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Autore: Adeia Di Elferas    06/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina sentiva le mani viscide di sangue caldo dolere per i colpi che continuava a infliggere a Bastiano Pescatore, che, accasciato in terra, ricurvo in avanti, non cercava nemmeno più di difendersi, riuscendo a mala pena a gemere ogni volta che i pugni della Tigre raggiungevano le sue carni.

Non sapeva da quanto stava andando avanti. Aveva sentito l'osso del naso del prigioniero rompersi, a un certo punto, e poco dopo la stessa sorte era toccata a uno zigomo e a qualche costa, ma quella serie di sensazioni orribili e al contempo tante ferine da inebriarla non l'aiutavano a capire da quanto tempo lo stesse percuotendo.

Risentiva ancora nelle orecchie le parole che quell'uomo aveva osato dirle e ciò non faceva altro che rinverdire la violenza dei suoi colpi.

Tuttavia, mentre sollevava ancora una volta il pugno chiuso, diretto agli occhi già tumefatti del faentino, una tragica consapevolezza. Aveva intravisto, nella cecità della rabbia, il nodo nuziale che portava ancora all'anulare.

Sul dito, contratto come gli altri nel tenere salda la presa su Bastiano Pescatore, quel simbolo di fedeltà e amore riluceva come un monito.

Vederlo sporco di sangue fu un'epifania. Era come se suo marito fosse accanto a lei, in quel momento. Era come se quel sangue stesse lordando anche lui.

Caterina si rese conto di star riducendo in fin di vita un uomo perché aveva insultato lei, ma soprattutto perché aveva insultato Giovanni. Ma se Giovanni avesse potuto davvero vedere e sapere quello che stava facendo...

Con la mano che avrebbe dovuto sferrare il pugno ancora a mezz'aria, Caterina si bloccò di colpo, senza fiato. Lasciò andare di scatto il bavero del camicione del prigioniero, e questi ricadde al suolo privo di sensi, ma ancora vivo.

La Sforza deglutì rumorosamente, tirandosi in piedi. Guardò il risultato del suo eccesso d'ira e per qualche istante non riuscì a fare altro che restarsene immobile a contemplare una scena che si era ripromessa di non dover più vedere.

Bastiano Pescatore era immoto, solo il torace che si sollevava e si abbassava scompostamente denunciava il fatto che non fosse morto. Il viso era gonfio e pesto, una maschera di sangue, praticamente irriconoscibile. I suoi abiti – come quelli della Contessa – erano imbrattati di rosso e anche sul pavimento c'erano i segni di quella mancata mattanza.

La Tigre fece un paio di respiri molto fondi e poi, le mani strette a pugno lungo i fianchi, decise di andarsene, prima di perdere di nuovo il controllo in qualche modo.

Uscì dalla cella e disse, quasi meccanicamente, alle due guardie: “Riportatelo nel rivellino. Che venga curato e assistito. Non deve morire per nessun motivo, intesi? Questo prigioniero ci serve vivo.”

I due uomini annuirono e andarono a controllare in che stato fosse Pescatore, mentre la loro signora andava a passo svelto verso le scale.

Aveva i capelli scompigliati, qualche ciuffo niveo che le finiva sul volto, mentre faceva i gradini a gran velocità. Non osava metterseli a posto, però, perché sapeva di avere le mani piene di sangue.

“Madre!” la voce di Bianca la risvegliò dallo stato catatonico in cui era sprofondata e così si rese conto all'improvviso di essere già arrivata al piano superiore.

La figlia era appena uscita dalla stanza di Giovannino e non aveva potuto far a meno di richiamare l'attenzione della madre, quando l'aveva vista con gli occhi vitrei e in uno stato di tale agitazione.

“Cos'è successo?” le chiese, posandole una mano sul braccio, fissandola in volto, preoccupata.

La Tigre registrò silenziosamente come quello fosse il primo vero contatto tra lei e Bianca, da quando l'aveva vista con quel ragazzo la notte di Natale. Tuttavia, in quel momento, non aveva alcuna voglia di riaffrontare quell'argomento – anche se, lo sapeva, sarebbe stato bene farlo, prima o poi, vista la situazione – e così decise di concentrarsi solo sulla domanda che le era stata posta.

