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Autore: Signorina Granger    28/09/2018    11 recensioni
INTERATTIVA || Conclusa
[Sequel di “Magisterium” e di “Magisterium - 1933”]
Quasi trent’anni dopo sono i figli di Charlotte Selwyn, William Cavendish, Regan Carsen e i loro vecchi compagni di scuola ad essere sul punto di partire per il loro ultimo anno di scuola, anno che non trascorreranno tra le accoglienti e familiari mura di Hogwarts, bensì a Nord, nella gelida Scandinavia, nel quasi sconosciuto Istituto Durmstrang, celebre per aver formato Gellert Grindelwald e per l’ampia conoscenza sulle Arti Oscure che fornisce ai suoi studenti.
Riusciranno a superare questa prova prima di diplomarsi?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Magisterium '
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Prima di lasciarvi alla lettura, volevo condividere con voi una specie di riflessione, siete liberissime di saltarla a piedi pari per passare al capitolo, ovviamente. 
Quando, a fine Giugno, ho letto la scheda di Michael D.O. Hoax per la prima volta ho pensato una cosa che mai mi era balenata in mente in seguito alla lettura di una scheda: ho pensato cavolo, devo prendere questo ragazzo, raccontare la sua storia e dargli un po’ di felicità. 
Scrivo questo genere di storie dal 2012, sembra una vita fa e forse lo è, ho letto tante, tantissime schede e se leggete, scrivete o partecipate a Interattive sapete che le storie strappalacrime e dolorose sono all’ordine del giorno, ce ne sono almeno un paio in ogni storia, dico sempre che le autrici sono perfide solo come R.R. Martin con i propri personaggi.  
Ho letto di ogni genere di sfortuna, abbandoni, lutti, malattie difficili, famiglie divise, stupri… eppure non l’ho mai pensato per nessun altro personaggio, o almeno non nell’immediato e con tanta decisione.
E io non credo che sia perché quella di Michael è la storia più triste che io abbia raccontato esumandola da una scheda, quanto più per come mi è stata presentata: vorrei sinceramente ringraziare Phebe, che ogni volta riesce a creare i personaggi più complicati e per questo realistici che io abbia mai letto. I tuoi personaggi hanno mille particolari, mille contraddizioni, mille aspetti che non potrò mai scrivere, non cadono mai nello stereotipo o nel banale… prendono vita da soli, quasi. Sono delle persone vere, al 100%, con le mille sfaccettature che contraddistinguono tutti noi, pregi, difetti e insicurezze inclusi. 

La storia di Michael è piena di sofferenza, e quel che è peggio molto probabilmente vicina a quella di molti ragazzi in carne ed ossa del passato e del presente.  
Io mi sono innamorata di questo ragazzo, spero che possa succedere anche a voi… Perché sì, questo capitolo è tutto per lui, scusate ma volevo dare il giusto spazio alla sua storia tutt’altro che semplice.
Buona lettura




Capitolo 13


Natalia bussò alla porta con impazienza, sperando di ottenere una risposta da parte di Michael: l’amico non si era fatti vedere a lezione di Volo, e non era da lui saltare le lezioni… Senza contare che gli piacevano molto quelle di Volo, anche se non giocava a Quidditch stare in sella ad una scopa, librandosi a mezz’aria, era una sensazione meravigliosa a sua detta.

Non udendo alcuna risposta la ragazza esitò ma alla fine entrò, dicendosi che forse il ragazzo si era tolto gli orecchini.
Natalia appurò però con sconforto che la stanza era vuota, fatta eccezione per Achille che le andò incontro scodinzolando.

“Ciao bello… Ma che fine ha fatto Mich, eh? Non lo trovo da nessuna parte, sai?” La ragazza sospirò mentre si chinava leggermente per accarezzare il grosso cane, chiedendosi sinceramente dove potesse essere: non era in Biblioteca, in camera sua, nel Dormitorio e nemmeno nella Sala del Ristoro. Aveva anche controllato in Infermeria, ma niente, e nessuno l’aveva visto dopo di lei, a quanto sembrava.
Le sue parole l’aveva o irritata non poco, certo, ma non poteva proprio fare a meno di preoccuparsi per lui.

E l’ultima cosa che le aveva detto era che sarebbe andato a fare una passeggiata. 
Gli occhi di Natalia saettarono sul baule aperto del ragazzo, cercando con lo sguardo il mantello della divisa senza però trovarne traccia. E nemmeno della sua sciarpa viola, ma in compenso la borsa del ragazzo era sul letto.

Possibile che dopo un paio d’ore fosse ancora fuori? 
La ragazza si voltò di scatto verso la finestra della stanza, impallidendo leggermente: entro meno di un’ora sarebbe già stato buio, fuori. Per non parlare delle temperature.

Decisa a non perdere altro tempo, Natalia abbassò lo sguardo sul cane prima di parlare, facendogli cenno di seguirla:

“Achille? Vieni, andiamo a cercare Mich.”

La ragazza uscì di corsa dalla stanza con il cane al seguito, correndo a prendere il suo mantello prima di andare a cercare l’amico.


*


Michael imprecò, senza nemmeno provare a trattenersi – se non altro, nessuno poteva sentirlo – e persino nella sua lingua madre anziché in tedesco. Arrancò sulla neve e, ancora una volta, crollò in ginocchio al suolo, tremando da capo a piedi.
Il suo braccio destro si muoveva senza il suo controllo, non riusciva definitivamente più a sentirlo e fu difficile rimettersi in piedi, con la protesi quasi traballante.

Si diede ancora una volta mentalmente dell’idiota, oltre a sentirsi profondamente sconfortato per il suo non riuscire a fare neanche una passeggiata, ma fu grato di non essere riuscito a ricoprire una grande distanza prima di essere costretto a fermarsi.

Alzò lo sguardo, sentendo le dita congelate sotto i guanti, e osservò la sagoma del castello. Non era molto lontano, ormai, ma c’era già molta meno luce rispetto a quando era uscito, e presto sarebbe stato totalmente circondato dal buio.

Dom sospirò, alzandosi stringendo i denti prima di muovere qualche altro passo incerto. 
Aveva già fatto abbastanza strada, dopotutto, poteva farcela. Doveva farcela, anche se il dolore sembrava acuirsi ad ogni passo che muoveva.

Era sopravvissuto ad un tremendo incidente, dopotutto, quando era solo un bambino piccolo. Non poteva permettersi di non farcela quel giorno.


*


La polizia e i vigili del fuoco non riuscirono ad estrarre dalle macerie del vagone, praticamente distrutto per intero, che un bambino di tre anni e una valigia malridotta su cui spiccava il nome ricamato “Michael D.O. Hoax”. 
C’erano state molte vittime nell’urto e i genitori del bambino non si trovarono, così fu quello il nome che scelsero di attribuirgli visto che ovviamente non aveva documenti con sè. 

