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Autore: wanderingheath    30/09/2018    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 1.
 
The Outsider
 
 
 
«People are connecting, don’t know what to say
I’m good at protecting what they wanna take.
Spilt the milk at breakfast, hit me double hard
and I grinned at you softly ‘cause
 I’m a fucking wild card.»
 
 
 
 
 
6:45 a.m. – Lowhood
 
 
 
 
 
La colonnina di fumo all’orizzonte aveva assunto un colorito bluastro, segno che il sole era ormai ben oltre l’orizzonte. La giornata prometteva pioggia a vista d’occhio, a giudicare dall’incoraggiante mole di nubi avvoltolate attorno alle antenne dei grattacieli.
A quell’ora del mattino c’era poca gente per strada, nella zona di Lowhood.
Il quartiere si risvegliava con decrescente lentezza: lo sgranchirsi di qualche serranda, il cigolio di una saracinesca, il fermento di un paio di autobus alla fermata vicina.
Oltre la fila di lampioni che andava spegnendosi, la sopraelevata proseguiva il proprio giro: la terza o quarta corsa della mattinata.  
Tra negozi abusivi, industrie chimiche in ebollizione e palazzine abusive, Lowhood non spiccava tra le attrazioni preferite dai turisti in visita a Norwall, eppure per lei era sinonimo di casa.
Nata e cresciuta tra le ampie vie di scorrimento, percorreva quel ponte almeno una decina di volte al giorno, a piedi o con i mezzi. L’ora perfetta per attraversare l’area indisturbati – senza rischiare di incappare in qualche conoscente – era quella: alle sette aveva tempo per se stessa, per affogare in pensieri transitori e ritrovare un pezzo di solitudine, che in casa veniva asfaltata.
Non che amasse la sveglia delle sei.
Sarebbe tranquillamente potuta restare tra le coperte ancora per un’altra ora, non fosse stato per quel maledetto cane che nel corso degli anni aveva assunto una routine precisa quanto un orologio svizzero.
La cosa più irritante era che l’incombenza di portarlo a spasso piombava immancabilmente sulle sue spalle, quando lei nemmeno l’aveva voluto, un animale.
Era stata sua madre a prenderlo all’improvviso, raccattando dal canile locale un cucciolo abbandonato, un bastardino senza medaglietta o identità. Desiderava prendersi cura di qualcosa, aveva detto, dimostrare a tutti che stava benissimo e poteva perfino occuparsi di un altro essere vivente.
Le cure e le attenzioni si erano esaurite in meno di una settimana.
Eppure, lei non riusciva ad odiarlo. No, non dopo che era stato un’inaspettata ancora di salvezza durante gli ultimi anni della sua vita, mentre tutto minacciava di crollare e rimanere lucidi era divenuta una scalata contro il tempo ed il destino.
Lo guardò attentamente, tirando appena il guinzaglio.
«Cookie, smettila.»
Si era andato di nuovo ad infilare tra degli scatoloni di cartone abbandonati sul marciapiede.
La spazzatura dei residenti sembrava molto più allettante ai suoi occhi dei ricercatissimi croccantini prescritti dal veterinario, che oltretutto erano introvabili. Si dovevano girare almeno quattro o cinque negozi, spesso fuori zona, e quello era il motivo per cui lo scorso mese era finito a dieta: sua madre e sua zia non facevano altro che rimpinzarlo di cibo ipercalorico.
Lo allontanò con decisione dal nuovo bottino, imboccando la strada di casa.
L’attendeva una giornata piuttosto pesante, completa di allenamenti con Mister Buckner.
In realtà avrebbe potuto risparmiarsi quell’ora di Educazione Fisica, facendo lei già parte della squadra di pallavolo dell’istituto, ma preferiva riempire con della sana attività sportiva il tempo che avrebbe altrimenti passato incollata ad una sedia. Detestava stare in classe.
Nei primi tempi, quando aveva appena effettuato il passaggio alle superiori, era impossibile bloccarla in un’aula per più di trenta minuti consecutivi.