“Ho solo interrogato un prigioniero.” disse, con un filo di voce.

Bianca si diede una rapida occhiata in giro e si accorse con sollievo che, a parte una domestica che stava sparendo nella tromba delle scale, lei e la Contessa erano sole.

“Meglio che andiamo nella vostra camera.” disse, scrutando i suoi occhi ancora confusi e scoprendo che sul suo viso c'erano piccoli schizzi di sangue: “Vi vado a preparare un po' di vino caldo... E vi porto anche dell'acqua per lavarvi un po', se volete.”

La Sforza accettò silenziosamente e si lasciò accompagnare fino in camera. In attesa che sua figlia tornasse con il vino e l'acqua, la donna restò seduta sul letto, a fissarsi le mani.

Era riuscita a fermarsi, quella volta, ma sentiva ancora in modo prepotente la forza dei colpi che aveva inferto al prigioniero e sapeva che, se non fosse stato per quel breve sprazzo di lucidità, probabilmente avrebbe finito per ucciderlo. Sempre che fosse ancora vivo... L'aveva picchiato con tanta cattiveria che forse i soccorsi sarebbero stati tardivi e vani.

Era nel mezzo di un sospiro tremulo, che accompagnava il pensiero di quello che anche suo figlio Ottaviano si era dimostrato capace di fare con le donne indifese che erano finite sotto le sue mani, e quello che, forse, un giorno avrebbe potuto fare Bernardino con il suo spirito inquieto e la sua propensione alle risse, quando la porta si riaprì.

“Appoggialo lì, al resto penso io.” disse piano Bianca che, accompagnata da una serva sua fedele amica, aveva portato in camera una brocca di vino caldo speziato e una bacinella colma di acqua tiepida.

La cameriera se ne andò subito, con una brevissima reverenza a Caterina, e la Riario chiuse subito la porta.

“Volete prima il vino o preferite prima sciacquarvi..?” domandò la ragazza, guardando la madre con un velo di incertezza.

La Tigre guardò la brocca fumante di vino, appoggiata sulla scrivania, accanto a uno dei libri di Giovanni. Poi abbassò gli occhi sulle sue mani. Tremavano leggermente.

Deglutì e infine disse: “Il vino.”

Bianca eseguì l'ordine con solerzia, porgendole quasi subito un calice di legno riempito fino all'orlo. La Contessa annusò un momento l'aroma pieno che ne saliva in piccoli rivoli di vapore. La stanza era molto fredda, perché il camino era spento almeno da un paio di giorni. Dapprima non l'aveva fatto accendere perché aveva passato la notte nella sua tana, e dopo perché era stata alla Casina.

Un po' per far fronte alla temperatura bassa e un po' per sviare l'attenzione della figlia dal suo lieve tremore, la donna le disse: “Accenderesti il fuoco?”

Bianca non si fece pregare e cominciò ad armeggiare con il camino. Forse altre ragazze nobili della sua età non avrebbero nemmeno saputo da che parte prendere, per portare a termine un simile compito, ma la Riario sapeva bene come muoversi.

Sua madre provò un piccolo moto d'orgoglio, nel saperla così indipendente. Crescere in una rocca piena di soldati, istruita da precettori per lo più d'estrazione popolare, e vivere a stretto contatto con gente di ogni tipo, senza la maggior parte delle comodità destinate ai più ricchi stava facendo di Bianca una donna capace di cavarsela anche da sola e, in un modo come quello, una simile abilità poteva fare la differenza tra la vita e la morte, in caso di bisogno.

La Sforza sentiva il calore del vino che iniziava a spanderlesi nel petto e si sentì molto rinfrancata.

La nebbia che aveva riempito la sua mente andava diradandosi e anche il fremito alle mani stava passando.

Vuotò il calice, sentendo il ruvido legno intagliato sfiorarle le labbra come il bacio di un amante inesperto e quella sensazione grezza, ma allo stesso tempo piacevole, la riportò indietro alla notte di Natale.

Bianca ormai aveva finito di accendere il camino e stava armeggiando un po' con il ferro, per ravvivare la fiamma. Caterina la fissava in silenzio, osservandone i lunghi capelli biondi e il profilo elegante. Quando assumeva certe pose, le ricordava tantissimo sua madre Lucrezia.