A trovarlo fu una donna, che sentì dei lamenti e un pianto sommesso. La dottoressa seguì la direzione del pianto con il cuore in gola, sentendosi pervadere da una terribile sensazione d’angoscia quando vide un bambino piccolo sanguinante, tremante e incastrato sotto il peso non indifferente di una specie di lastra di metallo.

  “Oh mio Dio… venite qui, c’è un bambino, dobbiamo tirarlo fuori da qui!”

Non fu facile e nemmeno rapido, ma il piccolo Michael venne liberato e portato immediatamente in ospedale, dove i medici appurarono che l’enorme boato dell’impatto del vagone aveva causato al bimbo la perdita dell’udito. Ovviamente non sapeva né leggere né scrivere, e non poterono porgli alcuna domanda, ma stimarono la sua età intorno ai tre anni e fecero di tutto per ricucirlo al meglio e salvare la gamba destra che era rimasta bloccata sotto il peso, ma invano. Michael era rimasto incastrato con tutta la parte destra del corpo e rischio di perdere anche il braccio, ma i medici si limitarono ad appurare che anche se l’avevano salvato difficilmente avrebbe potuto funzionare come un braccio normale e completamente sano, in futuro. 

La polizia stimò che i suoi genitori fossero morti nell’incidente e il bambino, dopo aver trascorso un paio di settimane in una stanza del reparto di pediatria, coccolato da tutte le infermiere, venne trasferito nell’orfanotrofio a più vicino, nei pressi di Putj.
Fu così che Michael arrivò in quella che per i sette anni successivi sarebbe stata la sua casa: la Baita.


*


Stava camminando da circa una mezz’ora quando trovò finalmente Michael. 
Fu Achille a trovarlo, in realtà, e la ragazza lo sentì abbaiare prima che il cane corresse verso qualcosa che inizialmente Natalia riconobbe come “un ammasso di tessuto rosso”. Un ammasso di tessuto rosso che fortunatamente spiccava sulla neve come una goccia di sangue su un foglio di carta e che Lia riconobbe come un mantello della divisa, identico a quello che anche lei indossava.

“Mich.”

Dapprima Natalia lo sussurrò, gli occhi sgranati, deglutendo a fatica. Dopodiché forse lo urlò quando iniziò a correre come mai in vita sua per raggiungere l’amico steso a terra, a cui Achille dava dando qualche colpetto con il peso sulla spalla, guaendo e lasciandogli qualche leccatina sul viso.

“Ciao bello…” nonostante non si sentisse più le labbra – ormai quasi blu – Michael riuscì ad abbozzare un sorriso e a mormorare quelle parole – era possibile congelarsi la voce? Dopo quel giorno, avrebbe risposto di sì – prima che anche Natalia lo raggiungesse, quasi gettandosi sulla neve per abbracciarlo. 
Anche Natalia tremava, ma Michael ebbe la sensazione che non fosse solamente per il freddo mentre la ragazza lo stringeva tenendogli le braccia intorno al collo, il viso premuto contro la sua testa. 

“Che cosa stai facendo?! Che cosa ci fai qui fuori Mich?! Ti ho cercato ovunque stupido idiota, vuoi farmi morire di paura per caso?!”

Dopodiché pronunciò qualche parola – forse imprecazioni o insulti – in ceco e allontanò leggermente il viso dal suo, sfiorandogli la pelle pallida e secca con le dita guantate mentre lo guardava con occhi quasi lucidi.
Michael aprì la bocca per dire qualcosa, ma non riuscì a farlo e si limitò a guardarla di rimando, il cappuccio tirato sulla testa come il suo, il volto pallido ma con labbra e guance arrossate dal freddo e i capelli ramati sparsi sul bordo di pelliccia. 

Di rado era stato felice di vederla come in quel momento, ma non glielo disse mentre la ragazza lo aiutava ad alzarsi, chiedendogli se riuscisse a camminare.
Michael scosse il capo ed evitò di guardarla mentre Lia, al contrario, lo scrutava com attenzione, preoccupata: era pallidissimo, le labbra viola, era gelato al tatto, tremava e i suoi occhi, che cambiavano colore acquisendo quello di ciò che lo circondava, erano quasi bianchi.

“Non preoccuparti, torniamo a scuola in un attimo, eri tornato indietro quasi del tutto. Vieni Achille.”


Michael iniziò a muoversi, appoggiato a Lia, e pensò allo sforzo che stesse facendo l’amica. 
Non si oppose, certo, ma pensò a quanto fosse sempre un disturbo, una specie di zavorra da portarsi appresso, mentre l’amica lo conduceva verso il castello, facendo uscire al contempo del vapore caldo dalla sua bacchetta e indirizzandolo verso di lui. 

Dovette perdere coscienza, in certi momenti – e da quel che ne sapeva, era uno dei sintomi dell’ipotermia –, seppe solo che ad un certo punto Natalia spalancò la porta d’ingresso con una spallata e lui si lasciò sfuggire una specie di verso indefinito, ma sollevato, prima di scivolare sul pavimento di pietra.

Alcuni studenti presenti nell’atrio si avvicinarono ai due, mormorando incuriositi e preoccupati, ma Natalia non ci badò e si inginocchiò vicino all’amico, mormorando che l’avrebbe portato in Infermeria.
A quelle parole però il ragazzo scosse il capo, respirando affannosamente e mormorando che no, non voleva andarci. Che voleva lei e basta.

“Mich, non posso…”
“NO!”

Michael scosse il capo, e Natalia – temendo che sprecasse tutte le energie che gli erano rimaste per parlare e agitarsi – sospirò prima di alzarsi e aiutarlo a fare altrettanto, ringhiando ai presenti di levarsi di torno e di farli passare mentre si dirigeva verso la Camerata dei Draghi. E mai come in quel momento fu grata del fatto che si trovasse al piano terra.


Una volta, da bambina, era andata a sciare e dopo essersi allontana dai genitori era caduta su una discesa, ed era rimasta incastrata nella neve per più di mezz’ora. Non l’avrebbe mai dimenticato, e per fortuna ricordava anche che cosa le avevano fatto per rimetterla in sesto, visto che anche Dom mostrava molti segni dell’ipotermia, dall’intorpidimento, alla pelle secca e ghiacciata, al respiro lento e quasi affaticato.

“Ok, resisti Mich, andrà tutto bene… FUORI DALLE MITCE, VOI!” 

