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Autore: Adeia Di Elferas    05/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Siete certi che questo Bastiano Pescatore sia davvero una spia di Piero Medici?” chiese Caterina, gli occhi cerchiati per le pochissime ore di sonno.

L'aria nella stanza era ferma. Dal camino arrivavano gli ultimi sprazzi di calore delle fiamme che andavano spegnendosi. L'odore rarefatto di quella strana notte persisteva ancora nelle narici della Leonessa, ma lei per prima faceva finta di non farvi caso.

Alla sua domanda, l'Oliva annuì e altrettanto fece Luffo Numai. Siccome, però, a dare la notizia per primo era stato Ottaviano Manfredi, la donna guardò lui.

L'uomo, che aveva seguito gli altri due quando erano andati a cercare la Tigre nella sua tana, quasi faticava a tenere il contatto visivo con lei. Quando avevano bussato, avevano dovuto aspettare che si infilasse una vestaglia, perché era nuda, e poi, quando erano entrati, il faentino aveva visto il letto sfatto, ridotto a una rivoluzione di coperte e guanciali, aveva sentito nell'aria un sentore caldo che ben conosceva e aveva capito che la sua Tigre, quella notte, non era rimasta da sola.

“Manfredi, l'informazione che hai avuto è solida?” chiese a quel punto la Contessa, mettendo da parte la rabbia che ancora provava per il suo amante.

L'uomo annuì: “Sì. Stanotte ho incontrato una persona che mi ha tolto ogni dubbio in merito.”

Caterina si passò una mano sulla fronte e poi tra i lunghi capelli bianchi e infine concluse: “Non è molto, ma dobbiamo prenderlo. Lo faremo prigioniero e lo terremo buono come merce di scambio, ma nel frattempo gli estorceremo tutte le notizie possibili.”

Ottaviano sentiva ancora la testa pulsare un po', per via del troppo bere della sera prima, ma si sentiva lucidissimo e pronto all'azione, così si propose subito: “Dammi un manipolo di soldati e vado a catturarlo io.”

La Sforza lo fissò per un momento, gli occhi verdi che incrociavano – per la prima volta dopo il loro ultimo litigio – quelli azzurri dell'uomo: “No, sarebbe una follia. Ti sei già compromesso abbastanza con la questione di Bentivoglio e con le tue incursioni nel faentino, non credi?”

Manfredi non disse nulla, limitandosi a stringere le labbra, un po' contrariato. Aveva udito nelle parole della donna una sorta di rimprovero, quando, invece, tutte quelle azioni militari erano state ordinate proprio da lei.

“Preferisco mandare uno dei miei.” concluse la donna, stringendosi un po' nella vestaglia, infreddolita: “Oliva, pensate a localizzare in modo preciso questo Pescatore. Numai, dite al Capitano Mongardini che selezioni entro un'ora una squadra di uomini scelti da mandare nel cesenate per catturare questo amico del Fatuo. Voglio che sia qui alla rocca entro sera, sono stata chiara?”

Tanto il milanese, quanto il forlivese annuirono e così la Contessa lasciò loro intendere di voler restare un momento da sola con Ottaviano.

L'Oliva, discreto, fece un profondo inchino e uscì per primo. Luffo, invece, celando in modo più maldestro la sua curiosità, non resistette e diede un'ultima approfondita occhiata alla tana della Tigre, immaginandosi chissà quali scenari e quali situazioni scabrose. Poi, forse rendendosi conto di quanto le sue vecchie guance velate da ispida barba bianca si stessero facendo colorite, fece anche lui un abbozzo di inchino e se ne andò.

“Allora? Vuoi spiegarmi meglio questa storia di Firenze che ti ha fatto un richiamo? Sei stato dichiarato un traditore?” chiese Caterina, appena lei e Manfredi rimasero soli.

Il faentino controllò che la porta fosse ben chiusa, prima di risponderle. Era stanco e avrebbe tanto voluto gettarsi su quel letto sfatto, anche se le lenzuola avevano addosso l'odore di un altro uomo, e dormire per qualche ora. Dopo la festa, era andato al bordello con Ottaviano, ma, appena dopo essere stato con una delle ragazze, aveva incontrato per caso l'informatore con cui aveva appuntamento il giorno appresso. Era stato lui a ragguagliarlo su Bastiano Pescatore.

