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Autore: wanderingheath    08/10/2018    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 2.
 
Coming Home
 
 
 
 
«But if you close your eyes,
does it almost feel like
 you’ve been here before?

How am I gonna be
an optimist about this?»

 

 
    
Casa Barnett -  7:15 p.m.
 
 
 
 
 
 
«Potresti passarmi il purè, tesoro?»
Emma Barnett tese le mani verso la figlia e accolse la ciotola di purea con un sorriso da prima pagina.
Riservava il suo lato migliore a tutti, dai clienti ai vicini di casa, fino alla sua adorata famiglia. Quel sorriso, sembrava che gliel’avessero impresso sul viso con uno stampino per biscotti.
Niente di forzato, niente di innaturale. Semplicemente, il suo animo di miele era perfetto per il lavoro nello studio dentistico, così come lo era per il ruolo di madre.
Aveva investito tutta la propria realizzazione personale in quello, nel costruire un nucleo familiare – le piaceva pensare alla loro casa come ad un nido -  e crescere due splendidi giovani. 
Un po’ lo doveva alla fortuna, al Caso o Destino che le aveva permesso di conoscere un uomo splendido, acuto e tenero, con cui costruire tutto ciò. E non si stancava mai di ripeterlo, celebrava ogni volta il loro primo incontro; Emma e  Hugh Barnett raccontavano la loro storia d’amore come sposi novizi.
Secondo Isaac, era un rituale di redenzione, la ricerca a tentoni di una certezza, di un pilastro a cui appoggiarsi.
Lui vedeva quello che agli occhi degli altri, degli esterni – parenti inclusi – veniva annebbiato: la coppia perfetta, l’idillio che tutti invidiavano, era solo fumo.
La televisione, rigorosamente spenta, era un servo muto in sottofondo.
Hugh Barnett stava affettando la propria carne.
«Allora,» iniziò sollevando il viso dal piatto, «com’è andata oggi?»
Daphne rimirava nauseata il proprio purè. Sua madre lo cuoceva sempre poco e non sapeva regolarsi con il burro. Risultato: una sostanza cremosa ed eccessivamente grassa.
Emma intercettò i suoi pensieri: «Non ti piace?»
«No! Solo che l’ho già mangiato a pranzo. A mensa non fanno altro.»
Tutta quell’attenzione nei confronti del cibo, la preoccupava. Ultimamente Daphne sembrava concentrata sul proprio aspetto fisico in un modo che rasentava l’ossessione.
Da quando Alyssa l’aveva accolta nel proprio giro d’amicizie, sua figlia era andata incontro ad un cambiamento inevitabile, quasi naturale ai suoi occhi. Ma adesso, in quegli ultimi mesi, tutto pareva appeso ad un filo sottile.
Emma Barnett ricercò lo sguardo del marito, protetto dal paio spesso di occhiali. Erano quelli che preferiva, quelli che meglio ricalcavano lo stereotipo di professore di matematica, facendolo apparire ancora più impacciato e goffo nei movimenti.
Dall’altro capo della tavolata, però, non trovò alcun segno di supporto.
Si schiarì appena la voce, appigliandosi a tutto ciò che le rimaneva: Isaac.
«A te com’è andata la giornata, tesoro?»
Di nuovo quel sorriso buono, quella sviolinata che Isaac detestava.
«Tutto nella norma.»
Evasivo. Era freddo, distaccato, terribilmente evasivo.
Per Emma Barnett fu un tuffo al cuore.
«Niente…di nuovo?»
Daphne si strinse nelle spalle, scomoda sulla sedia dell’Inquisizione.
Al piano di sopra, sulla scrivania, l’attendeva l’ultimo libro preso in biblioteca. Ne aveva già letto un pezzetto, appena qualche pagina per passare il tempo in metro, ma era stato come pizzicare la corda della curiosità: doveva andare avanti.
Con un gesto impercettibile, microscopico, allontanò il piatto.
«No, sai cosa? Ora che ci penso, qualcosa c’è.»
Sicuramente Isaac si sarebbe inventato qualche stupidaggine per far contenta sua madre. A lei poco importava quale trovata geniale avrebbe sfoderato. Tutta la sua attenzione era stata risucchiata dai ghirigori che disegnava sulla tovaglia.
«Che cosa, tesoro? Raccontaci.»
Emma pareva aver abboccato volentieri all’amo – o al salvagente? – che le era stato gettato.
«Una rissa.»
Isaac si gustò per qualche istante la sorpresa sulle labbra materne. «Nei corridoi.»
La notizia catturò perfino l’interesse di Hugh Barnett: «Una rissa? All’Arcadian? Non si è mai sentita una cosa del genere. È uno dei migliori istituti del centro città.»
«Per questo li abbiamo iscritti lì», confermò la moglie, come se si dovesse giustificare con qualcuno.
Isaac apparve irritato da tutto quello scetticismo.