Nessuno ebbe molta voglia di mettersi sulla traiettoria della ragazza di fronte al suo gentile invito, e Natalia riuscì a portare facilmente Dom fino alla sua camera con uno dei suoi compagni, Hans, al seguito:

“Che cosa gli è successo?!”
“È rimasto fuori al gelo per credo un paio d’ore… aiutami a metterlo sul letto.”

Hans obbedì e aiutò la ragazza a far stendere il compagno sul letto, guardando Michael chiudere gli occhi quasi con sollievo prima di parlare con tono dubbioso:

“Gli prepariamo un bagno caldo?”
“No, non bisogna far salire la temperatura troppo in fretta, l’acqua può essere al massimo tiepida, e non dobbiamo nemmeno dargli bevande alcoliche per scaldarlo o strofinare e massaggiare le parti colpite, non subito, procurami un termometro.”
“E dove…”
“NON SO, trovalo Hans, diamine!” 

Il ragazzo sobbalzo di fronte al tono della rossa, che sfilò il mantello a Michael e lo lasciò scivolare sul pavimento prima di puntare la bacchetta verso il camino e accenderlo, mandando le regole a farsi benedire.

Achille li raggiunse e appoggiò il muso sulla gamba sinistra del padrone, l’aria triste, e Natalia stava sfilando il maglione al ragazzo con un po’ di fatica quando gli chiese di chiamare Packy. 
Il ragazzo, che aveva gli occhi aperti ma vacui, obbedì con voce flebile e un attimo dopo l’Elfo era nella stanza, guardando il padroncino con i grandi occhi gialli spaventati:

“Boss! Che cosa è successo, Miss Natalia?!”
“È in ipotermia, Packy, ma starà bene. Tu però mi devi aiutare, ok? Devi portarmi un tè caldo zuccherato, e del cioccolato. Zuccherato, mi raccomando.”

Packy annuì prima di sparire con un piccolo scoppio, proprio mentre Natalia riusciva finalmente a sfilare anche il maglione all’amico. Portò i vestiti, la sua sciarpa inclusa, davanti al camino e poi ne appellò altri di caldi dal baule dell’amico insieme ad alcune delle cose che sua madre le mandava periodicamente da casa.

La borsa dell’acqua calda e le due boccette di unguento schizzarono nella stanza insieme ad Hans, che porse il termometro alla ragazza con il fiato corto, come se avesse corso.

“Ok, eccolo… adesso che si fa?”
“Riempi questa, e portami degli asciugamani.”

Natalia gli consegnò la borsa dell’acqua calda con un gesto brusco prima di sorridere dolcemente all’amico, sfiorandogli l’attaccatura dei capelli chiari:

“Ehy… starai subito meglio, ok?”
“P-posso fare da solo…”
“Scordatelo, è una cosa seria, e dopo chiamerò l’infermiera, non illuderti. E ora tieni questo.” Natalia gli infilò senza tante cerimonie il termometro sotto il braccio prima di abbassare lo sguardo sulla fila di bottoni della camicia bianca del ragazzo. Bottoni che avrebbe dovuto sfilare dalle asole per togliergliela e mettergli vestiti caldi e asciutti.

Natalia esitò, arrossendo leggermente. 
Oh, andiamo, erano solo bottoni, no?

“Mich, ti devo… togliere la camicia.”
“No.”
Mich, se possibile, impallidì ulteriormente e scosse vigorosamente il capo, allontanando la mano che la ragazza allungò timidamente e guadagnandosi un’occhiata truce mentre Hans faceva ritorno con borsa dell’acqua calda e asciugamani.

“Fatto.”
“Grazie Hans, avvolgila in un asciugamano, poi lasciala sul comodino. Mich, non fare la ragazzina pudica, dopo tutte le battutine spinte che fai non te lo concedo! Perciò adesso ti toglierò la camicia.”

“No, non puoi! Non voglio che tu lo faccia.”
Michael si dimenò leggermente, scuotendo il capo con decisione e una nota disperata nella voce che fecero sospirare la ragazza, aggrottando la fronte e mettendosi le mani sui fianchi:
“Guarda che non mi voglio appropriare della tua virtù, sai?! E smettila di parlare! … Ecco, hai 28º corporei, sei in piena ipotermia moderata, non puoi fare storie.”

Michael a quel punto venne salvato dall’arrivo di Packy, che lasciò sul comodino un vassoio con tè e cioccolato mentre Hans, intuendo aria di tempesta, se la filava saggiamente.

“Grazie Packy. Ecco, se ce la fai bevi questo.” 
Natalia sedette sul materasso, accanto all’amico, e gli porse la tazza aiutandolo a sorseggiare lentamente il thè prima di appoggiargli la borsa dell’acqua calda coperta dall’asciugamano sul petto con delicatezza, coprendolo poi con le due coperte del ragazzo e facendone comparire un’altra. 

“Ti devo coprire la testa, mi serve un berretto… berretto, berretto… ah, eccone uno! Tieni.”
Natalia gli infilò il berretto sulla testa, decidendo che avrebbe aspettato che si addormentasse per sostituirgli la camicia. Anche a costo di dargli una botta in testa.


Dieci minuti dopo Michael era crollato, sfinito e intorpidito, e Natalia esultò mentalmente mentre gli toglieva lentamente di dosso coperte e borsa dell’acqua calda. 
Esitò, ma poi si decise e iniziò a sbottonargli la camicia, ripetendosi che doveva farlo e che lui non poteva prendersela con lei, infondo non stava facendo niente di male. 
Non era certo una specie di maniaca, dopotutto!


Quando giunse all’ultimo bottone e fece per scostargli con delicatezza la camicia dalle spalle Natalia però si fermò, gli occhi fissi su una porzione di petto del ragazzo, sulla parte destra. 
Rimase immobile per qualche istante, poi deglutì e scostò ulteriormente l’indumento, scoprendogli le spalle. E trovò delle cicatrici, alcune bianche, altre violacee, sulla spalla destra. 

Impietrita, Natalia allungò la mano per sfiorarne una particolarmente grossa e dall’aria profonda, forse un tempo era stata una ferita molto dolorosa.
Come si era procurato tutti quei segni? Era un caso che nemmeno vedesse proprio dall’occhio destro? E la sua sordità?

Aveva sempre pensato, da quando l’aveva capito, che fosse diventato sordo forse da bambino e che avesse perso parzialmente la vista magari per una strana malattia… ma forse aveva avuto un serio incidente, per avere tutte quelle cicatrici.
Cicatrici che proseguivano anche su una buona parte di braccio, quella che teneva sempre coperta, e all’improvviso Natalia desiderò di averlo ascoltato e di non avergli sbottonato la camicia. Ecco perché, allora. Sospirò, strinse il tessuto tra le mani e si mordicchiò il labbro, sentendosi profondamente in colpa.

