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Autore: _Agrifoglio_    26/09/2018    19 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Lachesi avvolge il filo intorno al fuso e attribuisce a ogni uomo un destino
 
Palazzo Jarjayes, alle otto di mattina del quindici agosto, era un tripudio di suoni e di colori. Cameriere e valletti si affaccendavano per i corridoi e per le scale, intenti a recare ai loro padroni vestiti, scarpe, gioielli, nastri, ornamenti e tutto l’aiuto necessario per abbigliarsi elegantemente.
Oscar e il Generale avevano indossato entrambi l’alta uniforme mentre Madame de Jarjayes si era fatta confezionare un completo di seta color malva, decorato con motivi floreali di una tinta lievemente più scura di quella della stoffa. Il corpetto era chiuso da nastri di seta viola chiaro e pure di viola chiaro erano le increspature a forma di spirale che impreziosivano la sottogonna e la gonna, quest’ultima terminante con una balza. Al collo, alle orecchie, ai polsi, alle dita e sul capo della nobildonna, risplendeva una parure di perle, brillanti e rubini.
Marie Grandier si era cucita un abito di seta bordeaux molto semplice, composto da una gonna, da una sottogonna e da un corpetto tenuto chiuso, sul davanti, da alamari neri. L’unico ornamento che impreziosiva l’insieme era un fichu di seta color écru, bordato di pizzo, che le fasciava le spalle e il decolleté, fermato, all’altezza del seno, da un cameo. In testa, aveva una cuffietta di seta e di pizzo dello stesso colore del fichu.
André si era rivolto al sarto del Generale e di Oscar, da cui si servivano anche Fersen e Girodel e, sulle prime, dato lo scarso tempo a disposizione, aveva deciso di acquistare un modello preconfezionato da fare adattare alla propria persona. Il Generale, però, aveva insistito affinché il giovane si facesse cucire un completo ex novo, usando alcune delle stoffe donategli dalla Regina e aveva espressamente chiesto che fossero il sarto e gli assistenti di lui a recarsi a Palazzo Jarjayes, per evitare frequenti e massacranti sedute parigine a un cliente che era stato ferito soltanto il mese prima. Il sarto, dovendo dedicarsi soltanto ad André e a pochissimi altri clienti – anche Fersen e Girodel, infatti, avrebbero indossato l’alta uniforme – in un tour de force di cinque giorni e cinque notti, aveva creato uno dei suoi capi migliori.
Il risultato di tali sforzi fu che, la mattina dell’Assunzione, André indossava un completo formato da giustacuore e calzoni sotto al ginocchio, di seta damascata verde smeraldo, decorata da ricami dorati e calze e gilet color avorio. Il gilet era ricamato con fili di seta della stessa tonalità di verde del giustacuore e dei polpes. Al collo aveva avvolto un jabot di pizzo color avorio, fermato dalla spilla di smeraldo e brillanti donatagli, due settimane prima, dal Generale. I capelli, che erano leggermente cresciuti nel corso dei due mesi e mezzo di convalescenza, nonostante l’affaticamento patito dall’organismo, avevano serbato morbidezza e luminosità ed erano annodati in un codino corto da un nastro di seta verde come il vestito. L’effetto complessivo era un’eleganza sobria e ricercata, velata di soavità anche perché, in conseguenza delle due convalescenze ravvicinate, il volto del giovane era leggermente dimagrito, così da fare risaltare gli occhi che sembravano divenuti più grandi e che avevano acquisito un’espressione malinconica e pensosa. L’unica imperfezione dell’insieme era costituita dall’assenza di una spada, ma André non aveva ritrovato la sua e non aveva voluto sostituirla con un’altra.
– Oh, André, sono molto dispiaciuta di non aver potuto pensare anche al tuo abito, ma devo dire che il completo che ti ha cucito il sarto è splendido! – disse la vecchia Marie, incrociando il nipote nell’atrio del palazzo.
– Nonna, sono contento che tu non ti sia affaticata, ma dov’è Oscar?