Odiava il retrogusto di disinfettante che impregnava pavimenti e pareti, la polvere di gesso depositata ovunque, le occhiate oblique di alcuni suoi compagni. Ancora due anni e sarebbe stata libera.   
Si richiuse la porta di casa alle spalle, sciogliendo Cookie dal guinzaglio.
«Com’è andata la passeggiata?»
Sua zia aveva fatto capolino dalla cucina, ancora in pigiama e con delle livide borse a marcarle gli occhi, segno dell’ennesima nottata passata davanti al televisore.
Con i suoi abituali completi grigio topo, i capelli stretti in una crocchia alta e le convinzioni ortodosse riguardo la religione, Lydia Blanton dimostrava molto più dei suoi sessant’anni.
I manifesti di Gesù con cui aveva tappezzato la camera degli ospiti, crocifissi e rosari sparsi un po’ ovunque per la casa, i proverbi caduti in disuso da quasi un secolo e lo stile di vestiario austero: tutto faceva pensare che appartenesse ad un’altra epoca.
«Come al solito, zia.»
Una pausa compiaciuta. «Tua madre ancora dorme.»
Chissà perché, se lo aspettava.
La sera prima, non aveva fatto altro che saltellare per il salotto, ripetendo il nuovo mantra del mese: l’indomani sarebbe uscita presto a trovare lavoro.
A trovarlo, quasi che si trattasse di qualche spicciolo dimenticato per strada o un vecchio amico che non vedeva da anni.
Sì, perché era una questione di fortuna - così si difendeva davanti allo scetticismo della figlia - bastava un’attitudine positiva e le cose sarebbero andate per il verso giusto.
L’attitudine positiva apparentemente avrebbe dovuto attendere un’altra giornata.
«A che ora hai lezione?»
Gettò il guinzaglio in un angolo, raccattando al contempo lo zaino da terra.
«Alla solita.»
«Potresti sforzarti di essere più comunicativa?»
Lydia Blanton lanciò un’occhiata contrariata alla cartella della nipote.
«Non penserai di andartene senza aver prima fatto colazione.»
L’altra alzò un sopracciglio, sistemandosi in spalla il borsone per gli allenamenti.
«Prenderò qualcosa per strada.»
Ma Lydia Blanton non si faceva liquidare alla svelta. Iniziò a seguirla fino all’ingresso, le braccia allacciate al petto, scoppiettante come una pentola a pressione.
«Signorina, stai prendendo delle pessime abitudini.»
«Davvero, zia. Non preoccuparti.»
La donna le artigliò un braccio, tirandola per la manica.
I piccoli occhi chiari, così diversi da quelli a mandorla della sorella, la scrutavano ad un palmo dal viso.
Aveva appena notato che sua nipote non esibiva un aspetto salutare. Anzi, a guardarla meglio, non stava bene per nulla. Il declino doveva essere iniziato quando aveva lasciato crescere i capelli senza più curarli minimamente; allora erano iniziate anche le felpe sformate, le ore passate al computer, un’indolenza generale nei confronti della vita, le colazioni abolite, il cibo spazzatura ad ogni ora del giorno e gli spuntini di mezzanotte. No, non stava affatto andando nella direzione giusta.
«Melanie, ti vedo pallida. Non fa bene saltare i pasti, sai?»
«Sarà la sveglia delle sei, zia», sibilò l’altra.
Liberatasi dalla presa, riuscì a tirarsi dietro la porta, lasciandosi alle spalle il volto sbigottito della parente.
Dopo aver messo una distanza di almeno dieci minuti fra se stessa e casa propria, Melanie sentì di poter respirare. Ultimamente era come se andasse in apnea ogni volta che varcava la soglia d’entrata.
Si trattava di un meccanismo involontario, quasi un riflesso che il suo corpo aveva assunto da un tempo non quantificabile. Era difficile da spiegare – ma fortunatamente non aveva nessuno a cui raccontarlo.
A volte, essere soli si rivelava un idillio. Si viveva con più semplicità e una dimenticanza volontaria.
