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Autore: Crilu_98    29/09/2018    1 recensioni
La fame ed il freddo invernale non sono nemici che l'uomo possa sconfiggere da solo. Ma il prezzo che gli dei chiedono in cambio della salvezza è molto alto: i nati di quella primavera maledetta saranno tutti consacrati a Mamerte, sanguinario e crudele dio della guerra.
Tra di loro, Sattias è il più gracile, il meno abile, per nulla carismatico; tuttavia, quando giunge il momento di partire verso la terra che è stata loro promessa, è lui che il picchio di Mamerte sceglie come guida.
In un viaggio pieno di pericoli, profezie ed incontri inaspettati, Sattias dovrà ricorrere a tutta la sua astuzia per tenere al sicuro le persone che ama: perché nel loro mondo ci sono poche certezze, ma una di queste è che gli dei non ripongono mai la loro fiducia nell'uomo sbagliato.
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Sattias osservava con timore crescenti le capanne farsi sempre più vicine.
Fin da quando aveva memoria gli era stato proibito avvicinarsi al villaggio e aveva sempre rispettato quella regola imposta dalla vecchia Aia; tuttavia lui e Manlios si erano spesso avvicinati in segreto alle capanne, osservando con timore e meraviglia la vita che gli era stata preclusa.
Avevano osservato le donne cantare mentre filavano la lana, gli uomini che si allenavano nel tiro con l'arco e con la lotta e i bambini – quelli nati dopo l'inverno maledetto e dopo quella triste primavera – che rincorrevano i cani per gioco.
Loro non avevano mai giocato insieme.
C'erano così tante cose da fare e da imparare che non ne avevano mai avuto il tempo: i maschi dovevano imparare ad usare le armi e a seguire le tracce nel bosco, dovevano conoscere i venti, le stelle, i fiumi; le bambine erano state istruite attorno al focolare nei segreti delle erbe, della cucina e di quel mistero da cui Sattias era affascinato, la creazione di una nuova vita.
L'unica eccezione era Hiccia, l'arciere migliore che il ragazzo avesse mai visto: lei non aveva mai mostrato interesse nelle arti femminili e mal sopportava di rimanere alla capanna. Quando era stata abbastanza grande per reggere in mano un arco si era tagliata i capelli ed aveva iniziato a seguirli nella caccia; nessuno si era opposto, neanche la sacerdotessa.
Aia li aveva cresciuti bene, al meglio delle sue possibilità, ma aveva sempre rimarcato che loro erano degli estranei lì: non aveva mai preso in considerazione l'idea di reintegrarli nella tribù, perché Mamerte, il terribile dio che disponeva delle loro vite, si sarebbe di certo infuriato.
A quindici anni, Sattias odiava Mamerte e non solo a causa della cicatrice che gli divideva a metà la fronte: era un ragazzino magro e svelto, ma debole in confronto a Manlios e ad Hostius. La sua vista era scarsa e questo gli impediva di essere un buon tiratore, come Pileius o Hiccia; tuttavia aveva imparato a notare più cose di loro e a rifletterci sopra.
Mamerte, invece, voleva un popolo forte e vigoroso e Sattias aveva più volte avvertito lo sguardo preoccupato di Aia fisso su di lui: la vecchia si chiedeva se sarebbe sopravvissuto al duro e pericoloso viaggio che li attendeva.
Se lo chiedevano tutti, in realtà.
Hostius lo sbeffeggiava quando vacillava sotto il peso di un daino, predicendogli una morte orribile tra le zanne di qualche belva; Pileius sbuffava quando finiva in coppia con lui, lamentandosi perché faceva tanto rumore da far scappare tutte le bestie; anche Manlios ed Etrilia, che Sattias considerava i suoi unici amici, a volte si lasciavano scappare un verso d'impazienza per la sua inettitudine.
Solo Hiccia e la bella Sabidia parevano non curarsi dei suoi difetti: la prima perché in realtà non si curava di nessuno e la seconda perché era innamorata di lui da quando erano bambini.
Il giovane si riscosse con uno scatto del capo, dato che il piccolo corteo era giunto nello spiazzo centrale del villaggio: avvertiva gli occhi di tutti fissi su di loro e la cicatrice sulla fronte prese a pizzicare in maniera insostenibile. Due giorni prima Aia aveva afferrato il mento di Pileius tra le dita ossute ed aveva lanciato un grido di trionfo: anche a lui era spuntata la barba, segno che era diventato un uomo e che i sette bambini sacri dovevano partire.
Trattenne a stento un singulto di sorpresa nell'incrociare uno sguardo identico a quello che scorgeva specchiandosi nella fonte: sua madre sedeva rigida e composta su uno scarno sgabello di legno e il vento faceva dondolare i pesanti monili che portava al collo e alle orecchie.
"E' bellissima!" pensò il ragazzo, estasiato. Hostius gli rifilò una gomitata che rischiò di farlo volare per terra:
"Che fai, mosca, piangi?"