Sospirando, la testa pesante per l'eccesso di vino della sera prima, Manfredi rispose: “Mi hanno chiesto spiegazioni della mia partenza improvvisa. Ho risposto, rivolgendomi direttamente alla Signoria, per rendere chiara la mia posizione. Attendo una risposta il prima possibile.”

“Cosa hai scritto di preciso?” indagò la Leonessa, non gradendo troppo il tono vago usato dal suo amante.

“Quello che dovevo.” fu l'unica risposta che ottenne.

Con un sospiro profondo, la Sforza scosse appena il capo e poi chiese: “Almeno voglio sapere questo: rischio qualche punizione o accusa da parte di Firenze, tenendoti in casa mia?”

“Se fosse così, non sarei più qui, te lo posso assicurare, Tigre.” disse Ottaviano, sfoggiando il suo solito sorrisetto.

Non riuscendo a non fidarsi di Manfredi, Caterina tentennò ancora un istante, ma poi disse: “E va bene.” lo tirò a sé e gli diede un bacio veloce, quasi distratto, come se non volesse indugiare troppo sulle sue labbra sia per non permettergli di riconoscere il sapore amaro del vino sulle proprie, sia per non sentirlo su quelle di lui: “Se vuoi, tra un paio di notti ti aspetto qui.”

Il faentino sollevò l'angolo della bocca, felice per quell'invito, ma poi, accigliandosi, domandò: “E stanotte no?”

“No, stanotte no.” rispose senza intonazioni particolari la donna.

“Domani notte nemmeno?” insistette lui, facendosi un po' più burbero nel tono.

“No.” ribadì lei: “Ho altro da fare.”

Manfredi avrebbe tanto voluto chiederle che cosa, di preciso, ma non osò farlo. E fece bene, perché probabilmente la Contessa gli avrebbe risposto con una bugia.

La verità era che nei suoi progetti, fin da quando si era risvegliata, c'era un'uscita nei boschi all'alba del 26 dicembre – che andava preceduta da qualche ora di sonno tranquillo e senza uomini a distrarla – e una notte di sosta alla Casina. Voleva riflettere, e l'anniversario della morte del Duca Galeazzo Maria Sforza le pareva una buona data per farlo.

“Allora aspetterò che sia dopodomani notte.” concluse Ottaviano, tornando alla porta, con la Leonessa alle spalle, pronta a chiuderlo fuori.

L'uomo fece un mezzo respiro e poi, evitando di guardare la sua amante, occhieggiò verso il letto sfatto e si morse il labbro.

Era una curiosità futile, la sua, che non avrebbe portato assolutamente a nulla, anche se soddisfatta, ma non riuscì a resistere e domandò: “Con chi sei stata stanotte?”

“Con un soldato.” rispose Caterina, senza scomporsi.

“E come si chiama?” indagò il faentino, riuscendo finalmente a tornare a guardarla in viso.

In quel preciso momento la Contessa si rese conto di non saperlo. Raramente chiedeva il nome ai suoi amanti occasionali, e, anzi, molto spesso precisava fin dall'inizio di non volerlo sapere, a meno che l'uomo in questione non fosse qualcuno che già conosceva.

“Non sono affari tuoi.” rispose, invece, preferendo nascondere a Manfredi quella sua particolare abitudine.

“Certo.” deglutì lui, visibilmente contrariato: “In fondo, nemmeno io sono rimasto da solo, questa notte.”

La donna allargò le braccia, come a dire che alla fine, quindi, erano alla pari, e gli indicò nuovamente l'uscio.

“Ah, devi dire a Numai che se Pescatore arrivasse alla rocca mentre non ci sono, che lo voglio al sicuro in uno dei rivellini. Che sia vivo e presente a sé stesso, quando lo incontrerò.” soggiunse la Sforza, mentre il suo amante era già in corridoio.

“Come la mia Tigre desidera.” fece Ottaviano, lanciandole uno sguardo un po' strano, quasi preoccupato.