«Eppure c’è stata. Violenta, anche.»
Osservava la lama di luce riflessa dal coltello, quasi indifferente alla questione, ma aveva ben in mente dove orientare quel discorso. Un nervo scoperto che gli premeva toccare da diverso tempo, ma che solo adesso poteva lasciare esplodere senza alcun avvertimento, lì su quella tavola ben apparecchiata.  Lui era al timone.
Ciò che maggiormente lo irritava era l’atteggiamento di sua sorella.
Daphne con la sua sciocca aria di superiorità, con i suoi stupidi classici stipati in camera, lo ignorava.
«Sono intervenuto anch’io, altrimenti l’avrebbe fatta a pezzi.»
Ogni informazione aggiuntiva instillava altre gocce di curiosità nei genitori.
Il timer ticchettava verso lo zero, preparandosi alla detonazione finale.
«Cindy Butler», rivelò a sua madre. «È stata aggredita davanti alla palestra. Questa è la versione ufficiale, quella che hanno fatto girare per la scuola. Se l’è cercata: ecco la verità.»
Emma Barnett era incredula, quasi stravolta: la figlia dei Butler invischiata in una rissa?
Non riusciva, non poteva crederci. Senza accorgersene, aveva preso a scuotere ripetutamente il capo.
«Ma è una ragazza così a modo…»
Daphne, senza staccare lo sguardo dal ricamo del centrotavola, liquidò la faccenda.
«Sta bene. Solo un po’ di sangue dal naso e molta scena. Non c’era nemmeno la preside, in sede, quindi la faccenda se l’è sbrigata l’allenatore.»
Un “tutti felici e contenti” le stava per scappare di bocca, ma riuscì a trattenersi. Scalpitava, adesso, per abbandonare la tavola e rifugiarsi in camera propria. Era stanca; stanca di sentire i patetici tentativi di comunicazione messi in scena per quella mezz’oretta scarsa, stanca dell’aria svampita del padre che a tratti c’era a tratti vagava chissà dove nel suo adorato mondo fatto di equazioni e domande filosofiche; stanca delle portate strabordanti e dei discorsi senza senso di Isaac. Semplicemente stanca.
«Deve esserci stato un malinteso, ne sono sicura», commentò Emma con tono bonario. «Cindy non mi sembra il tipo da provocazioni…»
Ad Isaac bastò un’occhiata per inchiodarla sul posto. «L’ha fatto, ti dico. Ero presente.»
«Beh,» suo padre si sistemò gli occhiali sul naso, «sicuramente c’è dell’altro sotto.»
«No, papà. Non c’è altro
Buonisti del cazzo. Non poteva far a meno di detestare l’attitudine di clemenza che entrambi somministravano a chiunque non lo meritasse; forse era l’unica cosa che avevano in comune, i suoi genitori.
«Melanie è stata provocata. E questa non è nemmeno la prima volta che avviene, ma oggi ha deciso di non subire più, semplicemente.»
Qualcosa si era incrinato.
Emma Barnett restò folgorata, l’ultima forchettata di hamburger sollevata a mezz’aria.
Il resto del discorso era andato perduto chissà dove, nel dimenticatoio aeriforme del silenzio, come quando coglievano solo ciò che conveniva loro. Isaac capì all’istante e provò a dirottare la conversazione da quella deriva pericolosa, ma ormai aveva perso il controllo.
Non il tipo di reazione che si aspettava.
«Hai detto Melanie?»
Sua madre stava per avere un infarto. «Melanie Prescott? Quella Melanie?»
Ogni aggancio all’attenzione paterna era crollato.
Isaac si agitò a disagio sulla sedia. «Sì – ma non è questo il punto.»
«Oh, santo cielo! Ancora le permettono di frequentare l’Arcadian
Hugh Barnett si sentì in dovere di buttare lì un commento, giusto per stare a posto con la coscienza: «Pensavo che avessero fatto quella petizione, no?»
La moglie annuiva spasmodicamente, tutti i suoi campanelli d’allarme messi in funzione.
«Sì, sì infatti! Tutte noi mamme,» si corresse subito, «tutti noi genitori abbiamo fatto il possibile. Evidentemente non è stato abbastanza.»
Isaac impugnò una posata, bellicoso. «Abbastanza? Per sbattere fuori una ragazzina che non ha fatto niente di male? Paga la retta, il padre e il fratello lavorano in marina, per il nostro Paese. No, mamma, non mi sembra abbastanza per espellere una normale studentessa.»
«Normale? È una pazza e una violenta, proprio come sua madre.»
Hugh Barnett diede manforte, sostenendo che i “casi difficili” nelle scuole andrebbero trattati con le pinze, con minuziosa attenzione, assicurandosi che non arrechino disturbo al resto dell’istituto. Istigare una rissa era certamente un comportamento a rischio, che avrebbe potuto costarle l’espulsione.