– Si sta preparando nelle sue stanze…. Oh! Eccola!
André si voltò verso la scalinata monumentale e vide Oscar, in cima ad essa, scendere verso di loro, con passo leggero, ma, allo stesso tempo, deciso. Il candore dell’alta uniforme risplendeva alla luce del mattino, incorniciando il pallido incarnato di lei, ma ciò, anziché evidenziare un difetto, esaltava il fascino di quella figura eterea e diafana, esile e forte al tempo stesso. Un tempo, Girodel l’aveva definita “silfide” e non aveva sbagliato. André la ammirava con le labbra semi socchiuse e lo sguardo estasiato.
– Bene, direi che possiamo andare – disse la nuova arrivata – Nanny, oggi, ci superi tutti in eleganza. André, un rospo ti ha mangiato la lingua? – e rise allegramente.
Subito dopo, anche il Generale e la Contessa scesero dalla scalinata e tutti presero posto nelle carrozze da cerimonia di Casa Jarjayes.
 
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Il Cardinale Louis Joseph de Montmorency Laval, Grande Elemosiniere di Francia e Arcivescovo di Metz, celebrava la messa nella Cappella Palatina di San Luigi IX, con l’austera severità di un grande aristocratico consacrato a Dio ed elevato alla porpora. La lenta sacralità dei canti liturgici, la millenaria solennità del latino e il pungente e mistico profumo dell’incenso, diffuso dai bracieri in piccole nubi ed esaltato dal caldo, si effondevano nelle alte volte dell’edificio, vagando fra l’oro e l’azzurro dei soffitti affrescati, la marmorea policromia dei pavimenti, i classicheggianti archi e le svettanti colonne corinzie.
Il candore degli archi e delle colonne, che separavano la navata centrale da quelle laterali, incorniciava l’altare maggiore, scintillante di oro e serpeggiante di volute. L’organo a canne barocco, che sormontava l’altare, accompagnava la liturgia con musiche gravi e cupe che inducevano al silenzio e al raccoglimento anche il più frivolo e ciarliero dei cortigiani.
In quella torrida giornata di metà agosto, le imponenti mura dell’edificio sacro offrivano un parziale refrigerio ai fedeli lì confluiti per presenziare alle celebrazioni della festa dell’Assunzione e che, successivamente, si sarebbero riversati nel Salone di Apollo, ove avrebbe avuto luogo la cerimonia in onore dei prodi ufficiali che li avevano strappati alla collera di un’erinni e al gelo della morte. Gli occhi di tutti erano fissi su Oscar François de Jarjayes, sul padre di lei, sul Colonnello Victor Clément de Girodel e sul Conte Hans Axel von Fersen che sedevano nella navata centrale, ai posti d’onore, non lontani dal Re e dalla Regina. Madame de Jarjayes si trovava dietro di loro, accanto alla Principessa di Lamballe e a Mademoiselle de Chambord.
Dall’alto matroneo, delimitato dalla balaustra e solcato dalle colonne, ove erano saliti per non attirare l’attenzione, dato il loro modesto rango, una nonna e un nipote guardavano verso il basso, desiderosi di non perdere un particolare della solenne e antica liturgia. Gli occhi schermati di vetro di lei fissavano la bambina che avevano imparato a vezzeggiare. I laghi di ossidiana di lui contemplavano la donna che si erano imposti di non amare.
 
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Il profano era succeduto al sacro, nella mattina inoltrata della festa dell’Assunzione. Finita la funzione religiosa, i cortigiani avevano abbandonato la Cappella Palatina di San Luigi IX e si erano riversati nel Salone di Apollo, dove avevano ritrovato brio, loquacità e attitudine al pettegolezzo. Le donne avevano tolto i veli dalle teste e gli scialli dalle spalle ed esibivano le loro gemme e le loro scollature. I bracieri non diffondevano più nell’aria l’incenso, ma essenze di muschio, di ambra, di mirra dolce e di bacche di ginepro. Il candore della cappella aveva ceduto il passo al porpora delle pareti e all’oro dei soffitti e delle alte torciere di argento dorato della sala del trono.