Ma cosa doveva fare, rimettergliela e fare finta di nulla?
No, non poteva, e poi doveva cambiarlo per il suo bene.

Con un po’ di fatica ma lo fece, anche con l’aiuto della magia, gli infilò una maglietta, una camicia e poi un maglione pesante, coprendolo nuovamente subito dopo. Gli rimboccò le coperte e si appuntò mentalmente di fargli mangiare un po’ di cioccolato una volta sveglio, osservandolo e chiedendosi cosa potesse fare a quel punto.

Più tardi gli avrebbe detto di mettersi l’unguento e di farsi un bagno, ma per ora era meglio aspettare e le gliene aveva messo solo un po’ sulle mani. 

All’improvviso pensò a qualcosa che, al tempo, la madre aveva detto e fatto per lei.

Natalia arrossì, e non certo per la sua vicinanza al caminetto, mentre ricordava le parole di Petra: “è utile condividere il calore corporeo”.

Condividere il calore corporeo 
Condividere il calore corporeo 

Tradotto, stringersi nello stesso spazio.

No, no, non poteva farlo.
Che idea stupida.

Però forse sarebbe stato utile sul serio. Forse doveva?

Natalia sospirò, passandosi nervosamente una mano tra i capelli mentre quasi poteva sentire la voce di Dom apostrofarla come “pudica” con aria divertita.

Oh, al diavolo. Alla peggio si sarebbe svegliato urlando, l’avrebbe cacciata e lei avrebbe desiderato di sparire per la vergogna.

Natalia si sfilò le scarpe e, dopo un attimo di esitazione, sollevò lentamente un lembo dello spesso strato di coperte per infilarsi nel letto accanto a lui, rigida come un tronco. Fece quasi di tutto per non toccarlo troppo, all’inizio, ma lui le rese l’intento difficile mormorando sommessamente qualcosa, forse il suo nome, prima di abbracciarla. 
All’ora Natalia divenne dello stesso colore dei suoi capelli, decidendo che era stata un’idea pessima. Una delle peggiori che avesse mai avuto.
O almeno finché non si rilassò leggermente sentendo il respiro di Michael farsi più rilassato e i tremori diminuire. Sollevò una mano e azzardò a sfiorargli i capelli che sbucavano dal berretto che gli aveva messo, sorridendo appena prima di parlare con un filo di voce, osservando il volto rilassato dell’amico.

“Sai, sei quasi adorabile quando dormi e non puoi parlare.”


*


Michael visse in quell’orfanotrofio di Putj, che i bambini chiamavano “la Baita” per sette anni, e fu una parte della sua vita che non avrebbe mai dimenticato, intensa tanto quanto gli anni di scuola, anche se in modo diverso.
Per i primi tempi lo spostavano tenendolo perennemente in braccio, ma un paio d’anni dopo il suo arrivo gli costruirono una piccola sedia a rotelle su misura, imparò il linguaggio dei segni, a scrivere e, lentamente, anche a leggere il labiale. Non essendo nato sordo Michael non aveva alcun problema a parlare, come la maggioranza delle persone affette da sordità, anche se spesso si sentiva male quando qualcuno gli diceva di non urlare e che lo sentivano.

Vivere alla Baita non era semplice, certo Michael ricevette più attenzioni di altri ma erano comunque in moltissimi ragazzini di tutte le età, tutti un po’ abbandonati a loro stessi. 
Non era solo, mai, neanche per un attimo, e questo lo aiutò, anche se guardare da una finestra seduto sulla sedia a rotelle e salutare i suoi amici venire adottati e andarsene non fu affatto semplice.

Le persone che adottavano volevano bambini piccoli, ma nessuno avrebbe mai voluto un bambino come lui, fonte di fin troppi problemi. E Michael lo capiva, non se ne faceva un crucio, in breve tempo capì che nessuno l’avrebbe mai preso con sè, arrendendosi tanto quanto i ragazzini di età superiore ai 10 anni: le famiglie volevano bambini piccoli da crescere, un po’ come in un canile, dove i cuccioli erano i più ricercati. 

Michael non era un bambino normale, lo sapeva e se lo sentiva ripetere in continuazione, ma ciò gli dava un po’ di forza era il fatto che, quando voleva, Michael sapeva fare cose che neanche gli adulti che lavoravano alla Baita sapevano spiegarsi. 
Era riuscito ad arrampicarsi su un albero, a raggiungere i biscotti in cima alla credenza, ad aprire la porta della cucina e a riempire tutti i bagni di acqua salmastra perché non volevano portarli al mare. 
Nessuno gli dava mai la colpa per ciò che faceva, infondo come avrebbe potuto un bambino con una protesi alla gamba e un braccio malandato fare quelle cose, come poteva difendersi dai ragazzini più grossi che erano convinti di poter fare i gradassi con lui solo perché girava su una sedia a rotelle?
Non poteva, ecco tutto.
Questi eventi straordinari lo resero sempre più sicuro di sé, sempre più sfrontato e più furbo, affinò le sue tecniche e mise su una “banda” per riuscire in tutte le sue malefatte al meglio. 
Aveva appena compiuto nove anni quando la Baita divenne “la Baita di Doax”.
L'anno dopo un uomo si presentò alla Baita e disse di esser lì per lui, di averlo finalmente trovato e che gli dispiaceva non esser riuscito ad arrivare prima. 

Michael non aveva mai ricevuto una visita, nessuno era mai andato lì per lui, per vederlo. 
Pieno di curiosità, ma anche di scetticismo, Michael guardò dalla sua sedia a rotelle quell’uomo che non aveva mai visto in vita sua, che si presentò come suo zio e con un nome alquanto bizzarro che sul momento lo fece quasi ridacchiare.


*

“Signor Oz! Signor Oz!”

“Packy? Che cosa c’è?” 
L’Elfo Domestico corse verso il padrone, fermandosi davanti all’uomo seduto di fronte alla sua scrivania prima di parlare con tono lacrimoso e preoccupato:

“Il Signorino Michael non sta bene, Signor Oz.”
“Che cosa è successo?!”

“Miss Natalia ha detto che è in… ipotermia.”

Packy deglutì, guardando il padrone con una nota implorante nello sguardo, come a volerlo pregare di sbrigarsi e di raggiungere il figlioccio a scuola per assicurarsi che stesse bene. 
Oz non se lo fece ripetere una seconda volta e si alzò in piedi di scatto dopo aver rivolto all’Elfo un’occhiata stralunata, chiedendosi come potesse essere successo: certo in Norvegia faceva molto più freddo rispetto a laggiù, in Croazia, ma Michael non era certo uno stupido. Forse aveva avuto un qualche incidente con la gamba?

