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Autore: Magari    30/09/2018    0 recensioni
7 luglio 1987
La costiera Amalfitana fa da sfondo a centinaia storie d'amore di un'estate.
Ma se questa fosse di un'estate e poi un'altra, un'altra, un'altra...?
Anna e Gianmarco.
Lui abita lì, a tre passi dal mare, ha i capelli neri e gli occhi ancor più neri.
Lei va in villeggiatura lì ogni anno, la passione per i libri e per lui.
Ogni estate s'incontreranno e saranno cresciuti un po' di più.
Due caratteracci orgogliosi e dalla lingua lunga, ma da soli non riescono proprio a decidersi.
E poi c'è Marcello con le sue battute stupide, Liliana che fa foto a tutto ed Ares che sopporta.
Tutti hanno in comune una cosa.
Tutti sanno di mare, di sole, di gabbiani e di vicoletti poco illuminati.
E forse anche qualche sigaretta, ma sono solo ragazzi.
In fine c'è quel fastidiosissimo "e allora?" che meriterebbe solo di essere preso a schiaffi.
Tra Lire, gelato al limone e Beatles, chi l'avrà vinta?
Uno a uno, palla al centro.
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Potrei dire con certezza di essere stata la prima amica di Gianmarco.

 Era luglio. Il 7 luglio 1987.  Io avevo 13 anni, lui 14 e fu amicizia a prima vista. Se lo leggesse Lui mi riderebbe in faccia.  Ma è meglio iniziare dal principio.

 Erano settimane che la mia famiglia progettava le vacanze estive. Saremo partiti alle nove di mercoledì 6 e mancavano ancora 2 giorni. Non è che fossi proprio al culmine della felicità, per me il mare era solo una distesa di acqua salata che brucia agli occhi, ero più un tipo da montagna e tre mesi in costiera non erano il massimo.  Almeno avrei presi un po’ d’abbronzatura su ‘sta carnagione color stucco.  L’unica altra cosa positiva era che potevo leggere senza rotture di scatole -se solo avessi trovato il tempo-.

 I libri erano i miei amanti, lasciarli in giro per casa e leggere un capitolo alla volta era come una botta e via.

 A tredici anni già sapevo come funzionavano le cose, però.

                                                                                                  

 Oh sì.  Era bello svegliarsi in un bagno di sudore.  Con un occhio semi-aperto lanciai un’occhiata all’orologio sulla parete lilla di camera mia, da sotto la frangetta pure sudata.

 Le sei.  Le sei del mattino.  Saremmo partiti alle nove.

 Fanculo.

 Mi voltai dall’altro lato e Morfeo tornò a prendermi. Due ore più tardi avevo ancora gli occhi impastati di sonno, ma ero sveglia e decisamente più riposata.

 

 Erano tre ore di macchina da casa mia alla costiera, quindi mi misi ben in testa di non scartare i tramezzini di mia madre prima di un’ora e mezza.  Faceva un caldo bestiale. Scesi al piano di sotto per fare colazione, con ancora indosso la maglia di mia mamma di quattro taglie più grandi come pigiama, e poi andarmi a mettere dei vestiti decenti.

 "Annarè, sei pronta?" chiese -urlò dall’altra stanza- mia mamma, piu' euforica di me di certo.

 Il nome di base è Anna, da mia nonna che si chiamava così, ma almeno quattro delle mie cugine si chiamavano allo stesso dannatissimo modo e io ero la più piccola, tutti si sentivano autorizzati a storpiarmi il nome con cose astruse come “Annarella”, “Annuzzella”, “Nina”, “Nannina” e diamine, il peggiore di tutti era uno.

 Annuccia.

 Dico solo che mio zio risolveva la faccenda chiamandomi Cannuccia.

 "Mh-mhmh”, risposi sedendomi al mio solito posto. Certo che dovevo proprio aver dato sfoggio delle mie abilità da oratrice. Non c’era niente da fare, una mia caratteristica era che appena sveglia non riuscivo a parlare. Proprio non riuscivo ad aprire bocca. Era come se le mie labbra fossero incollate.

 Figurarsi quando poi qualcuno osava rivolgersi a me con parole offensive tipo ‘buongiorno’.

 Presi la solita tazza di latte e caffè e qualche biscotto annacquato, salii sopra a prepararmi fisicamente e psicologicamente. Tempo dopo fui pronta, ma come al solito c’era mia madre che doveva fare l’inventario di tutto quello che avevamo caricato in macchina, altrimenti si sarebbe sentita male.

 L’irritazione salì oltre la troposfera.

