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Autore: Persej Combe    07/10/2018    3 recensioni
Volevo soltanto sapere come stai, se nel frattempo sei riuscita ad alzarti dal letto. Che te ne pare di Kanto? Spero che le cose laggiù da quel Bill vadano bene.
Non mi ricordo, con quale Pokémon avevi detto che si era fuso? ...Ah, sì, ecco. Un Clefairy. Beh, se è così allora immagino che andrete d’accordo...

[Aetherskullshipping]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Guzman, Iridio, Plumeria, Samina
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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C a p i t o l o   2 :  N e l   n o m e   c h e   n o n   p o s s o   p r o n u n c i a r e
 
 
 
 
 
  Da quando era entrato nelle grazie della Fondazione Æther e di Samina, Guzman era andato incontro ad una strana trasformazione – o meglio, strana per il tipo d’uomo che era lui: aveva iniziato a porre più cura nel presentarsi e nel parlare, a rivedere il proprio vocabolario togliendo laddove possibile le parolacce e le bestemmie più pesanti, e aveva persino preso a lavarsi più spesso. Tutto ciò ovviamente non era passato inosservato tra le fila del Team Skull e, anzi, per un certo periodo c’era stata una vera e sentita adesione a questo nuovo modello del capo, così che la Villa Losca era riuscita a mantenersi come per magia relativamente linda e pinta per il giro di qualche settimana, e i graffiti sui muri erano stati cancellati e le porte e le finestre aggiustate, i vetri rotti spazzati via dai pavimenti e le dispense rifornite. Ma era durato solo qualche settimana, appunto, e chiusa questa parentesi Plumeria era tornata a sequestrare gli alcolici e le canne, a menare scappellotti alle reclute più indolenti, a ricordare a tutti che, seppur le regole esistessero per essere infrante, bisognava comunque mantenere un minimo di equilibrio nel branco; a fare quello che, insomma, ci si sarebbe aspettato che una sorella maggiore facesse.
  Guzman, invece, seppur quasi arrancando, rispetto agli altri era riuscito a tenersi su un livello abbastanza discreto. Non andava troppo orgoglioso del proprio cambiamento, ma era un sacrificio che si era sentito in dovere di fare, data la situazione in cui era venuto a trovarsi così all’improvviso. Tuttavia, non bisogna credere che per questo motivo egli avesse deciso di cambiare il guardaroba o di mettere via le tutone slargate e le felpe tanto comode. Ah! Cazzate: il grande Guzman non si mette in ghingheri per nessuno – piuttosto è il contrario. Per cui, il massimo a cui poteva spingersi era magari cambiarsi i vestiti e indossare della biancheria pulita, se non tutti i giorni, perlomeno una volta ogni due o tre. Dopotutto Guzman non aveva mai badato a certe cose più del dovuto e il motivo oscillava tra la convinzione che ciò rispecchiasse al meglio la sua immagine ideale di uomo duro e grezzo, e la più semplice, malcelata pigrizia che lo assaliva ogni qualvolta si accorgeva della pila di magliette inermi a terra che richiedevano di essere lavate e stirate di buona lena. Ma andava bene anche così.
  Per come viveva lui, per come aveva sempre vissuto lui, in realtà non c’era nulla che dovesse essere cambiato. Nessuno avrebbe dovuto manomettere il perfetto ordine delle cose che si era instaurato nel corso del tempo e giunto dopo anni al suo ineluttabile equilibrio. Guzman era distruzione, e in quanto tale nella sua persona l’ordine equivaleva al caos. Precetti e amor proprio si mischiavano fra loro in un ammasso confuso nel quale non era possibile individuare un assetto logico razionale, in cui la ragione stessa era illogica e priva di fondamento che fosse comprensibile ad altri. Ogni sentimento si scontrava e rimaneva intrappolato in un altro, poi ci si univa, si trasformava e di nuovo si ritrovava impigliato da qualche parte, così che il suo intero essere fosse costantemente in conflitto tra impulsi che non riusciva a controllare, e laddove non poteva spingersi a porre dei freni germinava incontrastata la rabbia.