“Andiamo a Durmstrang, Packy.”

Il mago parlò con tono fermo, superando l’Elfo con poche, lunghe falcate e dirigendosi verso il piano inferiore per raggiungere l’enorme camino di marmo del salotto con cui avrebbe potuto mettersi in contatto con il Preside.


*


Lo zio Oz, che a quanto pare era il fratello di suo padre, disse di essere stato via per molto tempo e che solo di recente era tornato in Slovenia ed aveva cominciato a cercarlo non appena aveva saputo della morte del fratello. 
Lo prese con sé due giorni dopo, portandolo via dalla Baita in una grande macchina scura e tutti gli abitanti dell’orfanotrofio uscirono in giardino per salutarlo quel giorno, sbracciandosi e chiedendogli di ricordarsi di loro, di andare a trovarli in futuro. Cosa che, per altro, Michael avrebbe continuato a fare con costanza negli anni a venire.
Una volta in auto – e il ragazzino si chiese se per caso quel suo zio non fosse persino molto ricco, visto che aveva l’autista – Oz tirò fuori un sottile bastoncino e lo agitò, gli disse che ora potevano parlare tranquillamente visti che nessuno li avrebbe sentiti e quello fu l’inizio della loro strana, ma funzionale, convivenza. Oltre ad essere il giorno in cui Michael scoprì di essere un mago e che anche i suoi genitori lo erano.

Ben presto Michael avrebbe anche saputo che i suoi genitori erano vivi e vegeti, che Oz non era suo zio ma solo il suo padrino e che non lavorava esattamente per l’Unione Sovietica, come aveva riferito ai dirigenti dell’orfanotrofio, ma tutto avrebbe avuto il suo tempo.
 
Ozrel era un membro del versante magico del KGB ed aveva partecipato ad una missione durata più di cinque anni fuori dal paese. Quando era tornato e aveva chiesto notizie di Jun, il padre di Dom – suo vecchio amico nonché superiore – aveva scoperto cos'era successo durante e si era messo sulle sue tracce, credendo fermamente che si trovasse ancora nel mondo magico e non in quello babbano. Gli erano serviti quattro anni per trovarlo e poi era corso a fare i documenti necessari per l'adozione e a prenderlo.

Ben presto Michael intuì che quella non era tutta la storia e che Oz – così come i suoi genitori -, che non gli rivelò né il suo cognome né il suo nome completo, non fosse un semplice membro del KGB. Tuttavia quell’uomo misterioso lo aveva accolto e adottato, e questo per lui era più che abbastanza per essergli grato in eterno.
Vissero insieme per un anno nella villa in Croatia di Oz, dove l’uomo crebbe Michael come un mago, insegnandogli molte cose del loro mondo, ma sopratutto come fosse stato davvero suo figlio.       


*


Quando Michael si svegliò, intorpidito, venne attraversato da un moto di delusione: aveva fatto un sogno molto realistico e infinitamente piacevole, dove Lia lo abbracciava sotto le coperte per scaldarlo. Si chiese per quanto tempo avesse dormito prima di riprendere completamente coscienza e udire un paio di voci femminili, che parlavano a bassa voce sulla soglia della stanza.
Il ragazzo gettò una rapida occhiata in direzione delle due – mentre Achille di era acciambellato ai piedi del letto e la borsa dell’acqua calda gli scaldava piacevolmente il petto – e scorse Natalia e una delle infermiere della scuola, sicuramente chiamata dalla stessa ragazza. 
Michael sbuffò debolmente, ripetendosi che che non era il caso di farla tanto lunga prima di rendersi conto di un altro dettaglio affatto insignificante: indossava uno dei suoi maglioni, e sotto di esso una camicia diversa visto che un pezzo di tessuto azzurro spuntava dalla manica del maglione blu.

Il ragazzo impallidì e abbassò lo sguardo, pregando che non gli avessero toccato i pantaloni e provando una buona dose di sollievo quando appurò di indossare gli stessi di quella mattina. 
Sollievo che, comunque, ebbe vita breve visto che sparì quando Michael realizzò che a cambiarlo doveva essere stata Natalia mentre dormiva, come aveva cercato di fare prima che si assopisse. 
Il ragazzo impallidì, desiderando di stare ancora dormendo e di potersi svegliare – questa volta da un incubo –, e reprimendo a fatica l’impulso di urlare o di squarciare qualcosa: se Lia gli aveva tolto la camicia aveva visto tutte le sue cicatrici, tutti quei segni orrendi che nessuno, eccetto per Oz e tutti i medici che lo avevano visitato o operato nel corso degli anni, avevano mai visto.

Ora, un conto era starle vicino, vederla ogni giorno con la consapevolezza che fosse a conoscenza della sua sordità e della sua parziale cecità, un altro era sapere che lei aveva visto le sue cicatrici. Proprio lei, tra tutti. Dio solo sapeva cosa potesse aver pensato.

No, non era possibile. Come aveva potuto permettere che accadesse?


“Oh, sei sveglio. Come ti senti?”
Michael si riscosse quando sentì la voce di Natalia chiamarlo, che gli si avvicinò sorridendogli con dolcezza. 
Il ragazzo esitò, guardandola con aria stralunata, e si limitò ad annuire prima di parlare con un filo di voce:

“Bene.”
“Per fortuna non ha riportati danni a braccia o dita, ma l’ipotermia non va presa sottogamba, Signor Hoax, ci sono molti casi di perdita di braccia o gambe.”

Michael si trattenne dal scoppiare a ridere amaramente alle parole dell’infermiera, limitandosi ad annuire mestamente senza guardare né la donna, né Natalia.

“Adesso può farsi un bagno caldo?”
“Adesso sì, ma prima ha una visita, Signor Hoax.”  

“Visita?” Natalia aggrottò la fronte, senza capire, ma quando la donna annuì e si avvicinò alla porta per aprirla e rivolgere un cenno a qualcuno pensò a Packy, che di certo era corso ad avvertire Oz. 

Dal canto suo, Michael fu sollevatissimo di vedere l’uomo entrare nella stanza con l’Elfo al seguito, precipitandosi verso di lui per chiedergli come stesse e cosa fosse successo.

“Ti sembra il caso di startene fuori con questo tempo?! Imbecille!”
Oz sbuffò e gli assestò uno scapellotto sulla testa, ignorando la sua lamentela mentre Natalia, invece, sorrise appena:
“Ahia! Non è stato volontario, non sono stupido!”