 Ci eravamo trasferiti in questa casa quando avevo quattro anni e ricordo benissimo di aver scelto io il colore e il letto della mia nuova -ormai vecchia- camera. Aveva la testiera in ferro battuto bianco, deformato fino a formare tanti piccoli fiorellini bianchi. Le pareti erano di un lilla chiaro, poi mamma e papà scelsero i comodini, l'armadio e la scivania in legno scuro.  Nel corso degli anni l'avevo decorata secondo il mio stile: c'erano parecchie foto di paesaggi attaccate alle pareti, foto di me con i miei amici di scuola, foto di me da piccola, dei disegni sulle ante dell'armadio e un cartello appeso alla porta che recitava: " Non entrare senza il permesso di Anna", che feci quando avevo sette anni.

 Sì, ho sempre avuto il caratteraccio.

 Passò così un’altra mezz’ora e avevo accumulato abbastanza autocontrollo per non rispondere a monosillabi, quando mi chiamarono pronti a partire.

 “Però potevamo aspettare Capodanno per partire.”

 La mia lingua lunga mi avrebbe portato solo guai, ma non avevo resistito.

 Passai le successive tre ore a leggere, mangiare i tramezzini -dopo dieci minuti erano già finiti- e ascoltare la radio su qualche stazione sconnessa, mentre mamma e papà parlottavano tra loro. Morfeo doveva avere nostalgia di me, dato che dopo un’ora mi venne già a prendere. Avevo i segni della tappezzeria dei sedili impressi su tutte le braccia, quando mi svegliai che già si vedeva il mare dal finestrino.  Poco dopo mio padre parcheggiò la macchina nel vialetto di una piccola villetta bianca, con le finestre e le porte dipinte di rosso e tanti fiori sull'enorme terrazza. C'erano molte finestre, credevo fossero per far passare più velocemente l'aria e far rinfrescare la casa prima di morire sciolti a terra.  La villetta di mio zio era a cinque minuti dalla spiaggia e dal piccolo paesino che la contornava.  Il salotto aveva i pavimenti di mattonelle di un fresco color verde acqua, mentre le pareti menta erano coprete da vari mobiletti pieni di tazzine, portacenere, bomboniere e le classiche cazzate che si schiaffavano nelle vetrine per vantarsi delle ceramiche. C'era una scala a chiocciola in legno che portava al piano superiore dove c'era la cucina, uno dei bagni e l'accesso alla terrazza. Nella parte destra del salotto c'era una porta che presumevo portasse alle camere da letto. Esplorai per un po' la villetta e vidi con piacere che dalla finestra della mia camera  (un divano letto, un comodino e un armadio in legno non si potevano chiamare così) si vedeva il mare. Uscii fuori, ma non c'era niente di interessante a parte la strada, gli alberi che nascondevano le altre villette e la Vespa bianca di mio zio.  A valigie disfatte, decisi su due piedi che avrei esplorato un po' il paese -figurarsi se potevo andare in spiaggia da sola- mi armai di borsetta a tracolla (acqua e un po' di spiccioli) e chiesi il permesso a mamma. Temevo avrei dovuto cacciare la revolver e minacciarla, ma riuscii ad ottenere la mia amata libertà. Feci qualche passo in strada e dopo qualche minuto di vagabondaggio tra i famosi vicoletti caratteristici del paese, mi trovai in quella che pensai fosse una piazza, un enorme spiazzo o quello che cavolo era, dal momento che era un grande spazio libero, circondato da antichi palazzi e su un lato si trovava un bar gramito di turisti che si godevano il proprio gelato seduti nei tavolini disposti all'esterno.

 Ogni tre secondi dovevi stare attento a non farti investire da qualche tedesco dai sandali con i calzini bianchi sotto.

 Fick dich, Deutsche.

 

 A forza di dare spallate a destra e a manca, riuscii a comprare un ghiacciolo al limone con gli spiccioli che avevo in borsa. Capirai quante lire avessi.  Mi sedetti sull’angolo più isolato della balaustra in cemento che dava sul bellissimo panorama del mare, gli scogli e la spiaggia piena di gente.  Era impossibile ascoltare il lento infrangersi delle onde sugli scogli, il gridolio eccitato dei gabbiani che si tuffavano in acqua che tanto descrivevano i miei amati scrittori, dato il vocio continuo che aleggiava nell’enorme piazza.

 Però una cosa riuscivo a sentirla.

 L’aria aveva il sapore del sale.

 Avevo chiuso gli occhi per godermi quella brezza che riusciva a scavalcare i corpi informi, quando non sentii più il bastoncino di legno tra le dita.

 “E questo lo chiami gelato?”

   
 
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