«Sarebbe ora!», esclamò Emma con un sospiro liberatorio. «Così la smette di rappresentare un pericolo.»
«Mamma, non ha mai fatto--»
Sua madre gli posò un dito sulle labbra, severa e determinata. «Tesoro, sua madre è pazza. Certi tipi di…malattia,» ricercava le parole con cura, con la solita condiscendente aria di bontà, «si trasmettono geneticamente. Capisci?»
Isaac si sentì frustrato. La parte peggiore della questione riguardava, come sempre, Daphne. Si era alzata di scatto da tavola, isolandosi in camera da letto. In certi momenti la sentiva talmente distante, talmente lontana dall’immagine che di lei conservava nella memoria, da fargli dimenticare perché la adorasse, o anche solo apprezzasse.
La raggiunse di corsa, nonostante il sangue gli ribollisse nelle vene.
Ai colpi sulla porta socchiusa, però, non ottenne risposta.
«Daph?»
Fece forza sulla maniglia e si decise ad entrare.
«Vattene, Isaac.»
Se ne stava distesa sul letto, prona, gli occhiali da vista calcati sul naso e Madame Bovary fra le mani.
La luce soffusa delle abat-jour disegnava un arabesco di ombre sulla coperta. Così, baciati da quella luce aranciata e avvoltolati in residui di boccoli sfatti, i capelli di Daphne sembravano quasi principeschi. 
«Non te ne importa nulla?»
Lei continuava a sfogliare il romanzo, estranea all’intera situazione; la voce un colore monocorde: «Di che cosa?»
Isaac abbracciò l’intera stanza con ampio gesto delle braccia.
«Di tutto, di niente! Non lo so, Daphne, non ti riconosco più.»
«Perché dovrebbe interessarmi?»
«Lo sai. Lo sappiamo entrambi.»
Un segnalibro calò tra le pagine. Daphne si tirò a sedere e prese a giocherellare con la montatura scura degli occhiali, rigirandosela con nervosismo tra le dita.
«Cosa vuoi che faccia? Vuoi sentirmi dire che mi dispiace?», lo fissava con aria di sfida. «Okay, mi dispiace. Mi dispiace, ma nessuno si è fatto male e, grazie al cielo, hanno scampato la sospensione.»
Isaac scosse il capo, appoggiandosi allo stipite della porta.
Conosceva quella camera come le proprie tasche. Ogni angolo, ogni anta in cui nascondersi, ogni briciolo di pavimento, lui li aveva studiati e appresi nei primi mesi di vita, quando la culla si trovava accanto alla finestra e lo studio del padre non era ancora stato trasformato nella stanza che ora portava il suo nome.
Aveva gattonato nella camera di Daphne come se fosse stato un campo di battaglia, il suo primo confronto con la realtà.
Da qualche anno aveva cambiato aspetto, ma ai suoi occhi non sfuggivano piccole crepe nel muro, i graffi inspiegabili alla base della libreria, qualche schizzo di colore che aveva impresso sulla parete con i gessetti.
«Sai cosa mi fa davvero incazzare?», le domandò con un sorriso sottile.
Daphne lo osservò in silenzio.
«Che lei c’è sempre stata per te, mentre tu adesso non muovi un dito.»
«Questo non è vero. Sappiamo tutti e due che non lo è», scattò l’altra. «Melanie ha fatto le sue scelte e sa cavarsela da sola.»
Era calato il silenzio.
Un silenzio secolare, una distanza millenaria li separava, rimarcando la differenza d’età che li divideva. Passava solo un anno fra lui e la sorella, ma Daphne si comportava spesso come “La Maggiore” per eccellenza, elevandosi anche al ruolo di madre qualche volta.
Lui la fissava senza aggiungere nulla. Sentiva, sapeva, che stava a lei la prossima mossa.
Aveva ricercato una reazione da parte sua, ma si rendeva conto solo in quel momento di quanto a fondo si trovassero le radici della “questione Melanie”.
Alla fine, Daphne spezzò il silenzio.    
«E non dire che c’è sempre stata, perché è una menzogna. Non sai nemmeno cosa ho passato», aveva abbassato il tono e la pellicola di indifferenza avvolgeva di nuovo il suo volto. Inforcò gli occhiali e si dedicò alla lettura in attesa.
«Chiudi la porta quando esci, Isaac.»
Il fratello rimase ad osservarla per un altro minuto buono, prima di gettare la spugna.
Non importava quanto graffiasse la superficie – poteva pure scorticarsi le unghie e ferire la carne – non sarebbe mai arrivato al cuore della questione.
E il fatto che lei fosse così sicura che Melanie se la sarebbe cavata da sola, lo sconcertava. Lo sguardo offuscato dall’odio, le nocche tinte di rosso, la violenza cieca con scaricava una raffica di pugni su una sua coetanea: lei non aveva visto nulla di tutto ciò e non poteva pertanto capire.
Ma le ubbidì, lasciandola sola.
 