  Per quanto Guzman tentasse di ignorare e snobbare il nuovo ambiente, di arginarlo e contrastarlo in qualche modo affinché non sfociasse entro i limiti della propria persona, alla fine dei conti trovarsi in quei luoghi asettici, in mezzo a quelle persone così diverse e altre, colte, che lo squadravano dall’alto in basso, tutto questo inevitabilmente si riversava su di lui con un che di opprimente. Spesso egli si ritrovava a scrutare fissamente quei camici bianchi e quelle visiere, senza però riuscire mai a trovare un paio di occhi oltre di esse che ricambiassero i suoi sguardi, e quindi si chiedeva se quelli che aveva di fronte in realtà non fossero degli automi, ma non erano automi, dato che nelle loro parole percepiva chiaramente il neppur troppo velato compiacimento con cui gli rinfacciavano termini e concetti e teorie che lui palesemente non era in grado di comprendere. E allora in quei momenti non poteva fare a meno di pensare al fatto che quelli magari si portavano dietro una laurea e chissà quanti dottorati e specializzazioni, mentre lui a malapena era riuscito ad ottenere il diploma di terza media, e dal liceo se ne era andato presto, non appena possibile. Poi era partito per il Giro delle Isole, era stato iniziato al rito da Hala e aveva incontrato Kukui, erano stati rifiutati entrambi come Capitani, ma Kukui adesso era Professore Pokémon, ed era esattamente come quelli lì che gli rinfacciavano con neppur troppo velato compiacimento termini e concetti e teorie che lui palesemente non era in grado di comprendere.
  Quando si ritrovava ingarbugliato in queste riflessioni, spesso i pensieri si legavano gli uni agli altri in una catena interminabile che si avvolgeva stretta intorno al collo e che portava sempre allo stesso punto e poi ricominciava, finché, forse per sfinimento, egli non se la toglieva di dosso un pezzo alla volta e con una leggera vertigine decideva di avere necessità di reagire, che non respirava più.
  Perché Guzman aveva sempre saputo di essere stupido, ma non era fesso. Forse non sarebbe riuscito ad eguagliare queste persone quanto a intelligenza, ma era perfettamente in grado di difendersi con altri modi e mezzi. E per farlo aveva bisogno di avvicinarsi a loro, a quel mondo più limpido, sebbene si fosse già reso conto di quanto lurido fosse dietro la bella facciata del castello in mezzo all’oceano che era l’Æther Paradise: avvicinarcisi, non entrarci abbandonando il proprio come alcuni premevano che facesse.
  A Samina, al contrario, pareva che di tutto questo non importasse nulla. Si limitava appena ad impartirgli gli ordini, poi spariva da qualche parte nella sua reggia incantata e a lui non era permesso seguirla.
  Una volta si era attardato con lei in uno dei laboratori che la fondazione nascondeva nei sotterranei. Gli altri colleghi se n’erano andati da un pezzo, uno dopo l’altro, e uno dopo l’altro lui era rimasto solo, lì. C’era qualcosa, nella schiena curva di Samina che si piegava sopra i monitor con fare quasi ossessivo, in quelle spalle gracili che fremevano d’improvviso, nell’impeto di qualche pensiero in cui era assorta, in quelle mappe astrali e fotografie che lei consultava con precisione maniacale sullo schermo grande e azzurro, incessantemente, e che Guzman pur sforzandosi non riusciva a capire. Cercava quindi di studiarne i dettagli, di afferrarne un senso, di trovare un collegamento, ma i suoi occhi finivano soltanto per affaticarsi e la testa per fare male. Allora restava in silenzio a guardare, senza porsi domande, lasciandosi assalire dalla vista di tutto quel che gli era sconosciuto e sentendosi piccolo.
  Poi ad un certo punto apparve un’immagine strana; pareva un tunnel o qualcosa del genere, che si apriva con uno squarcio in mezzo al cielo ricoperto di stelle. Samina l’aveva fissata più a lungo delle altre e il suo corpo rigido si era fatto ancor più inquieto di quanto non fosse stato fino a quel momento. A Guzman sembrò stavolta di avere forse un’idea, un’impressione, così si fece ritto, pur rimanendo fermo al posto suo.
  «Un varco?» chiese, e si imbarazzò di quanto rapidamente si fosse deciso a intervenire, senza nemmeno annunciarsi, o domandare prima a Samina la sua attenzione.
  Ella aveva avuto un lieve sussulto e la sua chioma bionda e fitta si era mossa leggermente. Ma non si era voltata. Guzman l’aveva osservata senza aggiungere altro a ciò che aveva detto, che comunque non si sarebbe scusato, attendendo un cenno o altro che però non sapeva se sarebbe arrivato veramente a lui. Si stava richiudendo nelle spalle, ma in quel mentre la voce di Samina lo riscosse.