L’ultimo autobus doveva aver saltato una corsa, considerato il piccolo sciame di gente che si era accalcata alla fermata. Una donna con un paio di buste della spesa si stava lamentando in Swahili, accanto ad un anziano puntellatosi sul proprio bastone, che le rispondeva rigorosamente in inglese.
Melanie estrasse il lettore mp3 dalla giacca e si rifugiò nella propria bolla di sapone.
Si dimenticava ogni volta di scaricare le canzoni sul cellulare e per pigrizia rifiutava un semplice trasferimento di dati.
La spaventava notare quante abitudini materne stesse acquisendo.
Scorse con svogliatezza una delle vecchie playlist, sicura di non trovare nulla di adatto nella marea di possibilità che venivano offerte.
Un paio di giorni fa, era passata al ‘Been and GoneStore , il minimarket indiano a venti minuti da casa sua in cui aveva lavorato sporadicamente negli ultimi anni; Amit, il proprietario, l’aveva vista crescere.
Era riuscita a rimediare un contratto part-time, per sostenere le spese familiari a cui sua zia non riusciva più a far fronte: da quando la sartoria aveva chiuso i battenti, si era ritrovata a dover alzare i prezzi per le commissioni private e di conseguenza aveva perso metà della clientela.
Melanie lanciò un’occhiata in fondo alla strada, sicura che il bus avrebbe tardato ancora di molto. Il governo municipale di Norwall non investiva fondi nei trasporti pubblici di zone come Lowhood; il sud della città era abbandonato a se stesso.
Sullo schermo del lettore digitale, continuava a scavallare autori su autori.
Poi, il suo dito si bloccò su di un titolo.
Stretta fra una canzone degli AC/DC e i cinque minuti sublimi di Take Me Home dei Black Sabbath, se ne stava una hit del 2010 che stonava con tutto il resto.
Il piccolo nome che appariva sullo schermo quasi soffocava sotto al peso di colossi musicali che lei aveva scoperto all’età di undici anni.
Mandò in esecuzione il brano, dopo una lunga esitazione.
La voce della cantante e l’attacco che aveva sentito numerose volte  in passato le graffiarono i timpani.
Si sorprese di ricordare ancora l’intero testo, tanto da mimare qualche parola a fior di labbra.
“I was a flight risk with the fear of falling, wondering why we bother with love if it never lasts.
Alla lenta melodia iniziale si sostituì l’esplosione del ritornello, accattivante quanto quello di qualunque canzone pop di breve vita. Un senso di irritazione e di irrequietezza le risalì il corpo, la scia di tanti spilli le pizzicava braccia e torace. Le si era stretto l’esofago in una contrazione involontaria.
Il pollice trascinò l’icona verso la fine del pezzo, freneticamente.
Braced myself for the goodbye, ‘cause that is all I ever known. Then you took me by surprise. You said: I’ll never leave you alone.”
Non le sopportava, le canzoni commerciali.
Ricordava ancora come Taylor Swift fosse stata stipata a forza nel suo lettore mp3, mentre lei storceva il naso contrariata.
Le immagini di un lungo viaggio in macchina, le urla sguaiate, la sua imitazione della cantante che considerava una lagna, una brezza primaverile che s’infiltrava nell’abitacolo, lei che metteva in loop quel pezzo smielato, le loro mani intrecciate sul sedile posteriore…
Eccola, la stilettata mattutina che avrebbe benissimo potuto evitare.
Interruppe la riproduzione, reprimendo l’istinto di scagliare lontano l’intero dispositivo.
Avrebbe dovuto cancellarla, prima o poi, quella stupidissima canzonetta. Non le apparteneva.
L’autobus la salvò da una spirale di immagini indesiderate, sgommando appena davanti al marciapiede.
Lasciò che il silenzio la accompagnasse fino al primo sedile libero.
Mentre le portiere venivano richiuse e il mezzo muoveva i primi passi verso la sua lontana destinazione, il cuore di Norwall, Melanie si abbandonò ad un profondo sospiro.
 