 
*   *   *
  
 
Quando Isaac si fu richiuso la porta alle spalle, Daphne tirò un sospiro di sollievo.
Richiuse il libro, osservando la copertina di un blu fiordaliso, facendo scorrere i polpastrelli sulle preziose decorazioni dorate che incorniciavano il titolo. Doveva essere un’edizione piuttosto vecchia.
In un impeto di insofferenza, scagliò il volume lontano da sé, lasciando che precipitasse oltre il letto, sul parquet di legno.
Le capitava spesso di passare in biblioteca, quella dell’Arcadian era fornitissima, e prendere in prestito dei libri, per risparmiare sugli acquisti. Non che ad una famiglia come la loro, residente nel Westside, mancassero le risorse per comprare libri; anzi, era certa che sua madre sarebbe stata contentissima di ricoprirla di diari, saggi, romanzi ed autobiografie, se solo l’avesse chiesto.
Era proprio quell’eccessiva disponibilità di affetto ed attenzioni che la spingeva a chiudersi in biblioteca o nella propria camera e affondare nella lettura.
Aveva scoperto l’arcano fascino dei libri all’età di cinque anni e da quel momento non aveva più spesso di divorare qualunque cosa le capitasse sotto mano.
E poi, le piaceva spendere il proprio tempo nella biblioteca dell’Arcadian - forse l’unico angolo della scuola che non odiasse con tutto il cuore – e scampare alle temute attività pomeridiane o alle amiche di Alyssa.
Scese dal letto, accostandosi alla finestra.
Le tende profumavano di pulito, come ogni centimetro dell’intera abitazione.
Da lì si poteva vedere casa di Logan, in fondo alla strada, con le luci ancora accese e gli arbusti ben potati nel giardino che oscillavano sotto il vento.
C’era stata un milione di volte dai Woods, da quando il suo destino e quello di Logan si erano incrociati curiosamente una mattina di settembre. Non andavano ancora alle superiori e Logan portava l’apparecchio ai denti, sputacchiando un po’ ovunque nel quartiere durante i suoi lunghi vagabondaggi in compagnia di James.
Le mancavano quei giorni.
Da quando frequentava Alyssa, le visite presso i Woods si erano ridotte notevolmente e le poche volte che sentiva la voce del signor Woods era alla radio, durante il suo programma mattutino.
Daphne recuperò il libro da terra, avvertendo una punta di rimorso. Se avesse danneggiato il dorso del volume, non se lo sarebbe mai perdonato – e probabilmente nemmeno la bibliotecaria sarebbe stata indulgente.
Raccogliendo il romanzo, si avvicinò alla scrivania piena di quaderni, appunti e oggetti mescolati alla rinfusa. L’ordine e la precisione, sempre presenti nel suo mondo interiore, non si proiettavano con altrettanta efficienza nel mondo reale. Scansò una matita, annotando mentalmente di doverla mettere nell’astuccio.
Flaubert era uno di quegli autori che aveva sempre ammirato a distanza, senza sapere perché; provava un’attrazione avita per lui e tutte le opere che non aveva neppure aperto.