  «Sì», rispose. Questo soltanto.
  «E dove porta?» provò allora di nuovo lui, timidamente, che aveva bisogno di sapere.
  «Non lo so», aveva detto lei. «Ma c’è qualcosa che io vi devo andare a prendere».
  «È per questo che tu mi hai voluto? Per andarlo a prendere?».
  Samina non rispose. Lui si spinse in avanti, tentando di carpire qualcosa di quel che stava pensando, nonostante si trovasse così lontano da lei, qualche mucchio di banchi e di scrivanie e di computer che li separava. Perché non c’era stato fino a quel momento nulla di chiaro in ciò che gli aveva proposto. Ma gli aveva offerto una cifra importante e la sua protezione, così aveva dovuto accettare, per il bene suo e per quello del gruppo. E poi, perché ella lo ammirava. Per quanto ridicolo ed egoistico fosse un tale sentimento a cui si era attaccato fin dalla prima notte, non avrebbe potuto rifiutare l’incarico.
  E forse proprio per questo la sua figura aveva incominciato a crescere e ad abbellirsi nella sua mente: meravigliosa, splendida, insormontabile, lo sovrastava come un’icona alla quale dovesse votarsi con ogni sacrificio. Questo suo silenzio non faceva altro che caricare ancor di più l’aura solenne ch’egli aveva costruito attorno ad essa ed ella dunque diveniva depositaria di una conoscenza inarrivabile, cui non gli fosse ancora permesso di accedere.
«Samina, qual è il mio proposito?» domandò. Non ebbe timore a parlare, poiché era stato con naturalezza e spontaneità che l’aveva fatto.
 «Non posso ancora dirtelo», aveva finalmente risposto «Ma devi darmi la tua fiducia e al momento opportuno te lo spiegherò. Ora, vai. Per oggi non mi servi più».
 
 
   Erano passati un paio di mesi dal momento in cui quel sodalizio era stato cementato. Di conseguenza, oltre a Samina, Guzman aveva dovuto accogliere nella propria vita anche un’altra persona, sebbene i rapporti con questa fossero all’apparenza ancor più freddi ed egli non fosse capace di confrontarcisi direttamente. E tuttavia, c’era pur sempre una profonda protezione che riversava in essa, anche da lontano, con il proprio potere e la propria influenza. Ma gli ci volle l’incontro di una mattina per capire quanto il suo favore allo stesso tempo la soffocasse.
  Stava camminando per i fatti propri quando ad un tratto venne richiamato dallo schiamazzo di una rissa. Si mosse per vedere che cosa stesse accadendo ed eventualmente dar man forte, visto che intanto aveva intravisto e riconosciuto i suoi e le loro voci, quando però d’improvviso si rese conto della persona contro cui quelli si stavano accanendo. Subito fremette con impeto violento.
  «Oh! Ma che cazzo state facendo?!» tuonò.
  Guzman avanzò a passi rapidi e pesanti, sorprendendoli di colpo. I ragazzi, ammucchiati tutti intorno al più grosso che aveva in pugno la mischia, si bloccarono, lo guardarono con gli occhi spauriti: nel vederlo così alterato, la mano già pronta a richiamare quella bestia che era Golisopod, la maggior parte decise di desistere e se la diede a gambe. Uno di loro però, fra i pochi rimasti, si prese ancora un ultimo istante per stringere la vittima alla collottola, affondando le dita nei suoi capelli rasati, e trascinandolo a sé con uno strattone gli sibilò all’orecchio: «Non credere di poterla fare franca soltanto perché sei il cocco del boss, hai capito?».
  Guzman lo sentì. Il suo sguardo si fece veleno e col braccio che tremava sollevò in alto l’Ultra Ball frenandosi di fronte al suo viso.
  «Mollalo subito e vattene», ringhiò. Una smorfia bruta gl’inasprì le sembianze.
  La recluta si azzardò persino a ricambiare l’occhiata con vile spudoratezza. Poi però spinse via il giovane, e se la svignò in silenzio appresso agli altri. Guzman afferrò il ragazzo per le spalle, osservando il suo viso pallido ricoperto di lividi. Lo sorresse affinché non cadesse e si voltò a scrutare quelli che se ne stavano andando, sputò a terra disgustato.
  «Allora, pischello», disse dopo, asciugandosi la bocca contro la manica della felpa «Dove avevi detto che abiti, tu?».
 
 
  Quella piccola pulce di Iridio.