“Chiudi il becco. Come sei tornato indietro? Ti ha aiutato Natalia? Signorina Nóvak, grazie, Packy mi ha detto che si è occupata di lui… questo ermafrodito è fortunato ad averla vicino.”

Oz sorrise alla ragazza e allungò una mano per sfiorare la sua, guardandola sorridere imbarazzata:
“Non sono un ermafrodito!”

“Non ho fatto niente di che in realtà, è una fortuna che stia bene.”
“Sciocchezze, ha fatto molto invece.”

“Smettetela di ignorarmi!”

Michael sbuffò, incrociando le braccia al petto e spostando lo sguardo da Oz a Natalia, che erano in piedi una di fronte all’altro ai due lati del letto.
Entrambi abbassarono lo sguardo su di lui e lo fulminarono con lo sguardo, prima che Oz chiedesse alle due streghe di poter parlare da solo con il nipote.

Natalia annuì e li lasciò, asserendo che visti che era ora di cena sarebbe andata a prendere qualcosa per lui in cucina insieme a Packy, mentre l’infermiera lasciò al ragazzo unguenti e creme lenitive prima di lasciarli. Una volta soli Oz sbuffò e dopo aver fatto apparire una sedia sedette accanto al ragazzo, scrutandolo con attenzione:

“Mi spieghi che cazzo è successo?!”
“È stato uno stupido incidente, sono uscito per fare una passeggiata ma ho scordato la bacchetta e non sono riuscito a mettere gamba e protesi a posto… Tutto qui. Non capiterà più.”

“Lo spero vivamente. Come hai fatto a scordarti la bacchetta, Dom?! E non dovresti andartene fuori da solo, per quanto mi riguarda…”
“Non lo so, ero un po’… scosso, credo. Prima di uscire ho detto a Natalia delle cose e credo di averla ferita, anche se non ne ha fatto cenno.”

Michael evitò di guardare Oz in faccia, concentrandosi sulla manica del suo maglione mentre il mago sospirava, alzando gli occhi al cielo:
“Per l’amor del cielo, che le hai detto? Dom, devi tenertela stretta quella ragazza, sei stato davvero molto fortunato, se non fosse perdutamente innamorata di te quasi quanto tu lo sei di lei forse non saresti qui adesso. O forse sì, ma con un braccio in meno.”

“Lei non è innamorata di me.”  Michael serrò la mascella, parlando a denti stretti mentre Oz invece non battè ciglio, stringendosi nelle spalle e appoggiando i gomiti sulle ginocchia sporgendosi leggermente verso di lui:
“Ma certo che lo è. Ma sono felice che tu non abbia negato di esserlo. Dom, qualunque cosa tu le abbia detto lei è accorsa e si è preoccupata per te… e nessuno meglio di me sa quanto tu possa essere snervante a volte, se non ti amasse ti avrebbe già mandato a quel paese.”

“Lei le ha viste.”
“Che cosa?”
“Le mie cicatrici. Voleva cambiarmi i vestiti umidi, io le ho vietato di togliermi la camicia ma mi sono addormentato. Perché è così testarda…”
“Sono cicatrici, Michael. Fanno parte di te, pensavi di nasconderle al mondo intero per tutta la vita? E sono sicuro che a lei non importa, anzi, l’unico che ci dà tutta questa importanza sei tu.”

“Sono orribili, Oz, a volte fanno schifo persino a me, e le vedo da tutta la vita! Sa che sono sordo, che non ci vedi da un’occhio, ora ha visto tutto l’orrore che mi ha segnato il corpo e secondo te dovrebbe essere innamorata di me? In caso la classificherei come folle, più che altro.”
“Non saprei, dicono che in amore siamo tutti un po’ folli… e sono sicuro che anche quando le dirai della protesi, perché prima o poi dovrai dirglielo, lei non scapperà urlando come tu immagini.”

Oz continuò a parlare con tono calmo mentre invece il ragazzo sbuffò, scuotendo il capo e chiedendosi perché l’uomo si ostinasse ad essere tanto ottimista:
“Non dico che scapperà urlando, ma di certo non vorrà avere a che fare con me in senso romantico. Anzi, vorrebbe, perché vorrei che non lo sapesse mai, non voglio che mi tratti diversamente.”

“Michael, qui sono bigotti e fissati con la reputazione e la perfezione, rischierebbero di cacciarti da Durmstrang, quindi sono d’accordo sul tenere la tua protesi nascosta, ma non devi farlo con il mondo intero. Natalia è molto importante per te, devi essere sincero con lei.”
“D’accordo, prima o poi potrei dirglielo.”
“Non prima o poi imbecille, vuoi aspettare che sia una donna sposata?! Ti avverto, nipote, che sono pronto a trascinarti fino al luogo delle nozze e costringerti ad entrare urlando “Io mi oppongo”, e a quel punto Natalia ti assesterà un ceffone per averci messo tanto!”
“Per essere un altolocato Purosangue ricordi molto i film Babbani, sai?”


*


Michael passò quasi due ore fermo davanti alla finestra a fissare il mare, la visuale perfetta che si aveva dalla sua camera pare una foto, un dipinto. Fu riscosso solo dall'arrivo dello zio e di un esserino buffo, piccolo, color rame, con dei giganteschi occhi giallo-oro e le orecchie lunghissime. Quello, gli disse Oz, era un Elfo domestico, che si occupava di fare tutto ciò che di solito facevano i camerieri e i domestici babbani, solo che loro lo facevano con la magia, e quello era il suo Elfo personale. 
Mich non aveva mai visto una creatura magica in vita sua, o per lo meno non lo ricordava, e trovò subito divertentissimo quel piccoletto che vestiva di stracci. 
Non riuscì mai a trattarlo come un vero Elfo domestico, forse perché gli mancavano le basi di conoscenza magica, ma capì invece che Packy rispondeva a tutte le sue richieste e cercava di accontentarlo immediatamente, forse perché Mich non chiedeva mai nulla e quelle rare volte che lo faceva Packy saltava su come una molla e si prodigava in mille volteggi per il suo padroncino. Quel termine fu una delle prime cose che Michael gli impose di non usare: che lo chiamasse con il suo nome, dal momento che ne aveva uno – anche se per molto tempo non era stato certo di chiamarsi davvero Michael, prima di incontrare Oz e averne la conferma: lo avevano chiamato così a causa della valigia ritrovata, ma il ragazzino si era spesso chiesto se quello non fosse semplicemente il nome di suo padre –.
Alle risposte negative dell'elfo, che piagnucolando gli diceva che non poteva, che lui era il suo padrone, Michael propose il nome “boss”, perché faceva tanto gangster come quelli dei giornaletti a puntate che uscivano sul giornale. 
Un'altra cosa che Pac imparò presto da Michael fu quella di non picchiarsi mai davanti a lui e di non farlo neanche in privato, perché se poi il ragazzino lo scopriva andava su tutte le furie e credeva che fossero stati gli altri a ridurlo così. Anche spiegargli che quello era un modo per punirsi fu una cosa difficile che non fece altro che far aumentare il malumore di Dom. 
I compromessi a cui scesero nel corso del tempo furono molti, Michael e Packy impararono ad essere amici come un elfo non era mai stato con un mago, ma la cosa andava più che bene ad entrambi.