 

Giovanni da Casale stava aspettando ormai da parecchio che il Moro gli concedesse l'udienza promessa.

Mentre raggiungeva lo studiolo in cui il Duca aveva deciso di farlo attendere, Pirovano si era imbattuto nel domine magister Leonardo, che, contrariamente al suo consueto fare schivo verso quelli che non riteneva alla sua altezza, si era fermato un momento a fissarlo, come rapito, per poi dirgli: “Siete stato notevole, alle giostre di questo dicembre...”

Giovanni aveva fatto un rigido inchino, osservando con attenzione i capelli lunghi e chiari dell'artista, così come i suoi abiti dai colori decisi e dalle stoffe preziose: “Siete troppo gentile, Mastro Leonardo.”

“È proprio vero quello che dicono su di voi e sulla Tigre di Forlì?” aveva poi chiesto il toscano, le labbra sottili che si stringevano un po', come gli occhi, forse per concentrarsi di più.

Pirovano, in effetti, per quanto fosse poco incline a seguire i pettegolezzi che lo circondavano, aveva sentito qualche cortigiano nominarlo assieme a Caterina, salvo poi zittirsi all'istante non appena si accorgevano della sua presenza.

Ringraziando la sua barba scura e fitta, che stava coprendo lo spiacevole rossore del suo collo, l'uomo si era fatto serio e aveva risposto: “Dipende da quel che si dice.”

“Lo prendo come un sì.” aveva allora commentato Leonardo, con un mezzo sorriso: “L'ho conosciuta anche io, qualche anno fa. Anche se le ho parlato per poco tempo, ho capito subito che non era una donna comune. Vi chiederei di salutarla da parte mia, ma dubito che il Duca vi darà la possibilità di tornare da lei...”

Giovanni aveva fatto finta che quella considerazione non gli desse alcun fastidio e, con un rigido inchino, si era congedato da Leonardo per poi entrare nello studiolo.

Quando finalmente il profilo tondeggiante di Ludovico Sforza si profilò sulla porta, il soldato stava ancora ripensando al suo strano incontro con il domine magister. Ciò che l'aveva portato a cercare un colloquio con il Duca era proprio la speranza di ottenere il permesso di tornare subito in Romagna. Le parole dell'artista, però, avevano smorzato molto le sue speranze.

“Allora? Di che volevate parlarmi?” chiese il Moro, mettendosi subito a sedere su una della poltroncine, evitando di permettere con un cenno del capo al suo ospite di fare altrettanto.

Pirovano allacciò le mani dietro la schiena, e, dopo essersi passato la lingua sulle labbra secche, provò a dire: “Ecco, mio signore... Adesso che i tornei sono finiti e che non vi servono più i miei servigi qui a Milano, credo che dovrei tornare agli affari della guerra, per difendere gli interessi degli Sforza.”

“Gli interessi di un solo Sforza: me. Ricordatevelo, Giovanni da Casale. Ricordatevi sempre chi vi ha concesso questo titolo e chi vi ha permesso di diventare quello che siete oggi.” fece a voce bassa Ludovico, gli occhi scuri e un po' pesti che tradivano una notte passata in bianco.

Giovanni deglutì abbastanza rumorosamente e poi, schiarendosi al voce ribatté: “So benissimo quanto vi devo. Ecco perché vorrei tornare subito al fronte, riprendendo il mio posto sul confine tenuto da vostra nipote...”

“Avete sentito dell'ammirevole mossa di Paolo Vitelli?” lo interruppe il Duca, grattandosi distrattamente il mento, come se stessero parlando del più e del meno.

Lo studiolo era ben illuminato e da fuori il cielo bianco di neve rifletteva un bagliore notevole. Lo strano clima di quella manciata di giorni che separavano l'anno vecchio da quello nuovo dava uno strano senso di irrealtà al Moro. E quella luce così sfolgorante, malgrado ci si avviasse al pomeriggio, contribuiva in modo pesante alla sua sensazione.