Dal grande tondo del soffitto, raffigurante il dio Apollo a bordo del carro del sole e circondato da lunette anch’esse affrescate, pendeva un enorme lampadario di cristallo. Un gigantesco e prezioso tappeto ricopriva il pavimento marmoreo, offrendo un soffice contatto agli scarpini da cerimonia dei cortigiani. Sopra il monumentale camino, il ritratto di Luigi XIV dominava la sala, fissando gli astanti con un’espressione bonaria e sorniona, impressa su un volto pingue, contornato da una criniera corvina. In cima a due scalini e affiancato dalle torciere, era collocato il trono, ornato di velluto ricamato d’argento, giacché si era in estate e sormontato da un imponente baldacchino. Non era lo spettacolare trono d’argento commissionato dal Re Sole e da lui fatto fondere per finanziare la Guerra della Grande Alleanza, ma un surrogato di esso che, tuttavia, in nulla menomava lo splendore dell’insieme.
Il brusio incessante e, di minuto in minuto, più fitto, era solerte testimone della curiosità e dell’allegra vivacità dei cortigiani. Molti di loro fissavano Oscar che, a trentadue anni, stava per diventare Maggior Generale e che si comportava col solito distacco, come se tutto ciò non la riguardasse o le fosse semplicemente dovuto. Alcuni provavano ammirazione per quell’inusuale atteggiamento, altri incredulità, altri, ancora, fastidio. Un nutrito gruppo di nobili sfogava, invece, la propria curiosità sul Conte di Fersen e si era riproposto di non staccare gli occhi da lui, dalla Regina e anche dal Re, quando fosse arrivato, per il gentiluomo svedese, il momento di essere insignito della Croce di San Luigi. Molte dame guardavano insistentemente André, magnifico nel suo completo verde, stupite dall’insolita eleganza dell’ex attendente di Madamigella Oscar e rammaricate per il fatto che tanta bellezza fosse sprecata in un figlio del popolo. Meno scrutato era il Colonnello de Girodel che, pur essendo notevolmente bello, possedeva innato il dono della discrezione, così da riuscire a schivare gli sguardi più insistenti. Gli occhi di Mademoiselle de Chambord, però, erano tutti per lui.
Erano in pochi a non partecipare al buonumore generale. Uno di questi era il Duca d’Orléans che non aveva ancora digerito gli onori che sarebbero stati tributati alla famiglia de Jarjayes. Un altro era il Duca di Germain, anch’egli infastidito dai successi dell’antica rivale e da sempre convinto che un’espressione ragionevolmente disgustata fosse sicuro indice di notevole distinzione.
Marie Grandier, dal canto suo, era in piena concitazione e poco mancò che venisse alle mani con un valletto, reo di averle chiesto, in modo un po’ brusco e frettoloso, di stazionare in un punto della sala dove non avrebbe ostacolato il passaggio degli altri. L’anziana donna lo aveva apertamente accusato di essere uno zotico, indegno di mettere piede finanche nei porcili della reggia e, quello, di rimando, avendo appreso il basso rango della sua detrattrice, non perdeva occasione per urtarla, tutte le volte che le passava accanto.
– Nonna, renditi conto che non puoi aggredire tutti quelli che ti capitano a tiro, in primo luogo, perché non sono tuoi parenti, in secondo luogo, perché hai lasciato il mestolo a casa e sei disarmata!
– Taci, screanzato!
A un tratto, il silenzio ingoiò ogni suono, imponendosi con una solennità fatta di vuoto e il Re entrò nella sala, seguito dalla Regina che prese posto davanti a una poltrona, collocata alla base degli scalini.
Il Re era vestito con un abito bianco come le scarpe ed era avvolto da un manto di velluto blu, ricamato con grandi gigli di Francia dorati. Il mantello, a sua volta, era ricoperto, nella parte superiore, da una candida stola d’ermellino.
