un'amante, si mise a sedere e poi si alzò.

La Sforza allora si voltò verso di lui, guardandolo mentre si rivestiva. Benchè fosse ancora tanto giovane, le aveva dimostrato di saper amare come un uomo. Lo squadrò con minuziosità mentre si infilava il camicione, tornando a celare i muscoli già ben definiti e la schiena dritta, ancora così morbida al tatto. Poi, mentre si chinava un po' per raccogliere e mettersi le brache, la Contessa indugiò molto sul fondoschiena e sui fianchi.

Quando fu del tutto rivestito, perse di nuovo ogni minimo interesse e volle lasciarlo con un ultimo avvertimento. Aveva visto che il suo sguardo era cambiato, rispetto alla sera prima. C'era una luce diversa nelle sue iridi, un tocco di sicurezza e baldanza che quasi stonava, con la delicatezza dei suoi tratti.

Schiarendosi la voce lo guardò ancora una volta con intensità e gli disse: “Sappi che non basta qualche ora d'amore per fare di un ragazzo un uomo.”

Il giovane annuì e poi, in modo troppo simile a come aveva fatto una decina di anni prima Giacomo, si slanciò un'ultima volta sul letto e le diede ancora un bacio.

Caterina accolse le sue labbra, finendo però con il morderle, senza forza né cattiveria, ma usando un modo assai diverso da come era solita baciare il suo secondo marito. E l'aveva fatto non a caso.

Il soldato, per nulla sconfortato da quel piccolo morso, le sorrise e poi le assicurò: “Non dimenticherò mai questa notte.”

La Contessa sollevò appena il mento, le labbra increspate in un sorriso spento. Non trovando né risposte né reazioni alle sue parole, il giovane fece un respiro profondo e poi uscì dalla camera, lasciandola da sola a crogiolarsi nei ricordi.

Mentre spuntava il primo sole dell'alba, la Tigre si assopì, la mente divisa tra il ricordo della prima notte di passione con Giacomo, e quella, molto più recente, con Giovanni. Le lenzuola e i cuscini portavano addosso il sentore del soldato che se n'era appena andato, ma nel suo animo, abbandonando il viso sul guanciale, Caterina sentiva il profumo selvaggio e rustico di Giacomo e quello rassicurante e dolce di Giovanni.

Con davanti agli occhi le immagini dei due unici uomini che avesse mai amato davvero che si fondevano in un'unica figura, la donna scivolò nel sonno e, dopo tanto tempo, riuscì a rivivere in sogno alcuni dei momenti più belli della sua vita, tralasciando, almeno per quel Natale, quelli più brutti.

 
   
 
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