Con un colpetto di tosse, che scacciò il nodo che le stava stringendo la gola, la donna si alzò e andò alla bacinella di acqua posata sul mobile accanto alla porta.

Avrebbe voluto parlare con sua figlia di tante cose, alcune molto serie, ma non sapeva da che parte prendere.

“Passami quel pezzo di sapone.” sussurrò la Tigre, indicando alla figlia l'angolo in cui teneva le sue creme e gli altri oggetti dedicati alla cura del corpo.

La Riario prese il pezzetto di sapone scuro, originato da una mistura creata personalmente dalla madre, che si era basata su alcune antiche ricette che aveva ottenuto da alchimisti suoi corrispondenti epistolari, e glielo porse.

La Contessa si tolse il nodo nuziale, sciacquandolo nell'acqua tiepida, e poi iniziò a insaponarsi lentamente le mani. Mentre era intenta in quel lavoro certosino – reso difficile dal sangue che si era già seccato sulla sua pelle – si sentì bussare alla porta.

Chiesto chi fosse, la risposta arrivò dalla voce di Cesare Feo: “Ho un messaggio urgente da Faenza, mia signora.”

Caterina fece un cenno a Bianca che andò alla porta per prendere la missiva.

Il castellano aggiunse, prima di lasciare le due donne sole: “Il messaggero aspetta una risposta.”

“E l'avrà appena possibile.” tagliò corto la Leonessa, andando avanti a lavarsi le mani.

La giovane Riario si era raggelata, nel sapere che quella lettera giungeva da Faenza. Sapeva che Castagnino la voleva costringere a raggiungere Astorre a gennaio, e temeva che quella fosse la convocazione ufficiale.

Confidava in Ottaviano Manfredi, almeno in linea teorica, ma si rendeva ben conto che, per il momento, quell'uomo pareva più interessato a passare le notti con la Tigre di Forlì che non cercare di uccidere il signore di Faenza.

“Per favore, la leggeresti tu?” chiese la Sforza, immergendo le mani nell'acqua e preparandosi a detergersi anche il volto, decisa a levarsi di dosso i segni di quell'interrogatorio inutile e deleterio.

Bianca annuì, e cominciò a leggere. All'inizio aveva la voce un po' roca, per la tensione, ma presto capì che la missiva non la riguardava. Era una lunga arringa, a nome di Astorre, ma quasi per certo nata dalla mente di Castagnino, con cui il Manfredi chiedeva la liberazione immediata di Bastiano Pescatore.

“Dunque sanno già che l'ho catturato...” commentò a bassa voce Caterina, che aveva sperato di avere qualche giorno di vantaggio sui faentini.

La diciassettenne finì di leggere e poi chiese: “Cosa avete intenzione di rispondere?”

La Tigre, che se l'era presa comoda nel lavarsi, si fece passare uno dei teli appesi al suo mobile da bagno e, asciugandosi con cura, rispose: “Per il momento risponderò dicendo solo che la liberazione del prigioniero non dipende da me.”

Bianca si accigliò: “Ed è così.”

“Ovviamente no.” fu la pronta risposta della madre: “Vuoi un po' di vino?”

La ragazza fece segno di no, e così la Contessa lo versò solo per sé, andandosi a rimettere seduta sul letto.

“Ma il prigioniero... Insomma, è ancora vivo?” chiese la Riario, colpita da un dubbio improvviso.

Dopo la tragica morte del Barone Feo, ogni volta che la Leonessa si chiudeva nelle segrete per interrogare un carcerato, invariabilmente almeno un cadavere usciva poi dalla rocca, per essere gettato in qualche fossa comune. Poteva essere cambiata?

“Credo di sì. Almeno, me lo auguro...” fece la donna, sorbendo un po' di vino: “Ho chiesto di farlo medicare e curare. Per quello che posso pensare io, dovrebbe sopravvivere.”

Siccome la figlia se ne stava immobile in mezzo alla stanza, senza sapere cosa fare o cosa dire, la milanese provò a cambiare del tutto argomento: “Dimmi una cosa... Hai più rivisto, in questi ultimi giorni, quel ragazzo?”

Non ci fu bisogno di specificare a quale ragazzo si riferisse. La giovane arrossì e parve in seria difficoltà. Forse, pensò Caterina, era stato un errore nominarglielo.

