Potrei dire con
certezza di essere stata la prima amica di
Gianmarco.
Era
luglio. Il 7
luglio 1987. Io
avevo 13 anni, lui 14 e
fu amicizia a prima vista. Se lo leggesse Lui mi riderebbe in faccia. Ma è meglio
iniziare dal principio.
Erano
settimane che la
mia famiglia progettava le vacanze estive. Saremo partiti alle nove di
mercoledì 6 e mancavano ancora 2 giorni. Non è
che fossi proprio al culmine
della felicità, per me il mare era solo una distesa di acqua
salata che brucia
agli occhi, ero più un tipo da montagna e tre mesi in
costiera non erano il
massimo. Almeno
avrei presi un po’
d’abbronzatura su ‘sta carnagione color stucco. L’unica altra cosa
positiva era che potevo
leggere senza rotture di scatole -se solo avessi trovato il tempo-.
I
libri erano i miei
amanti, lasciarli in giro per casa e leggere un capitolo alla volta era
come
una botta e via.
A
tredici anni già
sapevo come funzionavano le cose, però.
Oh
sì. Era
bello svegliarsi in un bagno di sudore. Con
un occhio semi-aperto lanciai un’occhiata
all’orologio sulla parete lilla di camera mia, da sotto la
frangetta pure
sudata.
Le
sei. Le sei del
mattino. Saremmo
partiti alle nove.
Fanculo.
Mi
voltai dall’altro
lato e Morfeo tornò a prendermi. Due ore più
tardi avevo ancora gli occhi
impastati di sonno, ma ero sveglia e decisamente più
riposata.
Erano
tre ore di
macchina da casa mia alla costiera, quindi mi misi ben in testa di non
scartare
i tramezzini di mia madre prima di un’ora e mezza. Faceva un caldo bestiale.
Scesi al piano di
sotto per fare colazione, con ancora indosso la maglia di mia mamma di
quattro
taglie più grandi come pigiama, e poi andarmi a mettere dei
vestiti decenti.
"Annarè,
sei
pronta?" chiese -urlò dall’altra stanza- mia
mamma, piu' euforica di me di
certo.
Il
nome di base è
Anna, da mia nonna che si chiamava così, ma almeno quattro
delle mie cugine si
chiamavano allo stesso dannatissimo modo e io ero la più
piccola, tutti si
sentivano autorizzati a storpiarmi il nome con cose astruse come
“Annarella”,
“Annuzzella”, “Nina”,
“Nannina” e diamine, il peggiore di tutti era uno.
Annuccia.
Dico
solo che mio zio
risolveva la faccenda chiamandomi Cannuccia.
"Mh-mhmh”,
risposi sedendomi al mio solito posto. Certo che dovevo proprio aver
dato
sfoggio delle mie abilità da oratrice. Non c’era
niente da fare, una mia
caratteristica era che appena sveglia non riuscivo a parlare. Proprio
non
riuscivo ad aprire bocca. Era come se le mie labbra fossero incollate.
Figurarsi
quando poi
qualcuno osava rivolgersi a me con parole offensive tipo
‘buongiorno’.
Presi
la solita tazza
di latte e caffè e qualche biscotto annacquato, salii sopra
a prepararmi
fisicamente e psicologicamente. Tempo dopo fui pronta, ma come al
solito c’era
mia madre che doveva fare l’inventario di tutto quello che
avevamo caricato in
macchina, altrimenti si sarebbe sentita male.
L’irritazione
salì
oltre la troposfera.
Ci
eravamo trasferiti
in questa casa quando avevo quattro anni e ricordo benissimo di aver
scelto io
il colore e il letto della mia nuova -ormai vecchia- camera. Aveva la
testiera
in ferro battuto bianco, deformato fino a formare tanti piccoli
fiorellini
bianchi. Le pareti erano di un lilla chiaro, poi mamma e
papà scelsero i
comodini, l'armadio e la scivania in legno scuro. Nel
corso degli anni l'avevo decorata secondo
il mio stile: c'erano parecchie foto di paesaggi attaccate alle pareti,
foto di
me con i miei amici di scuola, foto di me da piccola, dei disegni sulle
ante
dell'armadio e un cartello appeso alla porta che recitava: " Non
entrare
senza il permesso di Anna", che feci quando avevo sette anni.