  Per Guzman Iridio era sempre stato una piccola pulce, di quelle fastidiose che ti entrano nell’orecchio e che a fatica riesci a tirar fuori. Troppo orgoglioso di sé e presuntuoso, non aveva mai sottostato alle regole del branco e pretendeva di voler fare ogni cosa di testa sua. Spiccava in mezzo alle altre reclute con prepotenza, e questo a Guzman non piaceva, ma non era dato sapere se fosse perché temeva egli stesso che la sua arroganza potesse minarlo in qualche modo. E tuttavia lo stimava per gli sforzi che versava nel voler diventare più forte e accrescersi in potenza. Dopotutto, chi meglio di un uomo come Guzman avrebbe potuto condurlo a tanto nobile traguardo?
  Arrivarono al Motel di Akala, lungo il Percorso 8, viaggiando in volo sopra Charizard. Quando il ragazzino però con gesto febbrile estrasse la chiave dalla tasca e la rigirò nella serratura per entrare, da deboli che erano stati fino a quel momento i suoi passi, immediatamente si fecero disperati nel correre dentro la stanza, a raggiungere il tavolo o qualsiasi altra cosa contro cui egli potesse poggiarsi. Si trattenne in piedi a fatica, con le braccia che fremevano nel sostenere il peso del corpo.
  «Esci, adesso», disse poi, un rivolo di sangue si era seccato e incrostato sulle labbra.
  Guzman lo guardò, fermo sulla porta.
  «Sparisci ho detto!» gridò allora Iridio, afferrando il portapenne e cercando di lanciarglielo addosso per cacciarlo via, ma non aveva abbastanza forza e il fiato gli si era affannato di colpo.
  «Tu te lo scordi», ribatté lui per tutta risposta bloccando con un piede l’oggetto che era caduto sul pavimento rotolando. Scalciandolo da parte, fece il suo ingresso in mezzo alle penne sparse ovunque e lo squadrò: «Te lo scordi proprio», continuò «Il grande Guzman non se ne va via da qui finché non ti sarai dato una sistemata, chiaro? Cristo, guarda come sei ridotto».
  C’erano voluti diversi minuti prima che Iridio si fosse deciso ad ascoltarlo. A un certo punto Guzman si era innervosito, con uno strattone l’aveva preso e fatto sedere sul letto, litigando con quelle sue braccine piccole e i piedi che tiravano calci nel tentativo di spingerlo via, e gli aveva detto di starsene buono e zitto. Così finalmente era riuscito a guadagnarsi la sua attenzione. Si era fatto indicare dove teneva l’occorrente per le medicazioni e dopo averlo preso si era avvicinato una sedia mettendocisi sopra con le gambe incrociate una sull’altra.
  Guzman non era proprio nato con l’istinto da crocerossina, e per quanto provasse ad essere delicato nel tamponargli le ferite col disinfettante, i suoi gesti erano bruschi e Iridio a ragione se ne lamentava. Improvvisamente si fece di nuovo intrattabile quando Guzman gli passò una mano in viso per scostare via la frangia di capelli e si ritrasse, lanciando improperi e ripetendo che aveva già fatto abbastanza e che se ne doveva andare, sennò, sennò... Ma poi si era rassegnato, che era inutile convincerlo a desistere, così si lasciò toccare e Guzman scoprì il suo occhio gonfio e livido, che si apriva a malapena.
  «Ti hanno fatto proprio nero, eh?», osservò. «Il ghiaccio ce l’hai?».
  «È nel freezer».
  Allora sembrò che le divergenze si fossero appianate, almeno per poco, sebbene Iridio non avesse smesso di rispondere alle sue domande con quel solito tono freddo e altezzoso da ragazzino ribelle e indomabile. Quando si tolse il felpone per mostrare gli altri lividi e gli acciacchi che aveva sul resto del corpo, Guzman si divertì a prenderlo in giro: «Certo che sei gracile, non si direbbe con tutte le arie che ti dai...».
  «Ma smettila, senti chi parla, poi».
  «E con questo che vorresti insinuare? Piuttosto, di’ un po’. Che cosa sarebbe quello?».
  Con un cenno del capo indicò l’angolo della stanza dove accovacciato sul pavimento stava il Pokémon che Iridio aveva liberato dalla Sfera. Esso rivolse uno sguardo al proprio Allenatore, poi tornò a scrutare fissamente la mole di Guzman che si piegava sul ragazzo a pulirgli i tagli.