“No, no...” scosse il capo Bianca, ritrovando la parola: “L'ho incrociato solo una volta, negli alloggi dei soldati, ma non ci siamo nemmeno parlati.”

Un po' le costava doverlo ammettere, ma quando lo aveva rivisto, si era sentita raggelare nel vedere il modo freddo in cui l'aveva fissata. Sembrava spaventato da lei e, allo stesso modo, era come se la stesse silenziosamente minacciando di non guardarlo nemmeno, temendo, probabilmente, che anche solo se si fossero rivolti la parola, per lui sarebbe arrivata una pena esemplare.

“Spero non sia solo colpa mia.” provò a dire la Contessa, saggiando una volta di più l'ottima qualità del vino che stava bevendo.

Erano stati avidi, con le vigne romagnole, ma dall'uva coltivata a Fortunago le arrivavano ancora ottime botti. Peccato che, se la guerra si fosse inasprita, far arrivare quel bene prezioso da tanto lontano si sarebbe presto rivelato una spesa superflua e da tagliare. Sempre, poi, che Fortunago non passasse in mano altrui con la forza.

“No, non è colpa vostra.” si affrettò a dire la Riario: “Anche se lui ci avesse provato, io non l'avrei voluto più. Avete ragione voi: era solo un coniglio.”

La Tigre non trattenne un sorriso abbastanza disteso che quella considerazione le aveva fatto affiorare involontariamente sulle labbra. Le faceva piacere, sentire che sua figlia aveva appreso quella piccola lezione e che, almeno a quanto diceva, la stava mettendo in pratica.

Sollevando il calice verso di lei, rimarcò: “Ci vuole un uomo, per amare una donna. I conigli lasciali a quelle che si accontentano degli scarti. Tu sei mia figlia, so che saprai scegliere bene.”

Finalmente anche Bianca si era lasciata libera di sorridere e per qualche istante nella camera della Contessa si respirò un'aria rilassata e familiare, difficile da trovare alla rocca di Ravaldino, in quel periodo.

“Che tipo di uomo ti piace?” chiese Caterina, guardandola con discrezione.

La ragazza deglutì e poi iniziò a rispondere: “Io, in realtà... Ecco... Credo che prima di tutto debba essere un uomo corretto. Non mi piacciono gli ipocriti. E dovrebbe essere anche solido di mente. E fisicamente... Io...”

La Sforza, che aveva posto quella domanda più per motivi pratici che non per curiosità, attendeva con pazienza che la figlia trovasse le parole per spiegarsi meglio, quando la porta si aprì di scatto.

Ottaviano Manfredi entrò nella stanza all'improvviso e rimase attonito, quando si accorse che oltre alla Leonessa era presente anche Bianca.

I lunghi capelli biondi un po' arruffati e gli occhietti azzurri che saettavano da una donna all'altra, il faentino ci mise qualche istante prima di riuscire a dire, rivolgendosi alla sua amante: “Ti stavo cercando e credevo fossi sola...”

“Come vedi non è così.” ribatté la Contessa, seria.

L'uomo si passò una mano sul giubbetto di raso scuro. Come la maggior parte dei suoi vestiti, portava con sé un'eco di passato splendore, che veniva quasi del tutto cancellato dallo stato d'usura del capo.

“E per stanotte?” chiese, prima di ragionare.

La verità era che doveva discutere con lei di molte cose e voleva farlo da solo e il prima possibile, ma il modo in cui si era espresso venne ovviamente frainteso dalla sua interlocutrice.

“Vuoi sapere se il posto è libero, in modo da trovare un rimpiazzo se io ti dicessi di no?” chiese Caterina, pungente.

Bianca non osava dire nulla. Si era fatta piccola piccola, standosene in disparte, indecisa se andarsene o meno.

Manfredi era teso. La lettera che gli era appena arrivata da Firenze, unita alle voci che aveva sentito su Faenza lo stavano facendo sudare freddo e l'atteggiamento della Sforza fu la goccia che fece traboccare il vaso.

“Va' al diavolo, Tigre.” sbuffò, sollevando una mano e tornando alla porta: “Quando ti sarà passata, cercarmi. Dobbiamo parlare.”