Accadde, tuttavia, che dopo sei mesi dal suo arrivo nella vita di Oz Michael regalasse al suo nuovo piccolo amico qualcosa: una maglietta, per festeggiare, disse, il fatto che erano già sei mesi da quando erano diventati “Boss e valletto”. 
Packy non la prese bene, scoppiò in lacrime e imploro il padroncino di non mandarlo via, chiedendogli in ripetizione cosa avesse fatto di sbagliato per non essere più desiderato in quella casa.
Si scatenò il putiferio e dovette intervenire Oz, spiegando per bene al figlioccio come funzionasse la storia dei vestiti per gli Elfi domestici. Spiegazione dinanzi alla quale Michael arricciò il naso, stizzito, decretando che i maghi fossero gente proprio strana.
Prima, però, Michael si ritrovò per l'ennesima volta in uno dei posti che più mal sopportava al mondo: l'ospedale.


*


Natalia bussò prima di aprire la porta della stanza di Michael, trovando il ragazzo solo e ancora sotto le coperte. 

“Oh, ciao. Tuo zio?”
“Sta parlando con il Preside. Non vai a cena?”

Michael si sollevò leggermente, mettendosi in posizione semi-seduta contro i cuscini mentre Natalia si avvicinava scuotendo il capo e appoggiando un vassoio sul suo comodino prima di sedere sul materasso, davanti a lui:

“No, resto qui con te. Se non ti dispiace.”
“Certo che non mi dispiace. Grazie Lia, per tutto.”  Michael allungò la mano destra e sfiorò quella della ragazza, per una volta ignorando il timore che uno spasmo involontario gli facesse compiere movimenti strani.
Natalia per tutta risposta abbozzò un sorriso, mormorando che non doveva ringraziarla prima di prendere il piatto fondo e invitarlo di mangiare la zuppa che gli aveva portato.

“Grazie, in effetti ho una certa fame.”  Michael si guardò le mani con occhio critico, osservandole tremare leggermente e chiedendosi se sarebbe riuscito a mangiare senza combinare disastri. Natalia invece non sembrò porsi il problema, perché prese il cucchiaio e iniziò ad imboccarlo, ignorando le due proteste. 

“Ti tremano ancora le braccia, Mich, lasciami fare. Packy è preoccupatissimo per te, comunque, poverino.”
“Packy si preoccupa sempre, gli Elfi sono troppo sensibili…”
“Non sono gli unici, anche Achille è meno vivace del solito, avrà percepito che il suo padrone non sta bene.”

La rossa si voltô per lanciare un’occhiata in direzione del cane, che se ne stava quatto quatto in un angolo e che non le era saltato addosso come al solito vedendola entrare.

Michael per qualche istante non disse nulla, parlando a bassa voce poco dopo:

“Lia… non pensavo davvero quello che ho detto. Insomma, so che non sono affari miei, ma non sarei comunque indifferente se tu… rivolgessi le tue attenzioni a qualcun altro.”
“Oh, beh, tanto questo non è un rischio che corro.”  Natalia si strinse nelle spalle senza battere ciglio e il ragazzo aggrottò la fronte, chiedendosi cosa volesse dire prima di schiarirsi leggermente la voce e parlare nuovamente:

“Inoltre… So che le hai viste. Le mie cicatrici.”
Natalia si bloccò a quelle parole, con la mano che reggeva il cucchiaio a mezz’aria e strada tra il piatto e il suo viso prima di sospirare, annuire e riportare la posata sul piatto, abbassando lo sguardo:

“Lo so, mi dispiace. Non immaginavo che non volessi che ti togliessi la camicia per questo, ovviamente non l’avrei fatto, in quel caso.”
“Non ti devi dispiacere, non lo sapevi e basta.”
“Posso… so che non sono affari miei, Mich, ma come te le sei procurate?”


Michael esitò di fronte a quella domanda, non sapendo cosa dire. La verità? Una mezza verità? Una bugia?
Il suo flusso di pensieri s’interruppe, in ogni caso, quando Natalia poggiò una mano sulla sua, guardandolo con aria implorante:

“Per favore, Mich. Ho bisogno di sapere.”
“… Ho avuto un incidente quando ero piccolo, in treno. È per questo che non ci sento e non vedo dall’occhio destro, come già sai, tutto qui.”

Michael si strinse nelle spalle, restando impassibile mentre sentiva, dentro di se, la voce di Oz insultarlo pesantemente per non aver accennato alla sua gamba. Natalia invece annuì, e la sua espressione si addolcì prima di parlare, anche se, con somma gratitudine del ragazzo, non indagò oltre:

“Mi dispiace molto. Eri molto piccolo?”
“Tre anni. Ma poteva andare peggio, se non altro sono vivo e vegeto e la popolazione di Durmstrang può godere della mia fantastica persona.”


Michael abbozzò un sorriso tirato – ma convincente dopo anni di pratica – e Natalia annuì, sforzandosi di imitarlo:

“Grazie al cielo, direi. Non riesco ad immaginare la mia vita senza averti conosciuto.”