  Le zampe anteriori erano quelle di un insetto, ma il corpo era quello di un cane e aveva una coda di pesce. Sul muso portava una maschera d’acciaio, e pareva piuttosto pesante e stretta, perché Guzman udiva quella creatura ansimare e respirare faticosamente, come se ne fosse soffocata. Egli da una parte ne provava timore, poiché tutto nel suo aspetto gli sembrava costrizione, simile a quella che sentiva lui stesso mentre attraversava i corridoi lunghi e bianchi dei laboratori Æther, ma dall’altra ne era irrimediabilmente affascinato e incuriosito.
  «Solo per sapere, eh», incalzò «Non ho mai visto un affare del genere prima che arrivassi tu».
  «Quello non è un affare», ribatté Iridio con disappunto. «E comunque non sono fatti tuoi».
  «E certo, ti pareva...» sbuffò sollevandosi dalla sua posa scomposta e rimettendo i piedi a terra «Fa niente, me lo dirai un’altra volta. Adesso rivestiti».
  Mentre Iridio si allungava verso l’armadio per prendere una maglietta pulita, Guzman era chino a raccogliere le penne disseminate sul tappeto e vicino alla porta. Man a mano che le riponeva a posto una per volta, gli venne da pensare che era da tanto che non ne impugnava una per bene nelle dita, e che chissà quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era messo a scrivere. La sua grafia era sempre stata pessima.
  Prima di uscire si rivolse a Iridio per lasciargli un rapido saluto. Poi tuttavia si accorse del rivolo di sangue che continuava a scivolare sulla sua bocca, e si mosse per porgergli un fazzoletto di quelli che teneva in tasca. Fu in quel momento che si accorse delle sue labbra: gli ricordavano quelle di sua madre. E anche gli occhi, e l’espressione un po’ austera del viso. Tutto in Iridio era tanto simile a Samina.
  Indietreggiò di un passo dicendo che il fazzoletto avrebbe potuto tenerlo. Ma quando posò la mano sulla maniglia della porta, la voce del ragazzino lo bloccò un’altra volta:
  «Non aspettarti che io ti ringrazi».
  Guzman sussultò.
  «Non me ne faccio niente della tua ridicola gentilezza», continuò a dire Iridio «E non ho nemmeno bisogno della tua pietà. Io sono venuto qui perché insieme a Tipo Zero dobbiamo farcela da soli. Non serve che... Non serve che... Insomma, non serve proprio a nulla che tu mi faccia da padre perché ti faccio pena a non averne più uno! Tu non puoi riportarmelo indietro! E non puoi prendere il suo posto. Non puoi prendere il suo posto... Hai capito? Io non ti voglio».
  Forse era stato perché quelle parole erano uscite dalle stesse labbra che erano quelle di Samina, come anche lo sguardo freddo che Iridio gli aveva rivolto da quell’unico occhio scoperto dalla frangia, che Guzman si era sentito d’improvviso così piccolo e miserabile. Uscendo all’aria aperta, di fronte alla distesa interminabile del mare di Akala, gli era sembrato che tutto si fosse fatto angusto e asfissiante, e che d’un tratto sul suo viso fosse calata una maschera d’acciaio.
 
 
  «Pare che lo abbia perso anni fa. Un incidente, credo. Non me l’ha voluto dire».
  Le magliette e i pantaloni rigiravano assieme a qualche paio di mutande dentro la lavatrice. Guzman se ne stava seduto sul pavimento con la testa poggiata contro il vetro dell’oblò e li guardava impaziente, in attesa che il lavaggio finisse: era rimasto a corto di vestiti e non aveva nulla di pulito da mettere, così si era dovuto rassegnare e decidersi una buona volta ad accantonare la pigrizia e a passar sopra al suo solito procrastinare incessantemente su tutto quanto.
  «È così che stanno le cose, allora», disse ad un tratto sovrappensiero. Si voltò leggermente verso Plumeria che nel frattempo svuotava la cesta degli altri panni sporchi, separando i bianchi dai neri, e rimase ad osservarla dal basso.
  «E perché l’avrebbe detto a te e non a me?» le chiese «Dopotutto il capo qui sono io».
  «Perché tu sarai pure il capo, ma io sono la sorella maggiore», lo rimbeccò lei «Io mi occupo sempre di tutti. E in ogni caso a te non è mai importato più di tanto di quel ragazzino prima d’ora, non ho ragione? Si può sapere come mai proprio adesso...?».