Siccome Pirovano taceva, lo Sforza proseguì: “Dicono che sia riuscito a cogliere di sorpresa quel diavolo di Bartolomeo d'Alviano, che lo abbia costretto a ritirarsi sui monti della Vernia e che gli stia mangiando villaggio dopo villaggio tutti i suoi avamposti.” e dopo un solo istante di silenzio sollevò lo sguardo verso di lui e chiese: “Sapete cosa significa?”

Il soldato annuì: “Che presto riuscirà a tagliargli la via dei rifornimenti e lo farà cadere per fame, costringendolo a una rotta, o, ancora meglio, riuscendo a decimare i suoi uomini prima di indurli alla resa.”

“Ecco!” esclamò il Duca, fingendosi entusiasta: “Ma lo vedete? Lo vedete che non posso fare a meno di un comandante sveglio come voi? Dunque, siccome dimostrate di avere tanto chiara la situazione, è davvero buon tempo che torniate agli affari bellici, lasciando perdere tutte queste pantomime da donnicciole...”

Giovanni da Casale non capiva dove fosse l'inganno. Il suo signore si era alzato, battendo le mani l'una con l'altra e andandogli incontro, le mani a cingergli le spalle.

“Ebbene, preparatevi a partire entro domattina.” disse il Moro, con un sorriso che all'altro piaceva davvero poco: “Vi mando al fronte, come mi chiedete voi.”

Incredulo dinnanzi a quella dichiarazione, Pirovano si accigliò e chiese, cauto: “E oltre a difendere le città di vostra nipote ho altri incarichi da...”

“No, no, dimenticatevi Imola e Forlì.” il tono dello Sforza, che già lo stava accompagnando alla porta, si era fatto molto più serio, quasi minaccioso: “Voi andrete a Montalone, da Paolo Vitelli e vi metterete al suo servizio. Voglio che Bartolomeo d'Alviano e Carlo Orsini rimpiangano di essersi messi contro di noi, in questa guerra.”

“Ma, io...” balbettò Giovanni, vergognandosi per la propria incapacità di trattenere le parole, e, ancor più, per il bruciore agli occhi, dovuto a una rabbia sorda che stava per concretizzarsi in lacrime.

Si sentiva un ragazzino, a reagire così, ma l'idea di non poter tornare da Caterina e, forse, di morire in guerra senza poterla riavere mai più tra le braccia era per lui una tortura che sfidava l'inimmaginabile.

“Ma voi niente.” lo zittì Ludovico: “Siete di mia proprietà, mi pareva di essere stato chiaro. Se tornerete da lei, sarete considerato alla stregua di un traditore, e lei verrà accusata di avervi nascosto alla giustizia del Ducato. Finirete tutti e due con un cappio al collo prima che ve ne rendiate conto.”

A quel punto Pirovano sapeva di non avere scelta. Sperare di non essere rintracciato e di potersi nascondere dalla Tigre era un'idea quanto meno sciocca. L'unica via per poterla riavere era quella di eseguire gli ordini e sperare che il tempo giocasse a suo favore.

“Come ordinate, Duca.” concluse Giovanni, con un inchino riluttante, mentre il Moro quasi lo faceva uscire di peso dallo studiolo.

“Fate buon viaggio.” lo salutò Ludovico: “Non è necessario che domani veniate a cercarmi, prima di partire.”

 

Caterina aveva passato la notte del 26 dicembre alla Casina, come aveva deciso, ed era tornata alla rocca solo il giorno appresso, quando il sole era già molto alto.

“Mia signora, Bastiano Pescatore è stato catturato. L'hanno preso mentre tornava a casa dai campi, vicino a Cesena.” la informò Cesare Feo, appena la vide rientrare.

La Contessa lo ringraziò per l'informazione e gli chiese di farlo portare alla rocca, dicendo che lo avrebbe interrogato nella celletta. Il castellano si prese un momento di silenzio, quando sentì quelle parole, ma poi annuì e disse che avrebbe provveduto all'istante.

Prima di dedicarsi al prigioniero, la Sforza voleva passare in camera per cambiarsi e levarsi di dosso la sensazione di gelida umidità che la lunga cavalcata sotto la neve le aveva lasciato.

Mentre raggiungeva le sue stanze, lungo il corridoio vide Cesare che, vestito di nero come suo solito, guardava fuori da una delle finestre del loggiato, intento a controllare cosa stessa capitando nel cortile di addestramento.