*


Oz lo portò nel suo ufficio e gli porse un grosso anello di metallo, dicendogli di stringerlo forte e di non lasciarlo per niente al mondo, mentre l'uomo stringeva a sua volta Michael stesso e l'oggetto. Fu la prima volta che usò una passaporta e temette seriamente di essersi scomposto e ricomposto male perché aveva una voglia di vomitare che raramente gli era venuta. 
Riconobbe immediatamente una clinica medica, ciò che non riconobbe furono le scritte sui cartelli e sui muri, strane linee che si allungavano sormontate da puntini di tanto in tanto. Era arabo, gli disse Oz, e loro si trovavano in una delle più famose, antiche e quotate cliniche magiche al mondo, in Arabia Saudita. Lì lavorava il più famoso Otorino magico, un vecchietto tutto rugoso e incartapecorito che a mala pena ci vedeva e ci sentiva lui stesso ma era in grado di risolvere problemi di udito, di voce, d'olfatto e di vista di ogni genere. 
Purtroppo per Mich la perdita di vista all'occhio destro era stata compensata dalla sua stessa magia, non era una deformazione fisica, qualcosa con cui fosse nato o che attualmente si potesse curare, ma per il suo udito non c'era alcun problema. 
Questo Michael non lo capì e continuò a non farlo anche quando il medico gli fece scegliere tra tre diversi tipi di orecchini, mentre spiegava ad Oz, in arabo, ciò che quei manufatti magici andavano a fare. Per un attimo Mich credette che quello dei buchi alle orecchie fosse un qualche passaggio di rito, tipo i tatuaggi per i marinai, anche perché Oz ne aveva ben tre di orecchini, quindi forse era una cosa importante per la sua nuova famiglia… Così si impegnò tantissimo a scegliere quelli che gli parevano più seri, meno appariscenti e più “da uomo”, scartando delle pietrine bianche, i piccoli pendenti a goccia ed indicando sicuro gli anellini d'argento. 
Il medico annuì concorde con la scelta e gli fece cenno di rimanere fermo, mentre diceva qualcos'altro ad Oz che rispondeva con cenni affermativi e quasi… emozionati? 
Non riusciva a capirlo, i due parlavano una lingua per lui sconosciuta e la cosa gli metteva una certa ansia.
Michael cercò di rimanere immobile, come faceva sempre quando dovevano fargli i prelievi o visitarlo, ormai c'era abituato, poi sentì uno strano ronzio nella testa, quasi gli stesse venendo un'emicrania e subito dopo il medico si tolse e lasciò il posto davanti a lui ad Oz che lo guardò pieno di aspettativa. Mimò con le labbra un “tutto bene?” e alla sua risposta affermativa gli sorrise come non aveva ancora mai fatto. Michael rimase a guardarlo senza capire il perché di tutta quell'improvvisa gioia, forse era davvero un rituale della sua famiglia e lui lo aveva superato a pieni voti, ma poi Oz prese un respiro e disse una sola, singola parola: Michael. 
Il bambino lo guardò ancora spaesato, era lì davanti a lui, perché lo chiamava? Poi si congelò sul posto e si ritrovò a balbettare all'uomo di ripetere ciò che aveva detto, aveva sentito bene? Aveva sentito? Poteva sentire?
Oz ripeté il suo nome ancora parecchie volte e scoppiò a ridere di cuore quando invece il bambino cominciò a singhiozzare senza lacrime. Quella, Mich ne è sicurissimo, è stata la prima volta che Oz lo ha abbracciato e che lui ha saputo con matematica certezza che fosse quella la sensazione che si provava ad essere stretti da un genitore.
Oz non lo riportò a casa, chiamò Packy mentre lui ancora si abituava a tutti quei suoni che gli gravitavano attorno e mentre un dottore più giovane gli traduceva con un incantesimo le direttive del medico che gli spiegava che per ora i suoni sarebbero stati più tenui e con il passare del tempo avrebbero raggiunto il giusto grado, per farlo abituare poco a poco. 
La seconda voce che sentì fu quindi quella del medico, ma subito dopo ne sentì una piccola e acuta e non ci fu bisogno che Oz gli dicesse a chi appartenesse perché Michael si voltò di colpo chiamando a gran voce l'elfo domestico che si mise a piangere felice che il boss lo avesse sentito, facendo ricominciare a singhiozzare per la felicità anche Mich stesso.
Stringere la presa sull'anello che l'aveva portato lì e ricomparire nel giardino di casa fu un attimo e fu ancora più veloce Oz a prendere in braccio Dom, sorprendendo sia il bambino, che l'elfo, che la servitù accorsa per il ritorno del padrone, e portarlo a grandi falcate verso la scogliera, nell'esatto punto in cui Michael aveva visto il mare per la prima volta, questa volta però non per mostrargli la meraviglia dei colori dell'acqua salmastra ed i suoi profumi quanto il rumore della risacca che infrangeva le sue onde sulle rocce chiare.

Certo, era ancora e sarebbe rimasto un rottame, ma forse quel giorno era riuscito ad aggiustarsi almeno un po’.


*


Michael si trascinò fino al letto e sedette sul materasso con un sospiro sollevato, sentendosi decisamente meglio dopo essersi fatto un bagno. Si infilò di nuovo sotto le coperte, rilassandosi e lasciandosi cullare dal tepore, e rivolse un’occhiata ad Achille, che sonnecchiava in un angolo della stanza.
Ricordava quando avevano trovato quel cucciolo spelacchiato, un cosino minuscolo, ricordava di averlo portato al canile insieme ad Oz, ma quando qualche tempo dopo erano tornati chiedendo sue notizie il padrone aveva sostenuto che presto se ne sarebbe liberato visto che lo avevano già rimandato indietro due volte e nessuno sembrava volersi prendere cura di lui, di quel cucciolo nato dall’incrocio di molte razze. 

A quel punto Michael, che all’ora era solo un bambino, si era voltato verso Oz, lo aveva guardato negli occhi e aveva parlato:

“Puoi salvare anche lui?”

Oz non aveva risposto alla sua domanda. Si era limitato a decretare che l’avrebbero adottato loro.

La prima volta in cui si erano incontrati Oz gli aveva detto di essere un bambino speciale, e Michael si era dovuto trattenere dal rispondergli con un insulto: certo, lo sapeva di non essere normale, di avere un sacco di problemi, di essere disabile.
Avrebbe compreso solo tempo dopo il vero senso di quelle parole, e nel corso degli anni Michael avrebbe più volte pensato a quanto tutto nella sua vita fosse fuori da comune proprio come lui: dal suo Elfo diverso da tutti gli altri per il suo colore bronzeo, al suo cane nato dal miscuglio di troppe razze – che chiamarono Achille a causa della sua mania di rubare la protesi di Mich, che Oz chiamava “ il suo tallone d’Achille” – alla sua bacchetta, che in un primo momento il ragazzino odiò, decretando che fosse un orrendo scherzo del destino il fatto che fosse composta da pezzi di legno diversi, proprio come lui con la sua gamba di metallo.


C’erano moltissimi elementi fuori dal comune nella sua vita, anche il lavoro dei suoi genitori, che sapeva essere vivi ma impegnati in un’importante missione per l’Unione Sovietica in America. 
Michael si sistemò più comodamente sui cuscini, chiuse gli occhi e pensò al bel sogno che aveva fatto, con Natalia che gli sfiorava i capelli con le dita e che lo stringeva delicatamente a sè. 
Natalia, che aveva il tocco più dolce del mondo.

Sorrise, Michael, e pensò a Natalia, che era così normale e meravigliosa allo stesso tempo.
Potevano la normalità e una bizzarria come la sua andare a braccetto? 
Dom non lo sapeva, ma sperava ardentemente di sì.






   
 
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