La Leonessa aveva capito dal suo tono che doveva esserci sotto qualcosa di serio, ma l'irritazione che aveva provato nel sentirlo parlare a quel modo, unita alla stanchezza che era tornata prepotentemente a fiaccarla, le aveva subito fatto perdere ogni voglia di indagare oltre.

“Volete restare sola?” chiese la Riario, scorgendo negli occhi verdi della madre una vena di tristezza e sfinimento che gliela fece apparire incredibilmente vecchia e provata.

“No. no...” fu la risposta: “Piuttosto... Vorresti aiutarmi a scrivere la risposta a Castagnino? Prendi il necessario per scrivere, che ti detto...”

Bianca annuì e fece quello che le era stato chiesto. Mentre sua madre, con una sicurezza sorprendente, le dettava una frase dopo l'altra, la ragazza sentiva un conflitto nascere dentro di sé.

Da un lato stava apprezzando quel momento di intimità, perché tale la si poteva considerare, in cui sua madre le stava mostrando in parte la sua debolezza, lasciandosi aiutare e a tratti consigliare.

Dall'altro, però, la faceva soffrire vedere la Tigre di Forlì in quello stato, non più belva indomita, capace di far fronte a ogni ostacolo continuando a ruggire, ma un predatore stanco e in difficoltà, più concentrato a difendere il proprio potere, piuttosto che a far sue nuove prede.

 

Papa Alessandro VI era soprappensiero, un tacco che batteva a ritmo spezzato sul pavimento coperto da un pesante tappeto orientale, e le mani giunte davanti al viso.

Il Cardinale Sansoni Riario stava parlando forse da mezz'ora, e il pontefice lo stava ignorando da almeno venti minuti. La sua mente era del tutto assorta nel pensare alla strana conversazione che aveva origliato quella mattina tra sua figlia e Alfonso d'Aragona.

Gli era parso che stessero parlando di un figlio, ma non era riuscito a capire esattamente in che termini.

Tutti, da Napoli a Roma, stavano aspettando la notizia del concepimento di un erede di Lucrecia e dell'Aragona, ma per il momento non era ancora successo nulla, benché i due fossero tutt'altro che avari, l'uno con l'altra.

Stringendo nervosamente le dita di una mano, nel pensare a sua figlia tra le braccia di un ragazzino come Alfonso – la cui unica qualità, a suo modo di vederlo, era una discreta bellezza – Rodrigo si chiese se Lucrecia potesse essere incinta. In fondo, non sarebbe stato strano, anzi, era molto più strano il contrario.

Però non voleva credere che non l'avesse messo a parte di una notizia simile, per di più con la pressione che stavano facendo gli Aragona, che già minacciavano – in parte in accordo con lui stesso – di far sciogliere il matrimonio.

Con un sospiro pesante, Alessandro VI si massaggiò la fronte, ipotizzando che forse Lucrecia e Alfonso stavano parlando di Giovanni, il figlio che lei aveva nascosto in convento, ma di cui lui, pareva, era stato messo al corrente proprio dalla moglie.

'Ma non è possibile fosse quello l'argomento – pensò stranito il papa – ridevano, erano troppo felici, per essere intenti a parlare di Giovanni...'

“E state zitto, maledizione!” sbottò alla fine il Borja, battendo con veemenza un pugno sul tavolo.

Raffaele si zittì all'istante, l'occhio sgranato e il cuore in gola. Era stato convinto per tutto il tempo che il Santo Padre lo stesse ascoltando e che il suo pallore e la sua apparente preoccupazione fossero da attribuirsi alle possibili implicazioni che fare di Cesare Riario Arcivescovo avrebbe comportato.

E, invece, quando il papa parlò di nuovo, al Cardinale fu chiaro che nemmeno una delle sue parole era arrivata davvero all'orecchio di Rodrigo.

“Fate le cose facili, Sansoni. Ditemi che cosa volete e basta. In una frase, se ne siete capace, che è già tardi e ho voglia di andare a dormire.” disse Alesssandro VI, occhieggiando un istante verso la finestra, oltre la quale Roma si perdeva nel buio della sera di fine dicembre.