Sattias non replicò: anni di zuffe e scaramucce gli avevano insegnato che contro un ragazzone ben piantato come Hostius il silenzio era l'arma più intelligente da usare. Nessuno dei suoi compagni sembrava provare il suo stesso attaccamento alla tribù e Sattias sapeva che era colpa sua: se avesse obbedito ad Aia e fosse rimasto all'interno dell'area sacra, non avrebbe mai incontrato l'uomo che ora stava andando incontro alla sacerdotessa.
Era ancora un bambino quando se lo era ritrovato sul suo stesso sentiero, ma l'aveva riconosciuto subito: il suo cuore gli aveva sussurrato la verità, quello era suo padre. Volusus l'aveva soppesato da capo a piedi, prima di fare un passo indietro e scomparire nel bosco senza una parola.
Da quel momento Sattias era stato colto da una mania irrefrenabile, un bruciante desiderio mai confessato che le cose fossero andate in modo diverso: voleva far parte di quel villaggio, voleva poter abbracciare sua madre e suo padre, voleva…
Un rullo di tamburi lo fece sobbalzare. Il cuore prese a corrergli nel petto ed il ragazzo osservò con ansia crescente i quattro rami fioriti che Aia stringeva tra le braccia, pronta per consegnarne uno a ciascuno di loro, nella speranza che Mamerte indicasse il suo favorito, il capo della piccola spedizione. Hostius afferrò il suo con un sorriso arrogante, piazzandosi al centro dello spiazzo per far sì che tutti potessero vedere il segno che il dio gli avrebbe inviato.
"Ti immagini passare tutta la vita ai suoi ordini? Che strazio!" borbottò Manlios con un sorriso divertito. Dopo Hostius era il più vigoroso del gruppo, ma era anche più cauto e legato già da tempo ad Etrilia, l'unica vera erede di Aia; c'erano buone probabilità che Mamerte scegliesse lui.
Sattias annuì, ma non riuscì a rispondere al sorriso: le labbra erano secche e serrate, non riusciva ad aprirle, non riusciva a formulare nessun pensiero coerente oltre il rumore assordante della paura che gli ruggiva nelle orecchie. Rischiò anche di far cadere il ramo coperto di fiori bianchi, perché le dita sembravano essere diventate di legno, rigide ed impossibili da manovrare.
L'ultimo rullo di tamburi si stemperò nel silenzio, rotto solo dai rumori leggeri del bosco: il villaggio attendeva muto. In quell'immobilità a Sattias parve che il suo cuore rimbombasse come un tuono, svelando a tutti il suo timore e la sua codardia.
"Chissà cosa pensa mio padre di me..." Si chiese, ma non ebbe il coraggio di cercare Volusus con gli occhi.
Aia strillò alzando gli occhi al cielo:
"E' là, là!" urlò, indicando una macchia verde che scendeva verso di loro con pigri cerchi concentrici. Era un picchio dal piumaggio lucente, uno degli animali sacri a Mamerte.
L'uccello compì larghi giri sopra la folla che lanciava grida ammirate, alzando le braccia per poterlo sfiorare; ma il picchio sdegnoso si innalzò di nuovo con un battito d'ali, puntando contro i quattro ragazzi. Per un attimo sembrò deciso a posarsi sul ramo di Hostius, che già gonfiava il petto d'orgoglio, ma lo superò in fretta, sfiorando con il becco i fiori del ramo di Manlios. Un altro colpo d'ala e l'uccello salì verso il sole: Sattias buttò fuori l'aria che aveva confinato nei polmoni, contento che fosse finita. Osservò con scarso interesse Volusus avvicinarsi al suo migliore amico con le braccia cariche di doni solenni.
"Aspettate!" tuonò Etrilia, frapponendosi tra Manlios e il capo villaggio. Era una ragazzina dal volto affilato come quello di un furetto, le sopracciglia folte e due occhi troppo grandi per il suo capo, spiritati e cerchiati di nero; non era affatto bella, ma era difficile toglierle gli occhi di dosso.
"Non è quello il segno!" spiegò, affannata. "No, no, aspettate…"
Sattias sapeva che di lì a poco sarebbe caduta in una delle sue crisi: si sarebbe gettata a terra urlando e dimenandosi, posseduta dagli spiriti che cercavano di trasmetterle il messaggio degli dei. Era uno spettacolo meraviglioso e ripugnante insieme, che gli lasciava addosso un profondo senso di inquietudine, perciò cercava sempre di defilarsi quando Etrilia dava segni di squilibrio; però in quel momento era circondato dalla gente che lo aveva offerto in sacrificio a Mamerte e non c'era alcun posto dove nascondersi.
"Mi sento soffocare!" pensò, spaventato. Poi, con un trillo di felicità, il picchio ripiombò sulla scena, affondando gli artigli nel ramo che ancora teneva teso davanti a sé.