 
 
*    *    *
 
 

La mensa dell’Arcadian brulicava di studenti.
Le grandi vetrate istoriate proiettavano direttamente nell’illusione di trovarsi in una cattedrale europea – illusione subito infranta dall’odore di cipolle fritte, burro e bastoncini di pesce.
Rannicchiata al tavolo addossato alla finestra, fissava il proprio surrogato di purè e petto di pollo. Continuava a rigirare il cucchiaio nel piatto, svogliata.
Forse avrebbe dovuto riconsiderare l’idea di portarsi del cibo da casa, non fosse stato per il timore di essere scambiata per una del primo anno con il pranzo al sacco preparato da mamma.
Certo, era difficile considerare quella schifezza un pasto, ma il menù non offriva nient’altro che si avvicinasse lontanamente alla sua idea di dieta.
Ad irrompere nelle sue riflessioni pomeridiane furono un paio di figure munite di bibite svaporate e vassoi in plastica. James lanciò il proprio sulla tavolata, facendolo slittare fino in fondo, a collidere con il suo.
Logan aveva preso posto accanto a lei, mentre Travis e Jason le sedevano di fronte.
Fu James a dominare la conversazione, come al solito.
«E questa la chiamano Diet Coke? »
Stava agitando la lattina tiepida che teneva in mano, sovraccaricandola di gas.
«È praticamente un tè. Freddo, oltretutto.»
Calò la bevanda sul tavolo, dopo esservisi issato sopra con agilità.
La strana abitudine di accomodarsi su qualunque superficie, ripudiando sedie e poltrone, non l’aveva abbandonata. Piazzò le scarpe sportive sulla seggiola di plastica davanti a sé.
«Come va oggi, Dee-Dee
«Odio quello stupido soprannome, Logan.»
Il ragazzo prese ad armeggiare con il sacchetto di plastica contenente le posate.
«Lo so. Per questo lo uso.»
Gli altri tre gli fecero eco con una risata idiota. A volte le sembravano dotati di una maturità pari a quella di uno scopino da bagno.
«Qual “buon” vento vi porta?», ironizzò lei.
Logan le passò un braccio attorno alle spalle, scambiandosi un’occhiata di intesa con James.
Quest’ultimo dichiarò che avevano un annuncio da fare. Travis e Jason presero a picchiettare le mani sul tavolo, imitando un pessimo rullo di tamburi.
«No, dai, basta ragazzi. Ci guardano tutti.»
James le puntò una forchetta contro con un’aria da spadaccino esperto. «Non temete, o dolce fanciulla, vi proteggerò io dalla spietata Alyssa.»
La ragazza sospirò, scuotendo il capo. Quante volte ancora avrebbe dovuto ripeterlo?
«Non ho paura di lei.»
Gli altri, però, non erano dello stesso avviso.
Travis diede saggio delle sue pessime doti di attore fallito. «Sì, padrona Alyssa. No, padrona Alyssa.»
Il gruppo trovò stranamente divertente l’imitazione. Logan si riprese all’istante, capendo che non tirava una buona aria. «E dai, Dee-Dee, un po’ ti controlla.»
La risata sguaiata di James esplose in uno spruzzo di saliva.
«Un po’?! È praticamente la sua schiava.»
Daphne lo fulminò sul posto.
«È mia amica, che vi piaccia o no.»
Travis e Jason si strinsero nelle spalle, indifferenti alla faccenda.
«Comunque,» riprese Logan, «la notizia spettacolare riguarda il mio compleanno.»
Oddio. Il compleanno di Logan.
Quasi se l’era scordato del tutto, tra il rientro scolastico e le altre sciocchezze. Non le capitava mai di dimenticare gli eventi, specialmente se riguardavano i suoi amici più stretti, ma quell’anno era passato in secondo piano. Doveva trovargli un regalo il prima possibile.
Annuì, sfoderando un sorriso disinvolto.