La Tigre avrebbe volentieri fatto finta di non vederlo, ma fu proprio il ragazzo ad accorgersi di lei e apostrofarla: “Ieri non avete presenziato alla Messa di Santo Stefano.”

“Non qui a Forlì.” precisò la donna, ricordandosi della serata trascorsa tra i ricordi e i tentativi disperati – e inutili – di raccogliersi in preghiera.

Il Riario sollevò appena un sopracciglio, e poi, stringendo prima un po' i denti, chiese: “Ci sono novità riguardo alla mia partenza?”

La donna fu costretta a rispondere: “Per il momento no. Tuo cugino Raffaele non mi ha ancora scritto. Credo che al papa risulti un po' indigesto il cognome di tuo padre, ma alla fine so che concederà il permesso di farti avere la carica di Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Pisa.”

Il giovane non pareva comunque soddisfatto delle parole della madre e fu sul punto di aggiungere qualcosa in merito, salvo poi cercare di convincerla ad affrettare i tempi con una strategia molto più fine: “Vedo che vostro figlio Bernardino è un inetto, con la spada.” disse, indicando con il capo la finestra, lasciando intendere che fino a un momento prima avesse osservato con occhio da esperto il bambino alle prese con le armi.

“Bernardino è tuo fratello.” gli ricordò Caterina, ben sapendo che Cesare aveva scelto quel modo di esprimersi al solo fine di farla arrabbiare.

“Resta un inetto, come suo padre.” disse lapidario il Riario, riuscendo a sostenere lo sguardo della Contessa.

Di tutti i difetti che Cesare aveva preso dai suoi parenti, quella sfrontatezza che aveva un vago retrogusto di coraggio, la Tigre doveva ammetterlo, ricordava più il ramo sforzesco che non quello savonese.

“Scriverò di nuovo a tuo cugino. Se dovesse ancora perdere tempo, prima ti manderò per qualche tempo da mio zio, a Milano. Magari verso Carnevale.” decise di punto in bianco la Contessa, sentendo il sangue ribollire e volendosi impedire colpi di testa eccessivi: “Vedrai che cos'è il mondo fuori da questa rocca, almeno.”

Quella prospettiva parve paralizzare per qualche momento il giovane, che, riprendendosi lentamente, chiese: “Credete che sia appropriato mandarmi a Milano?”

“Ludovico mi deve ancora molti favori – spiegò la Leonessa, ben sapendo che, a voler fare i calcoli per bene, forse sarebbe stato più giusto dire il contrario – quindi non potrà rifiutarsi di ospitare un mio rappresentante per il Carnevale.”

Il ragazzo annuì, un po' rigidamente e concluse: “Sappiatemi dire quando partirò, affinché sia pronto e mi sia confessato.”

“Non mancherò di farlo, prete.” gli disse la madre, con un tono quasi canzonatorio che riassumeva alla perfezione gli anni di incomprensioni e silenzi che avevano guastato per sempre il loro rapporto.

 

Lorenzo il Popolano prese l'ultima di una lunga serie di lettere della Tigre di Forlì e l'accartocciò, gettandola poi nel fuoco.

Continuava a scrivergli per fargli sapere che era senza denari, che il suo esercito avrebbe presto patito la fame e che si sarebbe trovata nei guai per colpa di Firenze, se non l'avessero aiutata.

Aveva anche avuto la faccia tosta di ricordargli come stesse ancora aspettando di ricevere la sua parte di eredità, perchè, sosteneva, essendo moglie legittima e madre del figlio di Giovanni, le spettavano le sostanze del defunto marito affinché potesse assicurare un futuro al bambino.

“Tutte idiozie...” borbottò tra sé il Medici, passandosi pensoso una mano sul ginocchio, mentre l'altra restava a mezz'aria, memore del lancio della lettera nel camino.

“Come?” chiese Semiramide, che era appena entrata nel salottino e portava ancora addosso un pesante mantello bordato di pelliccia.