La Regina indossava un completo di seta lucida, formato da un corpetto beige e oro, con maniche di pizzo bianche, bordate d’oro, da una sopragonna anch’essa oro e da una sottogonna beige, con ricami aurei, così come color oro era la balza che delimitava la parte inferiore della sottogonna. Alle spalle, era appuntato un mantello di seta oro, culminante in uno strascico della lunghezza di un metro. D’oro cesellato erano la collana, i bracciali, gli orecchini e il diadema.
Quando il Re si fu finalmente assiso sul trono, anche la Regina sedette e tutti i cortigiani e i dignitari rimasero in assoluto silenzio, desiderosi di non perdere una sola parola del discorso di lui. Luigi XVI – che era timido di natura, non amava le situazioni che lo ponevano al centro dell’attenzione e, in quel particolare frangente, pativa pure il caldo, accentuato dagli ingombranti abiti da cerimonia, emblema poco estivo di secolare regalità – arrossì violentemente e iniziò a parlare in modo appena percettibile e decisamente confuso. Dopo alcuni istanti, l’eloquio si normalizzò per tono di voce e scorrevolezza e le gote regali dismisero il rossore. Recuperata la serenità, il Sovrano riuscì a trasmetterla all’intera sala, prodigandosi, per circa un quarto d’ora, nel fornire la versione della Casa Reale sulla situazione in cui versava la Francia. Il Re affermò che tutto era tranquillo e sotto controllo e ribadì, più volte, che l’attentato di metà luglio era da considerarsi un fatto isolato, figlio delle smanie di una straniera squilibrata e del disordine morale di una manciata di sudditi esagitati, sedotti dal demonio e resi instabili dal caldo. Rassicurò gli astanti che il processo a carico dei responsabili si sarebbe svolto nel rispetto della legge e del decoro e che le pene inflitte ai colpevoli sarebbero state eque, proporzionate ai delitti accertati e ispirate alla pietà cristiana e al senso dell’umanità. Il nome di Robert François Damiens non fu mai pronunciato, ma il pensiero di tutti corse alla truculenta vicenda che lo aveva visto, prima, protagonista e, successivamente, vittima e sulla quale la corte aveva, da sempre, tentato di stendere un velo pietoso.
– Il sacro suolo francese, per fortuna, non ospita soltanto i reprobi, ma anche i valorosi che salvarono la Corte dal massacro. Dimentichiamoci, quindi, dei primi e rivolgiamo la nostra attenzione e la nostra benevolenza ai secondi! E’ nostra intenzione che questi prodi virgulti della Francia siano ricompensati ed elevati agli onori di cui, con sprezzo del pericolo ed effusione del sangue, si resero degni.
Il Re fece una pausa breve, ma sufficiente a far aleggiare nella sala un’atmosfera di incuriosita attesa.
– Brigadier Generale Oscar François de Jarjayes, venite avanti.
Oscar si avvicinò al trono con passi militari rapidi e decisi, attutiti dal contatto col tappeto. L’alta uniforme le conferiva un’aria elegante e austera e tutti gli occhi dei cortigiani erano puntati su di lei che pareva non accorgersene. Giunta di fronte al trono, si inchinò al Re, mettendosi, poi, sull’attenti davanti a lui.
– Brigadier Generale Oscar François de Jarjayes, per avere salvato la vita della Regina e quelle di molti altri sudditi, da oggi, siete promossa Maggior Generale. Che le siano consegnati i gradi.
Madame de Jarjayes era commossa, gli occhi del Generale rivaleggiavano in lucentezza con Sirio, la vecchia Marie era sull’orlo di una crisi nervosa mentre il volto di André irradiava muto compiacimento.
Ricevuti i gradi, Oscar fece il saluto miliare al Re, gli si inchinò davanti e si allontanò, percorrendo a ritroso la sala con lo stesso aristocratico distacco di prima.
Venne, quindi, la volta del conferimento della Croce di San Luigi a Fersen e a Girodel. Deludendo le aspettative della sala, nessun particolare scambio di sguardi ebbe luogo e tutti i protagonisti della vicenda si comportarono col massimo contegno e nel pieno rispetto dei ruoli.