Schiudendo le pagine, qualcosa precipitò sul pavimento in un volteggio.
Raccolse il biglietto piegato in quattro con un velo di perplessità. Probabilmente si trattava di una nota della bibliotecaria, lasciata lì per distrazione.
La carta giallastra, carta da lettera, la incuriosì.
Posato il romanzo, si dedicò completamente al bigliettino. Sul retro era segnato uno strano numero ed una lettera dell’alfabeto – 10A – che non significava proprio niente; dall’altra parte, però, spiccava in una calligrafia sottilissima e all’apparenza elegante, nonostante l’incertezza del tratto e alcune parole incrinate, una scritta in corsivo.
“Il futuro era un corridoio oscuro e la porta in fondo era sbarrata.”
Comprese all’istante che si trattava di una citazione. Oltre quelle virgolette in cui era stata rinchiusa, quasi un cesto o un contenitore necessario, c’era un’altra frase, tratteggiata in modo frettoloso e incurante.
E tu? Perché non hai il coraggio di aprirla?
Daphne si sentì schiaffeggiata nell’intimo da quelle scarne parole. Sembrava quasi uno spot pubblicitario, uno di quegli slogan fatti per invogliare il consumatore a rivoluzionare la propria vita, a dare un taglio alle cattive abitudini e convertirsi al consumismo.
Ma c’era dell’altro.
Una domanda, una innocua, innocentissima domanda, che arrivava a toccare delle corde sconosciute.
O meglio, represse, soppresse, dimenticate. Sì, perché quei dubbi si trovavano sempre lì, giacevano sotto la pelle come un morbo silente in incubazione, pronti a scatenarsi senza avvertimenti.
Bastava così poco per mandarla in tilt?
Forse era colpa di Isaac e di tutti quegli sciocchi discorsi a tavola.
Sì, sicuramente era colpa di Isaac e del finto moralismo con cui la scudisciava, indicandole il punto preciso del sentiero in cui era inciampata.
Perché non aveva il coraggio di aprirla?
Perché faceva troppo comodo.
Era così facile vivere nell’indifferenza, dimenticarsi di ciò che faceva male, seppellire risentimenti e indecisioni, procrastinare nell’indolenza e lasciarsi trascinare dalla corrente, dagli eventi, dai desideri di sua madre, di suo padre, dell’insegnante di letteratura, di Alyssa. Non era mai chiamata a prendere posizione.
Perfino nei romanzi in cui si tuffava, nelle tragiche avventure di eroine e antieroi, non doveva pensare, ma solo lasciarsi guidare dalla voce narrante.
Il confronto con se stessa – o con gli altri – la terrorizzava.
Impugnò la penna, si sedette alla scrivania, dispiegò il foglietto davanti a sé.
Non sapeva cosa stesse facendo, agiva senza uno scopo, più per sfogo che per altro, senza aspettarsi nulla in cambio, consapevole che il messaggio sarebbe stato cestinato.
Sotto alla domanda scrisse poche frasi.
Mi assicuro che qualcuno la tenga ben chiusa. Auto-sabotaggio.
Poi, d’impulso, ne aggiunse un’ultima.
La tua è aperta?
 