Sì,
ho sempre avuto il
caratteraccio.
Passò
così un’altra
mezz’ora e avevo accumulato abbastanza autocontrollo per non
rispondere a
monosillabi, quando mi chiamarono pronti a partire.
“Però
potevamo
aspettare Capodanno per partire.”
La
mia lingua lunga mi
avrebbe portato solo guai, ma non avevo resistito.
Passai
le successive
tre ore a leggere, mangiare i tramezzini -dopo dieci minuti erano
già finiti- e
ascoltare la radio su qualche stazione sconnessa, mentre mamma e
papà
parlottavano tra loro. Morfeo doveva avere nostalgia di me, dato che
dopo
un’ora mi venne già a prendere. Avevo i segni
della tappezzeria dei sedili
impressi su tutte le braccia, quando mi svegliai che già si
vedeva il mare dal
finestrino. Poco
dopo mio padre
parcheggiò la macchina nel vialetto di una piccola villetta
bianca, con le
finestre e le porte dipinte di rosso e tanti fiori sull'enorme
terrazza.
C'erano molte finestre, credevo fossero per far passare più
velocemente l'aria
e far rinfrescare la casa prima di morire sciolti a terra. La villetta di mio zio era a
cinque minuti
dalla spiaggia e dal piccolo paesino che la contornava. Il salotto aveva i pavimenti
di mattonelle di
un fresco color verde acqua, mentre le pareti menta erano coprete da
vari
mobiletti pieni di tazzine, portacenere, bomboniere e le classiche
cazzate che
si schiaffavano nelle vetrine per vantarsi delle ceramiche. C'era una
scala a
chiocciola in legno che portava al piano superiore dove c'era la
cucina, uno
dei bagni e l'accesso alla terrazza. Nella parte destra del salotto
c'era una
porta che presumevo portasse alle camere da letto. Esplorai per un po'
la
villetta e vidi con piacere che dalla finestra della mia camera (un divano letto, un
comodino e un armadio in
legno non si potevano chiamare così) si vedeva il mare.
Uscii fuori, ma non
c'era niente di interessante a parte la strada, gli alberi che
nascondevano le
altre villette e la Vespa bianca di mio zio. A
valigie disfatte, decisi su due piedi che
avrei esplorato un po' il paese -figurarsi se potevo andare in spiaggia
da
sola- mi armai di borsetta a tracolla (acqua e un po' di spiccioli) e
chiesi il
permesso a mamma. Temevo avrei dovuto cacciare la revolver e
minacciarla, ma
riuscii ad ottenere la mia amata libertà. Feci qualche passo
in strada e dopo
qualche minuto di vagabondaggio tra i famosi vicoletti caratteristici
del
paese, mi trovai in quella che pensai fosse una piazza, un enorme
spiazzo o
quello che cavolo era, dal momento che era un grande spazio libero,
circondato
da antichi palazzi e su un lato si trovava un bar gramito di turisti
che si
godevano il proprio gelato seduti nei tavolini disposti all'esterno.
Ogni
tre secondi
dovevi stare attento a non farti investire da qualche tedesco dai
sandali con i
calzini bianchi sotto.
Fick
dich, Deutsche.
A
forza di dare
spallate a destra e a manca, riuscii a comprare un ghiacciolo al limone
con gli
spiccioli che avevo in borsa. Capirai quante lire avessi. Mi sedetti
sull’angolo più isolato della
balaustra in cemento che dava sul bellissimo panorama del mare, gli
scogli e la
spiaggia piena di gente. Era
impossibile
ascoltare il lento infrangersi delle onde sugli scogli, il gridolio
eccitato
dei gabbiani che si tuffavano in acqua che tanto descrivevano i miei
amati
scrittori, dato il vocio continuo che aleggiava nell’enorme
piazza.
Però
una cosa riuscivo
a sentirla.
L’aria
aveva il sapore
del sale.
Avevo
chiuso gli occhi
per godermi quella brezza che riusciva a scavalcare i corpi informi,
quando non
sentii più il bastoncino di legno tra le dita.
“E
questo lo chiami gelato?”