Fu, poi, chiamato il Generale de Jarjayes che, inginocchiato davanti al Re, dopo avere prestato il giuramento di vassallaggio, ricevette la Signoria di alcune terre nei pressi di Nevers. Sebbene fosse prossimo ai settant’anni, l’austero nobiluomo non era minimamente incurvato e solcò la sala con passo militare deciso e portamento fiero e impettito. Era sul punto di riprendere posto accanto ai suoi familiari quando fu incrociato da un paggio, figlio adolescente di un suo amico Marchese, che, con voce appena percettibile, gli sussurrò:
– Il Re ha sciolto la riserva questa mattina, dopo essersi ritirato in preghiera. Appassionatamente spronato dalla Regina, ha accolto la richiesta avanzata da Voi e dalla Contessa e perorata da Madame Élisabeth e dagli altri Vostri alleati.
Il Generale de Jarjayes ebbe un lampo di gioia, guardando in direzione, ora, della figlia, ora, di André. Ringraziato il giovinetto, tornò accanto ai familiari.
Arrivò, subito dopo, il turno delle Guardie Reali che avevano rintuzzato l’attentato. I militari furono chiamati, uno a uno, davanti al Re, ricevendo ciascuno un encomio solenne e una somma di denaro.
Ricompensata anche l’ultima Guardia Reale, l’atmosfera nella sala si stemperò, assumendo il tratto disteso e gradevole dei finali di cerimonia.
 
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I cortigiani erano soddisfatti della buona riuscita di quella mattinata celebrativa e ammirati dalla dignità mostrata dagli eroi premiati, ma anche impazienti di recarsi nella sala dei ricevimenti per concludere la giornata col sontuoso festeggiamento in programma. Erano tutti in attesa che il Re e la Regina lasciassero la sala per potersi allontanare anche loro, ma i Sovrani erano ancora stranamente fermi ai loro posti.
A un tratto, il Re si predispose a iniziare un nuovo discorso mentre la Regina guardava raggiante Oscar. La circostanza ruppe immediatamente il clima di distensione della sala, riproiettando gli astanti in uno stato d’animo di curiosa attesa e di solenne partecipazione.
– Monsieur André Grandier, venite avanti.
André rimase attonito per quell’inatteso invito e guardò Oscar che era stupita quanto lui.
I cortigiani che lo circondavano si spostarono a destra e a sinistra per consentirgli il passaggio ed egli scivolò in quel corridoio apertosi fra mura umane, procedendo meccanicamente e incoscientemente, in uno stato d’animo onirico e distante, prossimo al vuoto di coscienza. Non avvertiva più i rumori né vedeva i volti, ma era soltanto memore di quella mattina di quattordici anni prima, quando le Guardie Reali lo avevano trascinato, contuso e impaurito, davanti al predecessore dell’attuale Sovrano, per fargli udire la lettura della sentenza che lo condannava a morte. Questa volta, invece, incedeva da solo e senza strattonamenti e nessuno sguardo accigliato lo guatava da sopra il trono. Giunto davanti al Re, gli si inchinò davanti come un automa, frastornato e inebetito.
Nel frattempo, il Cardinale Louis Joseph de Montmorency Laval era entrato nella sala del trono e aveva preso posto affianco al Re.
– Monsieur André Grandier, nella mattina del 13 luglio 1788, Voi, con sprezzo del pericolo ed effusione del Vostro sangue, facendo mostra di un ardimento straordinario e di un nobilissimo sentimento ispiratoVi da Nostro Signore, salvaste la vita alla Nostra amatissima Regina Maria Antonietta, al Comandante Supremo delle Guardie Reali, Maggior Generale Oscar François de Jarjayes e alla di lei madre, Contessa de Jarjayes.
Il Re fece una breve pausa e, poi, con voce autorevole e pacata, disse:
– InginocchiateVi.