“Voglio ufficialmente rinunciare all'Arcivescovado di Pisa e lasciarlo a mio cugino Cesare Riario, come vi avevo già anticipato.” si affrettò a dire il Cardinale, prima di essere interrotto o addirittura cacciato dal salone.

Il Borja si abbandonò contro lo schienale del suo seggiolone imbottito e appoggiò i palmi delle grandi mani sul tavolo: “In che rapporti è, vostro cugino Cesare Riario, con sua madre? Non mentite a Sua Santità: ditemi la verità.”

Raffaele abbassò gli occhi e lisciò la veste porpora sulle ginocchia: “Ecco, Vostra Santità... Non eccellenti. Non vi nascondo, anzi, che mio cugino stia cercando asilo nella Santa Chiesa proprio per evitare di restare presso la madre.”

“E perché siete così desideroso di provvedere al suo sostentamento lasciandogli un Arcivescovado così importante?” chiese il papa, ascoltando con attenzione ciò che il savonese stava riferendo.

“Perché sua madre non lo aiuterà. E perché sono in debito con mia cugina, madonna Sforza.” il modo in cui Raffaele deglutì nervosamente non sfuggì a Ridrigo, che però fece finta di nulla.

Sapeva, a grandi linee, di come la Tigre di Forlì non avesse alzato nemmeno un dito sui suoi due figli maggiori, tanto meno sul Cardinale, alla morte del Feo, il suo giovane amante, benché li sapesse mandanti dell'omicidio. Probabilmente, quello slancio di generosità di Sansoni Riario era da imputarsi solo ed esclusivamente alla paura di qualche vendetta tardiva.

“Se mi assicurate che questo Cesare non si rivelerà un problema per noi – concluse il Borja, che stava davvero crollando di sonno, dopo quella giornata di perplessità e dubbi – allora, fate pure preparare le bolle necessarie. Ma per il momento, come da accordi, formalmente sarà solo Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Pisa. L'Arcivescovado è suo, sia chiaro, ma non potrà ricevere i benefici che ne derivano almeno fino ai suoi ventisei anni. Sono stato chiaro? Che si faccia andar bene la paga di un Amministratore. Come sapete anche voi, non è certo un nonnulla.”

Il modo veloce e preciso con cui il Santo Padre si era espresso fece capire a Raffaele che, non solo si ricordava perfettamente i loro precedenti incontri per parlare di quella questione, ma che in fondo aveva anche già deciso e dunque la discussione di quella sera era stata solo una mera formalità.

“Vi ringrazio, Vostra Santità.” sussurrò il Cardinale, baciando l'anello piscatorio del Borja.

Questi lo scacciò quasi stesse mandando via una mosca, e lo congedò frettolosamente con un avvertimento: “Siate un bravo cristiano, e ricordatevi quello che vi ho detto in merito alla condotta che dovrà tenere vostro cugino. Che allenti pure i rapporti con sua madre il più possibile. Dovrà scordarsi di essere per metà uno Sforza il giorno stesso in cui prenderà i voti. Sono stato chiaro?”

Raffaele annuì più volte, andando verso l'uscio, e, augurata una santa notte al papa, sparì.

Rodrigo sbuffò, passando una mano sul viso e dicendosi tra sé che avrebbe dovuto farsi radere a fondo, il mattino seguente. Si stava trascurando troppo. Era preoccupato per Lucrecia e il non sapere lo stava uccidendo. E poi c'era suo figlio Cesare... Gli scriveva poco, dalla Francia, e aspettare le notizie giuste era una vera tortura.

Joffré aveva una situazione matrimoniale disastrosa e Rodrigo cominciava a chiedersi da quanto tempo lui e Sancha non si vedessero. Di quel passo, ne era certo, lei avrebbe finito per aspettare un figlio da un altro e i Borja sarebbero finiti sulla bocca di tutti, derisi come gli ultimi degli sprovveduti.

E poi, quando meno se lo aspettava, tornava il ricordo del suo Juan, del suo bellissimo e giovane Juan, freddo e senza vita, gonfio dell'acqua del Tevere, con solo trenta monete d'oro ad accompagnarlo negli inferi...

“Ah, Dio, Dio...” borbottò tra sé, alzandosi e prendendo una candela per andarsene in camera a dormire un po' in santa pace: “Perché te la prendi tanto con il tuo umile servo?”

 
   
 
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