Quel giorno non nevicava, né tirava vento, ma il freddo secco che si era posato su Firenze era più penetrante della pinza di un barbiere: sembrava riuscire a scavare le ossa, fin quasi a rompere il fiato nei polmoni.

Se non avesse avuto delle commissioni urgenti da fare, l'Appiani non avrebbe lasciato il palazzo per nessun motivo.

Siccome non ottenne risposta dal marito, la donna andò verso il camino, protendendo le mani verso le fiamme, per scaldarsi un po'. Aveva ancora il naso arrossato e sentiva il viso tornare sensibile un poco per volta.

Distrattamente, guardò alla base del fuoco, dove la legna si stava consumando poco per volta, e intravide un angolo chiaro che pareva proprio un foglio che si stava trasformando in cenere: “Hai gettato una lettera nel camino?” chiese, guardando Lorenzo da sopra la spalla.

“Che altro dovevo fare, con un'altra richiesta di soldi da parte della Lupa di Forlì?” chiese l'uomo, senza intonazioni, ma con una luce malevola negli occhi.

A Semiramide dava molto fastidio, quando la chiamava così. Era il suo modo di storpiare il soprannome 'Tigre', dandogli una valenza completamente negativa, in memoria delle lupae romane.

Era sempre un termine meno volgare di altri, ma voleva pur sempre dire meretrice.

“Dovresti fare pressioni alla Signoria, affinché le accordino un prestito.” fece l'Appiani, voltandogli di nuovo le spalle e tornando a scaldarsi al fuoco del camino: “In fondo quella donna sta rischiando tutto solo per proteggere questa città. E lo sta facendo in memoria di Giovanni.”

Lorenzo, nel sentire ciò, si alzò di scatto dalla sua poltroncina e commentò, a denti stretti: “Ecco perché le donne non devono fare politica.”

Semiramide si accigliò e si voltò in fretta, ma non abbastanza per riuscire a fermare il marito che, con passi lunghi e distesi, era andato rapidamente verso la porta, lasciandola sola.

Massaggiandosi lentamente la fronte con le dita che stavano cominciando a tornare tiepide, la donna si domandò come fare per recuperare suo marito. Da Natale aveva ripreso a parlarle un po' di più e, inspiegabilmente, la notte prima era riuscita a portarlo nella sua stanza. Però quell'ostilità di fondo che li stava allontanando non se ne andava.

'Se solo ci fosse ancora Giovanni – pensò l'appiani, staccandosi finalmente dalle fiamme e sedendosi laddove fino a pochi istanti prima c'era stato suo marito – saprebbe come fare per sciogliere questo disastro'.

 

Mentre scendeva le scale per raggiungere il prigioniero, la Sforza aveva sentito lo stomaco agitarsi e una forte nausea stringerle la gola. Si era subito detta che la causa fossero i ricordi che quel percorso verso i suoi Inferi personali. In fondo, aveva fatto quelle scale ogni giorno, quando era morto Giacomo, e poi, sempre più di rado, per molte notti, fino a che aveva imparato a gestire la sua sete di sangue.

“Avete bisogno di un aguzzino, mia signora?” chiese il Capitano Mongardini, che l'aveva scortata fino nelle segrete.

La Contessa fece un breve colpo di tosse, più per scacciare il senso di nausea che per schiarirsi la voce, e rispose: “No, non sarà necessario. Fate solo che alla porta ci siano due guardie.”

Il Capitano chinò il capo e sentì un brivido corrergli lungo la schiena: durante il lungo periodo di repressione seguito alla morte del Barone Feo, i prigionieri che se l'erano vista peggio erano stati quelli caduti nelle mani della Tigre, piuttosto che quelli passati sotto i ferri degli aguzzini.

La celletta degli interrogatori era illuminata quasi a giorni. Fuori soffiava un vento gelido e violento che però non riusciva nemmeno a sfiorare quell'ambiente così scavato nella terra.

Caterina aveva preso, appena prima di entrare, una spada spuntata e l'aveva poi appoggiata al muro, decisa a non usarla, a meno che non ve ne fosse una reale necessità.

“Siete voi, Bastiano Pescatore?” chiese, guardando l'uomo che le stava davanti.