  «Perché quello è suo figlio, Plum», mormorò.
  Il cestello della lavatrice girava, girava. Prima in un verso, poi nell’altro. Guzman si perdeva ad osservare gli schizzi d’acqua insaponata, poi si metteva a contare le gocce che rimanevano sul vetro e dopodiché si allungava a guardare nel buio della zona più profonda, dove la luce della lampada non arrivava, e rincontrava sé stesso nel riflesso della parete opposta, sbiadito e deformato, con quella sua faccia cattiva ma non troppo. Una volta, ricordava, da bambino si divertiva a far finta che l’interno della lavatrice di casa fosse un oceano pieno di Corsola e di Starmie, ed era tutto molto bello, ma ora che era diventato adulto in quell’ammasso di biancheria e di tute lerce non riusciva a scorgere nemmeno il più misero pesce. Per il tempo di un istante rievocò il profumo dei panni che la mamma stendeva in giardino, vicino allo scivolo e agli altri giochi che gli aveva regalato e che erano suoi, solo suoi. A quel punto, inevitabilmente, i pensieri si riversarono su Samina.
  Samina non gli aveva mai parlato del marito. Non che Guzman si fosse mai preoccupato di chiedergliene: fino al momento in cui Iridio gli aveva gridato contro, non era nemmeno mai esistita l’idea di un marito, di un altro uomo, nella sua mente, che si accostasse alla figura sottile e immacolata di lei. E tuttavia, quel ragazzino un padre doveva pur avercelo. O avercelo avuto, insomma.
  «Di quella donna?» domandò Plumeria.
  «Sì», disse lui.
  E chissà che nome aveva questo marito, e chissà che aspetto. Però non doveva essere un aspetto qualunque, pensò Guzman, se era quello dell’uomo di cui Samina si era innamorata e con cui aveva avuto la bellezza di due figli. Ecco, da quando l’aveva conosciuta, lei era sempre stata la madre, l’unica madre – non c’era mai stato bisogno di un padre. Ora, invece, quella presenza sconosciuta si faceva di colpo palese e ovvia, diveniva via via più definita pur rimanendo impalpabile e invisibile.
  Con una mano, Guzman strinse un lembo della felpa, come se per un attimo avesse provato l’impulso meccanico di richiuderla e proteggersi. Che poi, proteggersi da cosa? Se tutto pulsava soltanto nella sua testa dentro di sé. Non avrebbe saputo spiegare per quale ragione si sentisse così vulnerabile all’improvviso, di fronte a un’idea, a una scoperta tanto banale. Ed era stupido provare un tale timore dinnanzi a qualcosa che non ha forma, che nemmeno attacca e che non c’è più. Ma proprio perché non c’era più, egli sapeva che quel pensiero l’avrebbe assillato, che sarebbe rimasto soggiogato e sconfitto ai suoi piedi. In quella consapevolezza, la mano di Guzman cominciò a tremare.
  Poi, però, i suoi occhi si persero di nuovo nell’acqua e nel sapone, e laggiù, nel fondo della lavatrice, gli parve di scorgere qualcosa, ed ebbe un’impressione angosciante, e cioè che quel qualcosa, in effetti, lo stesse osservando. Sembrava – si strofinò gli occhi –, sembrava una medusa. Una medusa?
  Di colore bianco.
  Scosse la testa e batté le palpebre perplesso. Subito dopo il cestello ruotò e quando la medusa ritornò in superficie galleggiando, Guzman si accorse che non era affatto una medusa. Sbuffò, un po’ per il sollievo di non essere diventato matto tutto d’un tratto, e un po’ anche perché non capiva che gli fosse appena preso.
  «Scusa, Plum, è tuo quello?» chiese «Perché è carino, ma io non penso che me lo metto».
  «Ah, sì», disse lei «Mi serviva un reggiseno pulito e così l’ho infilato tra i tuoi vestiti. Comunque, se vuoi proprio saperlo, non penso ti starebbe tanto male addosso».
  Plumeria sorrideva, e i suoi occhi erano quelli maliziosi e perfidi di una Salazzle. Lui si limitò soltanto a rivolgerle uno sguardo indispettito e ad alzare le braccia in segno di resa, che non sapeva come controbattere.
  «Per stavolta passo».