«Giusto. Il tuo compleanno.»
«Volevo fare una cosa diversa, quest’anno, così ho deciso di festeggiare venerdì pomeriggio al Silver Park
Logan sembrava parlarne con nonchalance, ma lei sapeva che ci teneva, in fondo in fondo. Sosteneva sempre che le ricorrenze fossero inutili e adatte solo ai bambini; superati i dieci anni, tutta l’atmosfera illusoria delle festività diveniva inutile, quasi insapore.
Lei, che era convinta del contrario, credeva che ci fosse qualcos’altro sotto. Dietro a montagne di indifferenza, l’ego di Logan esigeva un festeggiamento.
«Ci andiamo a piedi dopo scuola, tanto sta qui dietro», terminò. «Allora, ci stai?»
James tese a fare una precisazione. «L’invito non include Alyssa, ovviamente.»
L’altra stava per replicare qualcosa, ma preferì mordersi il labbro.
D’altronde, non ce la vedeva proprio, Alyssa, sbracata sull’erba in compagnia dei suoi vecchi compagni di classe, a mangiare schifezze e ad accordarsi all’umorismo del gruppo. Non era mai andata d’accordo con i suoi amici, che tanto differivano dalla stretta cerchia di confidenti di cui lei si circondava.
«Certo che ci sono», disse infine.
James si distese supino sul tavolo, incurante del suo pasto. Le stava tendendo entrambe le mani, in attesa che gli battesse il cinque. Daphne lo assecondò, domandandosi quando mai sarebbe cresciuto.
La quiete fu spezzata da un trambusto nei corridoi. Davanti all’entrata della mensa si era raccolto un denso nucleo di studenti allertati. Qualcuno stava facendo girare la voce tra i propri amici, altri si sporgevano sulla soglia cercando di cogliere brandelli di pettegolezzi o di migliorare la propria visuale.
All’improvviso, James scattò a sedere, dando l’allarme al resto della comitiva.
«Ragazzi, arriva. Evacuare la zona, presto.»
Daphne gli indirizzò l’ennesima occhiataccia, mentre gli altri si affrettavano a sgomberare il tavolo per spostarsi da qualche altra parte. Logan raccolse il proprio pranzo, lasciando un’ultima informazione.
«Ah, ho invitato anche Ethan.»
L’altra alzò il capo, un’espressione di sorpresa sul volto.
«Ethan? Ethan Sallinger?»
Il giovane annuì. «Facciamo Fisica insieme quest’anno. Mi sembrava sgarbato non dirgli nulla.»
Intanto il fermento aveva coinvolto l’intera mensa, inservienti compresi, ritardando le normali procedure di distribuzione. Di fronte al reparto della frutta e dei dessert si era venuta a formare una coda esorbitante.
Una figura si fece largo a forza tra la folla. Le schiere di studenti si dividevano al suo passaggio quasi fosse stata un’apparizione divina, una presenza santifica o una star del cinema.
Alyssa Russmith, con al seguito un paio di ragazze in tuta da ginnastica, procedeva a piccoli ma determinati passi, facendo risuonare i tacchi sul pavimento lucido. Era diretta al loro tavolo e, a giudicare dall’espressione indignata, non portava buone notizie.
«Bene, questa è la nostra uscita», sghignazzò James.
Logan, però, continuava a guardare Daphne con aria interrogativa. «Per te va bene?»
Lei annuì con un sorriso incerto: «Certo. Perché non dovrebbe?»
«Non lo so», una scrollata di spalle, «sei sempre così…taciturna, quando chiamo gente nuova.»
La sua replica fu silenziata dall’ingresso di Alyssa.
«Daffie, non puoi capire cosa è successo di là.»
E prima che l’altra formulasse un pensiero, proseguì in fibrillazione: «Una rissa. Cindy è in infermeria.»
  