 
 
*   *   *
 
  
 
Rincasare dopo le sette di sera non era una buona idea, se si abitava a Lowhood.
Purtroppo non le era rimasta molta scelta, considerata l’imprevista scazzottata e la punizione che era seguita.
Mister Buckner era stato inaspettatamente comprensivo, cercando di ammansire entrambe le parti e fare un lavoro di coesione che in vent’anni di insegnamento non era mai riuscito a raggiungere.
Temeva per il proprio ruolo, ecco tutto.
L’assenza della preside era stata una mano santa per uno come lui, che in campo ci stava appena dieci minuti e a lezione ancora di meno. La rissa si era svolta durante la parte finale della sua lezione, di cui aveva anticipato il termine per liberarsi degli allievi e pensare ad altro nel proprio studio.
In infermeria c’era stata poche volte.
Ne rammentava distintamente solo una, nella scuola precedente, quando aveva dieci o undici anni e le era salita una febbre allucinante. Aveva iniziato a delirare, a pronunciare frasi sconnesse e l’insegnante l’aveva sospinta fuori dall’aula per paura di un contagio.
Il sapore metallico del termometro che teneva in bocca, il profumo di naftalina che tappezzava la stanza, il leccalecca che un’infermiera gentile le aveva promesso, erano ricordi ben fissati nella propria mente.
Come anche la telefonata concitata a sua madre e la risposta affannata – non posso venire, no, sono al lavoro al momento, non posso proprio, non saprei come fare – che l’avrebbero abbandonata su quel lettino di ferro con bottiglie di alcool ed altri disinfettanti, tra siringhe e aspirine, con più di trentotto di febbre.
Melanie si arrestò davanti al semaforo rosso, stringendosi nell’impermeabile.
In strada giravano alcune automobili, pochi passanti e tutti impegnati a parlare rumorosamente al telefono.
I fanali di qualche motorino la accecarono per un istante, prima che la vista si riabituasse all’oscurità.
Iniziava a fare freddo, più freddo dello scorso autunno. Chissà se sua zia si era ricordata di fare il cambio di stagione. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, no.
Sarebbe stata pronta a scommetterci la testa.
Infilò le mani nelle tasche del cappotto, rabbrividendo appena.
Chissà cosa avrebbe detto zia Lydia nel vederla tornare a casa con una mano bendata. Chissà se la notizia della rissa l’aveva già raggiunta o se il cielo aveva deciso di graziarla, almeno per quella volta.
Lei si era beccata una mano bendata, Cindy un naso quasi fratturato. Erano pari o quasi.
Anni prima, dall’infermeria era uscita con una coperta leggera posata sulle spalle, un permesso scritto e l’agognato leccalecca. La sua mano sinistra era stretta in quella di Emma Barnett; l’altra, quella attualmente fasciata, si ancorava al cappottino rosso di Daphne Barnett.
Finalmente scattò il verde e Melanie attraversò a grandi falcate la strada.
Poco più avanti sul marciapiede, una porta pesantissima venne spalancata, riversando un fascio di luce ambrata e una miriade di risate ed urla.
Una figura infagottata in un impermeabile beige ne uscì barcollando, spintonata sulla via principale da un paio di energumeni. Stava biascicando qualcosa, nel tipico vaneggiamento di chi abbia bevuto troppo.
Agitava mollemente un braccio in direzione del locale, boccheggiando.
«Ve aaa fffarò vedere,» sputacchiava, «nnnnh sapete ccchi sss…»
La sconosciuta non doveva avere più di una ventina d’anni, i capelli chiarissimi raccolti in una coda bassa scomposta e gli occhi azzurri stralunati, contornati da delle vere e proprie fosse violacee, la facevano sembrare più grande.
Melanie avrebbe preferito ignorarla, lasciarla alle sue urla sconclusionate contro il proprietario del pub e i due buttafuori che l’avevano cacciata di peso. Quando le passò accanto, tuttavia, fu la donna a bloccarla.
«Heyyyyy…»
Provò a scivolare di lato, riparandosi dietro il tronco esile di qualche albero che costellava il marciapiede.
La sconosciuta non desistette. Cominciò a trotterellarle dietro a passo veloce, bloccandosi solo a tratti, senza smettere mai di urlarle addosso.
«Hey dico a te! Non ti faccio niente.»
Melanie si bloccò, mantenendo una ragionevole distanza di sicurezza.
Il segnale fu recepito al volo dall’altra, che adesso le veniva incontro con entrambi i palmi in mostra.
«Visto?», aveva ridotto anche i biascichi, sforzandosi di parlare una lingua comprensibile.
«Dio, che ingresso. Sono arrivata qui ‘sssstamattina,» osservò ridacchiando, «e già BEM! Mani in alto.»
La ragazza indietreggiò con perplessità, sussultando appena. Il tutto risultava terribilmente divertente alla sconosciuta.
«Sì, sì, capito? Hey, dico, ce l’hai da accendere?»
Sotto la luce dei lampioni sembrava molto più adulta. Piccoli segni dell’età le segmentavano il viso, indurendo un po’ l’espressione infantile.
«No, spiacente. Non fumo.»
La donna intanto si era messa a rivoltare le tasche del cappotto, quelle dei jeans e della camicia bianca abbottonata fino al naso. Sembrava irritata non solo per la piega che aveva preso la serata, ma per l’intero corso della vita, per come il destino le giocasse degli scherzi piuttosto crudeli.
«Prima di accenderla, dovrei avercela, una sigaretta», ironizzò scuotendo il capo.
Melanie le indicò un punto in fondo alla strada. «C’è una tabaccheria dietro l’angolo. Dovrebbe essere ancora aperta, ma farebbe meglio a sbrigarsi.»
«Graaaazie, cara. Ah, a proposito, per qualunque evenienza,» le stava tendendo un biglietto da visita ammiccando vistosamente, «Detective Ellen Ward al suo servissshio
   
 
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