 
 
  Il giorno successivo Guzman si era presentato davanti ai cancelli dell’Æther Paradise con l’intenzione di capirci qualcosa di più, che non ci aveva dormito la notte. Aveva passato l’intera mattinata a rincorrere i camici bianchi e a chiedere di Samina, ma come egli tentava di avvicinarcisi, ella si faceva ancora più lontana e irraggiungibile. L’aveva vista, a un certo punto. Di sfuggita, un istante appena. Poi se ne era andata come sempre. Allora Guzman aveva preso una decisione, che tutto quel che non gli era rivelato l’avrebbe scoperto da solo. E tuttavia, non poteva più permettersi di stare ad osservare semplicemente dall’esterno: se voleva sapere, era necessario che entrasse in quel mondo che gli era estraneo, e doveva penetrarvi fin nel profondo.
  Mentre scendeva con l’ascensore per addentrarsi nei sotterranei, quel giorno Guzman provò uno strano timore. Che forse, come gli aveva detto Iridio, tutto questo non era davvero affar suo, e che avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga da quelle trame nascoste e incomprensibili. Ma ormai aveva già mosso i primi passi dentro i laboratori, e non vi era altro da fare se non continuare ad insistere.
  Una dopo l’altra, si mise ad esplorare le stanze nelle quali gli era permesso d’entrare. Sotto gli sguardi scettici di quelli che si stava sforzando a chiamare colleghi pur provandone ribrezzo, esaminava da solo scaffali e librerie, cercando di trovare qualcosa che gli potesse essere minimamente utile.
  Che cos’era ciò che Samina doveva andare a prendere in quel varco che fissava ogni volta? Perché Iridio era scappato? Cos’era quel Pokémon che aveva con sé? E perché si sentiva così terribilmente in soggezione al pensiero di quel padre, di quel marito che era scomparso? Dov’era l’altra bambina? Lei non l’aveva neppure mai vista, e non sapeva nemmeno come si chiamasse. Che avesse delle colpe anch'ella?
  Si era fatta ormai sera. A Guzman bruciavano gli occhi per lo sforzo, e gli dolevano le spalle. Se ne stava stravaccato su una poltrona, con le tempie che pulsavano per la fatica che aveva compiuto quel giorno, nel tentativo di rilassarsi e calmarsi. Aveva trovato questo computer acceso, dove sul monitor campeggiava la scheda aperta di un blog probabilmente appartenente a un dipendente. Non parevano esserci informazioni in esso che gli potessero tornare interessanti, tuttavia quell’insieme di tracotanza e presunzione che percepiva tra le righe dei post era il passatempo perfetto per distrarsi e riposare la mente per il tempo di qualche minuto. C’era una morsa viscerale e sottile che lo strozzava all’altezza del petto. E allora, quando essa si faceva più forte, leggeva:
  Un membro della famiglia della direttrice è fuggito portando con sé i risultati delle mie ricerche. Ovviamente mi guarderò bene dal riportare l’incidente alla direttrice per diversi motivi: innanzitutto, il fatto verrebbe considerato un mio errore e attirerei su di me le sue ire... Inoltre, se c’è una cosa che la direttrice detesta è affrontare qualsiasi questione familiare. La morale di questa storia è che, a conti fatti, per mantenere la propria posizione privilegiata l’alterazione dei fatti relativi a questo sfortunato evento è di vitale importanza.
  «Se c’è una cosa che la direttrice detesta è affrontare qualsiasi questione familiare», ripeté Guzman a mezza voce tra sé e sé.
  Un vortice di immagini e di parole che aveva incontrato quel giorno si materializzò in modo vago nella sua mente, e pensò che adesso questo atteggiamento di Samina gli fosse in parte comprensibile. Vi erano ancora dei punti, però, che non era in grado di collegare fra loro e che restavano nebulosi.
  «Che cosa ci fai qui, villano?».
  La porta d’improvviso si era aperta, e sulla soglia era apparso questo omino di cui Guzman riusciva a distinguere appena il viso oltre gli enormi occhiali che gli coprivano lo sguardo. Nei tratti secchi e asciutti del volto gli parve di percepire un certo fastidio, come se la sua vista lo schifasse.
  «Bada a come parli, quattrocchi», disse Guzman sollevandosi in tutta la sua possenza e particolarmente offeso «Che non sarò il benvenuto da queste parti, ma non mi faccio scrupoli a ricavarmi il mio spazio sbriciolando tutto quello che ho davanti. Inclusi i vermi come te che non mi degnano di rispetto».