Era seduto un po' curvo su uno sgabello. Sul viso non portava segni di percosse, ma era chiaro che non avesse chiuso occhio da quando era stato catturato. Aveva le mani legate dietro la schiena, ma i piedi liberi. Quella era stata una leggerezza, da parte del carceriere che l'aveva portato lì.

La Contessa fu tentata di chiamare qualcuno affinché sistemasse meglio Pescatore, ma lasciò perdere. Non voleva fargli pensare che lei potesse avere paura di lui.

Il prigioniero sollevò appena gli occhi. I capelli scuri e radi erano incollati alla testa da un velo di sudore gelato. Benché non facesse affatto caldo, anche il suo camicione erano madido. Non era difficile capire quanto fosse agitato.

“Sono io, Bastiano Pescatore.” disse alla fine, inclinando appena la testa di lato.

“Siete di Faenza?” chiese la Tigre, colpita da una pronuncia che aveva imparato a riconoscere, negli anni passati in Romagna: “Non siete di Cesena?”

Siccome l'uomo viveva ed era stato catturato nel cesenate, la Sforza aveva dato per assunto il fatto che fosse di quelle parti.

“Sì, sono originario di Faenza.” confermò lui, apparentemente più calmo, forse rincuorato da quelle chiacchiere, quando invece si era atteso percosse fin dal primo momento.

“Siete amico di Piero Medici di Firenze? Lo state aiutando per arrivare fino alle mie terre?” gli domandò la Contessa, in piedi davanti a lui, le mani strette in grembo.

L'atteggiamento del prigioniero cambiò abbastanza repentinamente. Le labbra serrate e gli occhi annoiati, si mise a guardare altrove, come se all'improvviso la sua interlocutrice non vi fosse più.

“Rispondetemi.” intimò lei, senza successo.

Colta dalla rabbia che covava nel suo spirito e cercava una scusa qualsiasi per uscire allo scoperto, la Tigre sollevò un braccio e diede un forte colpo a mano aperta sul viso ruvido di barba di Pescatore: “Rispondetemi!”

Sentendo lo schiaffo più come un danno morale che fisico, l'uomo la guardò con occhi di fuoco e poi, sputando in terra, esclamò: “Sì! Sì, sono io!”

“Perché brigate con Piero? Perché vi opponete a Lorenzo?” chiese la Sforza, che, in realtà, prima avrebbe voluto domandare notizie sugli spostamenti dell'esercito, ma che ormai si stava lasciando prendere la mano.

“Lorenzo il Popolano? Siete davvero sicura che quello sia un uomo degno di Firenze?” chiese il prigioniero, sollevando il mento e fissandola con aria di dileggio: “Solo perché vi portavate a letto suo fratello non significa che lui sia il giusto signore della Repubblica.”

La Contessa provò a sorvolare sul tono e sulle parole di Bastiano Pescatore e andò oltre: “Cosa vuole fare, adesso, Piero? Quali sono i suoi piani?”

“Io non mi vendo, tanto meno a una sgualdrina e a una strega come siete voi.” sussurrò l'uomo, sputando di nuovo, questa volta mancandola per pochi centimetri: “Se quel poveraccio di Giovanni Medici s'è lasciato incantare dai vostri modi da meretrice, io non mi lascerò comprare nemmeno in cambio della mia stessa vita. Non sono uno stupido, a differenza sua.”

Gli insulti gratuiti alla memoria di Giovanni furono troppo, per Caterina. Mandando all'aria tutti i suoi propositi di trattare il prigioniero con tutti i riguardi possibili, al fine di estorcergli notizie e magari usarlo come merce di scambio, crollarono tutti assieme.

Con un ringhio che la rendeva la belva che tutti la credevano, la donna si avventò su Bastiano Pescatore, che, per quanto avesse le gambe libere, non riuscì a sfuggirle. Riverso in terra, quasi privo di sensi dopo i primi pugni al volto, l'uomo poté solo cercare di resistere, mentre la Tigre, con la sua forza ritenuta da tutti – e non a torto – sovrumana, lo riempiva di colpi e calci, con una frenesia che, se non si fosse fermata presto, l'avrebbe di certo condotto alla morte.

 

 
   
 
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