Mentre André si inginocchiava davanti al trono, il paggio, che, pochi minuti prima, aveva parlato col Generale de Jarjayes, entrò in sala, recando nelle mani un cuscino di velluto color porpora, ove era adagiata la spada di André. Un chierichetto si avvicinò al Grande Elemosiniere, porgendogli l’aspersorio e avvicinandogli l’acquasantiera e quello benedisse la spada.
Il Re impugnò l’elsa e, adagiando, per tre volte, la parte piatta della lama sulla spalla di André, con voce alta e solenne, proclamò:
– In nome di Dio, di San Michele e di San Giorgio, io ti faccio Cavaliere. Sii leale, forte, coraggioso.
Mentre il Re pronunciava la formula di rito, il Cardinale benediceva André.
Subito dopo, il Re continuò:
– Cavaliere, Vi assegno la Contea di Lille, con diritto di fregiarVi del titolo di Conte di Lille e di Pari di Francia e di trasmetterlo in perpetuo ai Vostri eredi legittimi.
Subito dopo, il Re diede un lieve schiaffo sulla gota di André, a significare che quella sarebbe stata l’ultima offesa che egli avrebbe dovuto subire senza potere chiedere soddisfazione.
Il Cardinale porse il Vangelo ad André che vi appoggiò sopra la mano destra. Contemporaneamente, un paggio gli pose davanti un foglio di carta con la formula del giuramento.
- Crederò a tutto ciò che la Chiesa insegna e osserverò i Suoi comandamenti.
- Proteggerò la Chiesa.
- Difenderò tutti i deboli, rispetterò le donne, proteggerò l’orfano e la vedova.
- Amerò il Paese dove sono nato.
- Non mi ritirerò mai davanti al nemico.
- Farò la guerra a oltranza contro gli infedeli.
- Adempirò i miei doveri feudali, se non sono contrari alla legge di Dio.
- Non mentirò mai e sarò fedele alla parola data.
- Sarò liberale e generoso con tutti.
- Sarò il campione del diritto e del bene, contro l’ingiustizia e il male.
Pronunciato il giuramento, il Re ingiunse:
– AlzateVi, Cavaliere. AlzateVi, Conte di Lille.
André si alzò, impugnò la spada in posizione perpendicolare al corpo, accostò la fronte alla lama e fece un inchino al Re e un altro al Grande Elemosiniere.
Gli astanti erano increduli e sbalorditi, le esclamazioni di stupore si susseguivano e i volti strabiliati non si contavano. Un gruppo di uomini sorresse con prontezza, trasportandolo fuori dalla sala, il Duca di Germain che era improvvisamente svenuto e non accennava a riprendersi.
Quella vecchia volpe del Generale è riuscito ad abbindolare la Regina e a fabbricarsi dal nulla un marito per quello scheletro con l’uniforme di sua figlia – pensò, con livore, la Contessa di Polignac – Dannazione, se solo ci fossimo trovati ai tempi d’oro della mia amicizia con la Sovrana, avrei potuto fare assegnare quella Contea al più giovane dei miei figli maschi!
Il domestico impudente e presuntuoso si è saputo giocare le carte con maestria! – rimuginò il Conte di Compiègne – Se dietro tutto ciò, come penso, c’è lo zampino del Generale de Jarjayes, i giochi, per me, sono finiti.
Oscar guardava André orgogliosa e incredula mentre il Generale e Madame de Jarjayes scambiavano sorrisi e cenni di intesa con i loro alleati.
La vecchia Marie aveva perso la presenza di spirito e la favella, sgranava gli occhi e teneva la bocca semiaperta come gli ebeti mentre cercava, con gesti nervosi e inconcludenti, i sali nella sua borsetta. Il valletto con cui aveva litigato – appreso il grado di parentela che la legava al neoConte – si era eclissato.
– Tutto ciò è inconcepibile! – tuonò il Duca d’Orléans, con voce collerica e stentorea che interruppe i commenti e le esclamazioni di tutti – Un plebeo, un uomo del volgo, innalzato dalle zolle di terra alla Paria di Francia senza passaggi intermedi! Farò ricorso al Parlamento di Parigi! Farò ricorso al….