  «Eppure, dovrebbe esserti abbastanza chiaro che l’unico verme, qui, sei tu», ribatté l’altro con un sorriso viscido sulle labbra, compiaciuto di quel muro che egli si era affrettato a sollevare, forse interpretandolo come un gesto di difesa piuttosto che di minaccia «E faresti bene a tornartene in quell’insulsa bettola che vi siete costruiti tu e quegli altri teppistelli da due soldi che ti vengono dietro laggiù a Poh. Ancora non riesco a capire che cosa ci trovi la direttrice in un essere infimo come te al punto da essersi persuasa a volerti come collaboratore. Dopotutto, voi del Team Skull non sapete far altro che metterci in continuazione i bastoni fra le ruote».
  «Come osi, rivolgerti così al grande Guzman!».
  In due falcate scavalcò la scrivania e lo raggiunse, lo strattonò per il colletto del camice e lo scaraventò alla parete, avventandosi contro di lui e sentendo che il suo corpo era talmente sottile e gracile che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sbriciolarlo per davvero. Ansimando di rabbia, lo sollevò leggermente dal pavimento, e nel rendersi conto di quanto fosse semplice e fin troppo facile accanirsi su di una macchietta del genere, per un attimo sentì il sangue ribollirgli nelle vene e provò un qualche violento, irrefrenabile piacere nel riconoscersi nella propria forza, nella propria potenza. La sua bocca si distese in una smorfia, come estasiata da quella sensazione di superiorità e di dominio.
  «Io non mi faccio mettere i piedi in testa da uno scarafaggio come te, hai capito? Hai capito?!» gli gridò in faccia, che doveva sentire il suo fiato addosso.
  Fu terribilmente bello e appagante vedere quell’espressione spaurita e tragica prendere forma sopra quel viso patetico. Ma poi, di colpo, così come l’aveva aggredito, Guzman lasciò andare l’uomo, avvertendo ogni furia abbandonare le mani nerborute, e poi il collo tanto brutalmente tirato a sollevare la testa, e poi la mascella contratta.
  «Come pensi che Samina prenderebbe tutto quel che mi stai facendo?» l’aveva sentito mormorare, infatti. E allora si era dovuto ritrarre. Subito il senso di colpa aveva cominciato ad affiorare nel suo cuore, in lui, che senso di colpa non versava nei confronti di nessuno. Di nuovo le immagini e le parole presero a vorticargli davanti agli occhi mentre quello gli diceva di andarsene, e Guzman rivide Iridio, le sue labbra e poi quelle di Samina, le ciglia lunghe e severe di lei, la sua figura magra e immacolata che si univa a un altro uomo e si macchiava della sua perdita, uno squarcio luminoso nel cielo tra le stelle della notte, e si sentì soffocare da tutto quanto, come se indossasse una maschera d’acciaio che lo intrappolasse.
  Corse via, Guzman, e solo una cosa aveva capito. Che c’era un nome che non poteva pronunciare, e quel nome era Paver.


 
 

 


Buongiorno a tutti! Come state?
Ecco qui finalmente il secondo capitolo, mi dispiace veramente tanto di aver fatto passare tutto questo tempo. Tra l'altro in Pokémon Ultra Luna sono ancora ferma alla seconda isola in attesa di arrivare da Alyxia, quindi anche lì le cose stanno andando un po' a rilento. Confesso che sto trovando questo seguito/remake ancora più guidato del precedente e la presenza invadente di Rotom si fa sentire parecchio, perciò sto avendo qualche difficoltà a godermelo appieno al momento. Ma comunque, piano piano lo finirò!
Per questo capitolo in realtà non ho molto da dire. Ho sempre pensato fosse interessante come nei giochi si sia gestita l'influenza di Samina su Guzman: avete mai fatto caso a come nella Battle Theme di Guzman siano riprese sia la melodia della Fondazione Aether che quella di Samina? Come al solito non posso fare a meno di adorare questo tipo di dettagli secondari... Il post riportato nel testo è ripreso da uno dei computer dei laboratori sotterranei in-game, mentre per quanto riguarda la parte della lavatrice c'era effettivamente questa pubblicità che girava in televisione credo nei primi anni 2000 dove appunto l'interno di una lavatrice si trasformava in un oceano. Da bambina mi rimase particolarmente impressa.
Prima di chiudere vorrei ringraziare in maniera speciale Afaneia, BlazePower e Barbra per i loro preziosissimi commenti al capitolo precedente. Per il resto, spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto e nel frattempo, come sempre, mando un forte abbraccio a tutti quanti!
A presto,
Persej
  
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