 
*   *   *
 
 
Ripose l’asciugamano nello zaino alla bell’e meglio, cacciandoci dentro anche il cambio di vestiti.
La lezione di Educazione Fisica non era poi stata così tremenda, l’insegnante aveva ceduto alle loro richieste disperate e proposto degli esercizi più leggeri.
Quell’anno la sua classe divideva la palestra con altre sezioni, prevalentemente juniors come lei.
Gli occhi puntati addosso ormai non costituivano un problema - in quello la sua passione per la pallavolo l’aveva aiutata a fare considerevoli progressi – anche se detestava ogni singolo volto che si trovava ad incrociare in campo.
Si trascinò in corridoio con indolenza, ripensando alle ore di Calcolo che l’attendevano. Nemmeno aveva terminato gli esercizi assegnati, quel giorno. L’interesse per la propria media scolastica era diminuito esponenzialmente negli ultimi anni e la sua voglia di terminare gli studi superiori si assottigliava di mese in mese, inversamente proporzionale alle pressioni e aspettative che covava sua zia, mai andata oltre la terza media, che per lei aveva grandi progetti.
Si accostò ad uno dei pochi distributori automatici di cui la scuola disponeva. La preside era schierata contro ogni forma di snack e cibo spazzatura a cui gli adolescenti potessero arrivare, ma a suo parere si trattava di semplice ipocrisia, considerate le ordinarie portate della mensa.
Chissà se esisteva qualcosa, in quell’istituto, che non rappresentasse il parossismo della contraddittorietà.   
Poggiato lo zaino sul pavimento, esaminò meticolosamente le merendine offerte in vetrina. Aveva bisogno di qualcosa di dolce.
Con la coda dell’occhio captò un movimento al proprio fianco: appoggiato al distributore di bevande, nell’intramontabile giacca di jeans che portava dall’età di undici anni, Isaac Barnett stava trafficando con delle monetine.
La stretta all’esofago si ripropose con impeto.
Melanie provò ad ignorarla – ad ignorarli tutti e due – mentre frugava nelle tasche in cerca di qualche spicciolo. Chiudere fuori spezzoni di immagini, come frammenti di uno specchio in frantumi, non era un’operazione così facile come credeva e a nulla valevano le continue esercitazioni attraverso cui provava a controllare la propria mente. Le restava impossibile a volte resistere agli impulsi, ai sentimenti che si presentavano in ondate crescenti con una forza ed un’irruenza tale da rovesciarla a terra.
Era bastato il colore del giacchetto di Isaac a farla scattare.
Subito dopo quello, la raggiunse l’intenso odore del ragazzo, un profumo maschile di marca che aveva sentito ovunque negli ultimi tempi. Le faceva uno strano effetto pensarlo un teenager, conciliare la sagoma di un bambino che gattonava sul pavimento o spruzzava bollicine di saliva sul pigiama, con quella del giovane che le stava accanto adesso.
Qualcuno, alle sue spalle, fece il suo nome, riportandola alla realtà.
«Prescott, piuttosto mogia stamattina?»
Si voltò, riconoscendo all’istante la voce. Non aveva alcuna risposta da rifilare a Cindy Butler, né tantomeno l’energia adatta per contrastare le bordate con cui voleva irritarla.
Tornò alla propria scelta, vuotando la tasca dei pantaloni. Ma dove aveva messo le monete?
«Oh, forse ha finito i soldi», osservò l’altra ragazza accanto a Cindy. «A Lowhood mica crescono sugli alberi.»
Cindy mise mano alla propria borsetta, mentre attorno a loro alcuni studenti di passaggio rallentavano per guardare la scena. Qualunque cosa facesse Cindy Butler era degna di nota.
Trovò subito il borsellino di pelle con uno strano pendente di piume.
«Tranquilla, Prescott, te la offro io quella robaccia.»
Melanie tornò a guardarla, stavolta con un’espressione eloquente disegnata sul volto.
«Non mi devi offrire proprio niente, Cindy.»
«Oh, ma no invece!»
Le lunghe dita laccate di fucsia racchiudevano una manciata di monetine. Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, nuove attrazioni nell’arena scolastica. Melanie si sforzò di mantenere la calma. Un’inspirazione, un’espirazione. Bastava poco per attenuare il flusso che le ribolliva nelle vene.
«Non vogliamo che tu muoia di fame. Non ce lo perdoneremmo mai», disse. Con un ampio gesto del braccio incluse nel discorso anche la propria amica, che adesso annuiva con un sorrisetto compiaciuto.
«E io non ho bisogno della tua paghetta.»
Melanie si accovacciò accanto al proprio zaino, proseguendo la ricerca prima nelle tasche esterne, poi in quelle più interne. I battiti le pulsavano fin nelle orecchie, ovattandole il resto dei suoni circostanti.
La replica di Cindy le giunse distante anni luce.