– All’Ambasciatore inglese a Parigi? – lo interruppe Oscar, portandosi la mano alla giubba, come se volesse estrarne qualcosa.
Il Duca d’Orléans capì subito la malaparata e ripiegò su più miti consigli.
– Vi prego di perdonarmi, Maestà…. Sono stato precipitoso…. Il caldo…. L’emozione…. – e tornò in silenzio, incassando l’ennesima sconfitta.
Il Re e la Regina si ritirarono e i cerimonieri invitarono i cortigiani a confluire nella sala dei ricevimenti.
Quando furono vicini, Oscar e André si guardarono e si sorrisero, lui a disagio per la sua nuova posizione e lei felice, ma anche divertita.
Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, ma nessuno si azzardava ad avvicinarsi, perché la situazione era inedita e non si sapeva da che parte cominciare per trattare con quello strano individuo, passato da plebeo a Conte in un volgere di tempo pari a un battito di ciglia.
– La parabola ascendente di quest’uomo è la testimonianza inequivoca dell’imprevedibilità, ma anche della precarietà della vita – sentenziò uno.
– Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili – declamò un altro, guadagnandosi un’occhiataccia del Cardinale cui non erano sfuggiti il tono irriverente e le smorfie del volto che avevano accompagnato la citazione biblica.
Dopo qualche minuto, Oscar, con l’aria contenta e sbarazzina di quando era piccola, celiò:
– Conte di Lille, Pari di Francia, se deciderete di entrare nell’esercito, tenetemi presente per un impiego da attendente – e proruppe in un’allegra e cristallina risata.
– Con il Comandante Supremo delle Guardie Reali come attendente, mi prenderebbero per il Papa e, anzi, per un antiPapa e mi rinchiuderebbero a Castel Sant’Angelo! – rise allegramente André – Piuttosto, eri informata della mia investitura e prevedevi la reazione del Duca d’Orléans? Perché portasti con te la lettera che il Duca d’Orléans aveva scritto per l’Ambasciatore inglese a Parigi?
– E chi l’ha portata?! – esclamò Oscar.
I due si scrutarono con ilarità e, nello stupore generale, scoppiarono a ridere fragorosamente.   






 Ecco uno dei capitoli cardine della storia che le imprimerà una svolta inattesa e decisiva.
Per quanto riguarda la cerimonia dell’investitura, ho trovato informazioni soltanto su quella che aveva luogo in età medievale, epoca d’oro della cavalleria. Ho deciso di descriverla anche nel diciottesimo secolo – facendola, però, svolgere al chiuso e non all’aperto e tralasciando la parte della consegna del cavallo (se no, povero tappeto del Re!) – dando per presupposto che fosse rimasta immutata nei secoli, perché ho trovato fotografie in cui la Regina Elisabetta II appoggia la spada sulla spalla di persone inginocchiate davanti a lei e perché San Michele e San Giorgio sono i patroni della Cavalleria, come tali invocabili in ogni epoca.
La scena in cui Marie Grandier viene quasi alle mani con l’impudente valletto ha come falsariga una gag descritta da Fata Cristallina in una delle sue storie.
Per chi era in ansia per le sorti della spada, posso lanciare un messaggio rassicurante: la spada è integra, sta bene, è stata sottratta da mani amiche e ha trascorso i giorni della lontananza dal suo padrone su un cuscino di velluto, in una stanza della reggia.
Ora, però, che cosa succederà? I giochi sono davvero fatti, come pensano la Regina e i genitori di Oscar? Per scoprirlo, non resta che continuare a leggere la storia.
Grazie a tutti e, mi raccomando, fate conoscere il vostro pensiero recensendo!
 
Qui, c'è l’abito da cerimonia del Re.
 
Mentre, qui, c’è quello della Regina.
 
Qui, c’è la Cappella Palatina di San Luigi IX.
 
E, qui, il Salone di Apollo o Sala del Trono.  
   
 
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