L'uccello lo fissò con i lucenti occhi scuri e il ragazzo sentì uno strano senso di familiarità ed affetto sgorgargli dal petto: come se il picchio che scrollava le ali con fare soddisfatto davanti ai suoi occhi fosse un vecchio amico, perduto da tempo immemorabile.
Etrilia sarebbe caduta se Manlios, gettato il ramo da un lato, non si fosse affrettato a prenderla per le spalle e sorreggerla; la ragazza rovesciò gli occhi all'indietro e parlò con voce non sua:
"Seguite il picchio. Volerà verso nord, volerà verso il freddo, la fame, le montagne e nemici senza nome, ancora più spaventosi… A nord, a nord, oltre la neve e la roccia!"
Poi tutto finì velocemente come era iniziato: il sole tornò a scaldare la scena e il tempo parve riprendere a scorrere normalmente. Il picchio era scomparso.
Hostius lanciò lontano il ramo con un grido furioso, rivolgendosi ad Aia e Volusus:
"Sattias è un incapace! E' debole, è inadatto alla caccia e alla guerra, sa solo correre per rintanarsi in qualche buco come un coniglio e preparare trappole che quasi sempre rimangono vuote! Come potrà guidarci?"
"E' vero!" intervenne Pileius, in maniera più pacata. "Tanto più che ci aspettano numerosi pericoli là fuori… Avete sentito Etrilia. Avremo bisogno di un capo vero, un uomo in grado di tenerci al sicuro e di guidarci sani e salvi verso la nostra nuova terra!"
"Smettetela!" sbottò Sabidia, scuotendo i lunghi capelli neri e puntando i pugni sui fianchi "Siete soltanto gelosi perché Mamerte non ha scelto voi!"
"Zitta, donna!" ringhiò Pileius ed Hostius lo spintonò:
"Non ti rivolgere a lei con questo tono!"
Sattias lasciò che gli insulti e le recriminazioni dei suoi compagni gli scivolassero addosso come acqua, aiutando Manlios a tirare in piedi Etrilia: la ragazza aveva la pelle madida di sudore e sembrava sul punto di svenire da un momento all'altro.
Quando si voltò si trovò faccia a faccia con suo padre e rabbrividì; Volusus, invece, gli lanciò un'occhiata orgogliosa, forse anche commossa – Sattias lo conosceva troppo poco per esserne sicuro.
Con un gesto solenne srotolò un semplice panno di lana grezza e grigia:
"Questo stendardo ricorderà a voi e ai vostri figli dove è cominciato il vostro viaggio. E' il simbolo del tuo popolo, Sattias, non devi perderlo… Proteggetelo a costo della vita, poiché se cadesse in mano nemica sarete perduti!"
"Il mio popolo…" ripeté il giovane dentro di sé, sentendosi schiacciato da una tale responsabilità.
Prese lo stendardo e se lo strinse al petto come una coperta, tentando di cogliere in esso un odore familiare, qualcosa che riuscisse a colmare il vuoto che sentiva crescere nell'animo; una corta barba scura gli ombreggiava il viso da quasi un anno, ma aveva lo stesso voglia di piangere come un bambino.
E quando gli fu posata sul capo una lucente corona di bronzo il ragazzo avvertì quel peso come una condanna a morte.
 
Partirono all'alba, mentre la fresca brezza di inizio primavera scompigliava i capelli e le vesti. Portavano poco con loro: sacche di carne secca ed otri per i primi giorni di viaggio, lunghi archi di legno e coltelli di bronzo, affilati e lucidi, per uccidere e scuoiare le prede; Etrilia giocherellava con i sacchetti di erbe appesi al suo bastone, mentre Sabidia era intenta a contare le matasse di lana che aveva gelosamente riposto nel suo bagaglio e che avrebbe iniziato a filare una volta raggiunta la loro meta.
Sattias procedeva in testa al gruppo, con lo stendardo stretto in una mano e l'altra appoggiata sulla pesante spada di bronzo che gli era stata affidata: la sua figura magra e allampanata quasi scompariva sotto il peso di quelle insegne.
Nessuno andò ad osservarli partire, temendo che potesse portare sfortuna al villaggio; tuttavia, quando Sattias si voltò un'ultima volta verso quella che in una vita diversa sarebbe stata la sua casa, notò un uomo seduto davanti alla propria capanna, immobile nonostante il gelo mattutino. Gli sembrò anche di vedere, oltre la foschia che calava dalle colline, un braccio alzato in un gesto di saluto.
Fu l'ultimo ricordo che ebbe del nobile Volusus.


Angolo Autrice: 
Beh, temo che su questo capitolo ci sia poco da dire: spero che questa breve carrellata sui nostri protagonisti non vi abbia annoiato! Sattias non è certo un leader nato, eppure il picchio alla fine ha scelto lui: cosa avrà visto Mamerte in un ragazzino gracile e con seri problemi di autostima? Vedremo... 

  Crilu 
   
 
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