«Sei fortunata, Prescott. Mi hanno insegnato a fare la carità fin da piccola.»
E una cascata tintinnante, mescolandosi alle risate cristalline delle presenti, le si riversò su capo e schiena, qualche cent le colpì la tempia. Adesso, le risa si erano centuplicate; rimbombavano tutt’intorno a lei, amplificate dalle mura, stringevano i pensieri come se una corona di spine le fosse stata calcata sulla testa.
Cindy, però, non aveva terminato il proprio teatrino.
«Ecco la mia buona azione giornaliera. Magari ci paghi anche la clinica per tua mamma.»    
Ronnie Marbles, in piedi sulla soglia della palestra, trillò soddisfatta: «Magari trovano una cura efficace, questa volta.»
«Sì,» concordò Cindy Butler, «una lobotomia.»
Poi, qualcosa scattò.
In un attimo, Melanie era in piedi, le mani serrate attorno al collo della propria compagna, sollevata a qualche metro dal pavimento. L’aveva spinta contro una bacheca, quella in cui spiccavano gli annunci per il club di teatro e le attività musicali pomeridiane. C’era sponsorizzato anche il loro corso di pallavolo.
La testa di Cindy si schiantò contro il vetro una, due, tre, quattro volte, prima che la giovane trovasse la forza di reagire e respingere l’opponente con un calcio nello stomaco. Intanto, un altro paio di ragazze erano corse in suo aiuto, strattonando Melanie per le spalle e allontanandola dalla loro amica.
Mel si trovò costretta a lasciare la presa. Qualcuno l’aveva spinta a terra e si era tuffato su di lei come un vampiro, mentre delle sconosciute le bloccavano i polsi.
Le urla attorno a loro si riproducevano in una serie di scatole cinesi. Nel gran trambusto, nessuno osava intervenire, nessuno osava interrompere, nessuno osava denunciare.
Un tonfo.
Era riuscita a ribaltare Cindy, piazzatasi in fretta sul suo sterno, le gambe allacciate ai fianchi.
Un moto di rabbia, uno schizzo di bile, odio cieco oscurava lo sguardo di Melanie mentre tirava un pugno sul naso della ragazza. Lo aveva desiderato da tanto, ma stranamente non fu liberatorio.
Nel suo animo non si aprì uno spiraglio di serenità o soddisfazione; al contrario, Melanie sentì quel moto crescere, inarrestabile, inoppugnabile, pervaderle le membra, risalirle la gabbia toracica, elettrizzarle i capelli, scorrerle nelle braccia, martellare i polsi. Un’energia nuova, ma non sconosciuta, le caricava le dita.
Ne voleva ancora.
A quel pugno ne seguirono altri, una mitragliata di colpi indirizzati a viso, stomaco, addome. Ed ogni volta che le sue nocche cozzavano contro quei denti perfetti, ogni volta che Cindy gridava, implorandola di smetterla – perché le faceva male, Melanie, basta, per favore, basta – per ogni spacco che apriva sulle labbra di petali, per ogni zampillo di sangue che creava – chi era la sfigata, ora? La poveraccia? La pazza? – Melanie provava piacere.
Era un amplesso di brutalità, un turbine di cieco odio e lucida beatitudine.
Lo vedeva solo di sfuggita, il suo braccio che meccanicamente si alzava ed abbassava, in un gesto ormai regolare, mentre i suoi vestiti si imbrattavano di gocce di sangue.  
Infine, qualcuno le calò una mano sulla spalla, allontanandola di peso dalla sua vittima.
La voce di Mister Buckner la trapassò da parte a parte.
«Prescott, ma cosa credi di fare?»
Era in piedi, adesso, ansimante come un toro prima della corrida. I contorni sfocati dei corridoi scolastici si materializzarono, tornando ad acquisire a poco a poco consistenza, nitidezza.
Il suo sguardo incrociò quello di Isaac, che la teneva saldamente per una spalla.
Appariva allibito. La scrutava come in cerca di un briciolo di umanità residua, come ad accertarsi che dentro, da qualche parte, ci fosse ancora la Melanie che conosceva.
Una ragazza si fece avanti, puntandole il dito contro: «Mister Buckner, ha iniziato lei. Ha quasi massacrato Cindy di botte.»
L’altra non aveva nemmeno la forza di difendersi, come ipnotizzata in uno stato di irrealtà, lontana mille miglia da quel luogo, da quella situazione. Cindy giaceva sul pavimento, entrambe le mani raccolte a coppa davanti al naso, si rigirava tra gemiti di dolore.
Era stata lei? Era stata proprio lei a farlo?
Melanie non riusciva a crederci.
«Coraggio, in infermeria. Tutte e due», ordinò l’istruttore, tirandola per il braccio.
In breve il corridoio fu sgomberato, il nugolo di studenti sciolto nelle altre alee dell’edificio, a far circolare la voce, la nuova succulenta notizia di cui si sarebbe discusso per settimane.    
Sulla vetrina della bacheca rimaneva solo un vortice di crepe.
   
 
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