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Autore: Adeia Di Elferas    10/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina ascoltava in silenzio il suono del vento che faceva sbattere i fiocchi neve contro l'unica finestrella della Casina.

Aveva sistemato con molta cura il suo stallone nel riparo per cavalli, lì accanto. Gli aveva messo sulla schiena la coperta più pesante che aveva e gli aveva promesso che sarebbero tornati alla rocca la mattina seguente.

Sperava solo che non stesse patendo troppo freddo. Anche dentro alla Casina, malgrado il camino acceso, non faceva per nulla caldo.

Si era seduta sul piccolo letto che stava nel centro dell'ambiente unico illuminato dalle fiamme del focolare. Si era tolta gli abiti umidi e aveva indossato una coperta spessa a mo' di mantello, scaldandosi le mani con un po' di vino caldo, preparato sul momento. Aveva mangiato il formaggio che aveva preso con sé, e cominciava ad avere un po' sonno.

Finì di bere quello che era rimasto nel calice e poi si alzò per posarlo sul tavolo. Si chiese come se la stessero cavando i suoi figli dai Numai. Sperò che nessuno di loro, nemmeno Ottaviano o Bernardino, facessero qualcosa di sconveniente.

Un po' si sentiva in colpa, ad averli lasciati andare da soli, come l'anno prima. Se alla vigilia del 1498 aveva almeno avuto la scusa di voler restare da sola con suo marito Giovanni, quella volta, mentre si entrava nel 1499 sentiva di non avere scusa alcuna. Stava solo scappando. Dai suoi figli, dai suoi Consiglieri, e perfino da Ottaviano Manfredi.

Sentiva il bisogno di allontanarsi per un attimo da tutto quanto, nella speranza di poter rivedere il quadro generale in modo più chiaro, una volta rituffatasi nella mischia. Solo che non capiva ancora se quella fosse un'idea valida o meno. Anche se stava prendendo le distanze, il senso di confusione e solitudine che l'attanagliava non se ne stava affatto andando.

Con un sospiro, lasciato il calice sul tavolo, prese dalla bisaccia il Decameron. Forse trasportare un libro così prezioso a quel modo era da incoscienti, ma lo stesso Giovanni, quando a volte andavano alla Casina, lo infilava in una borsa e se lo portava appresso, per poi leggerlo assieme a letto.

Così, con il tomo in mano, la donna si mise sotto le coperte e iniziò a cercare una delle parti che avevano letto così spesso da finire quasi a consumare le pagine. Mentre sfogliava il libro, però, la sua attenzione fu catturata da una lettera che ne scivolò fuori.

L'aveva lasciata lì lei stessa, ma se n'era scordata. Mettendo un momento l'opera di Boccaccio accanto sé, spiegò di nuovo il foglio arrivato da Bologna e, messasi di nuovo seduta, lo rilesse.

Le riportava con esattezza le parole che il senese Lucio Bellante aveva usato nel dedicarle la sua opera astrologica.

Era una dedica lunghissima, ma la Tigre, come la prima volta in cui l'aveva letta, si soffermò soprattutto su alcune frasi: “Quanto spezialmente la Eccellenza Vostra, la quale, fuor dell'usato donesco, non ha toccata solamente la cima del femminil sesso, se non che l'ha anche innalzato fino alle stelle; cosa rara veramente, e degna di riguardarsi, e d'ammirarsi.” lesse ad alta voce Caterina.

Finì il messaggio, in silenzio, e poi, scuotendo tra sé il capo, si stupì una volta di più della strana presa che pareva fare perfino tra gli sconosciuti.

Si era sempre resa conto dell'attrazione che suscitava nella maggior parte degli uomini che l'avvicinavano, e anche dell'ascendente che sapeva avere sui soldati – forse per merito del suo cognome o della sua semplice presenza – ma immaginare che qualcuno non l'aveva mai nemmeno vista si prendesse il disturbo di dedicarle un'opera del genere...

“Innalzato fino alle stelle...” borbottò tra sé, riprendendo parte della dedica: “Si vede che non mi conosci, caro Bellante...” sbuffò, per poi stringere nel pugno la lettera e farne una palla, gettandola con sdegno nel camino acceso.

Guardò il foglio bruciare, e poi tornò a coricarsi e si immerse nella lettura del Decameron, cercando di non pensare ad altro se non ai racconti che stava leggendo.

 

Il banchetto stava poco per volta volgendo al termine. I musici, nell'angolo del salone, accompagnavano le ultime chiacchiere e gli ultimi calici di vino dei convitati con una musica lenta e dolce, che stava mettendo un gran sonno a Bianca.

Molti degli invitati se n'erano già andati, ma la famiglia Riario stava aspettando di avere un formale congedo da parte di Luffo Numai e sua moglie, dato che i figli della Tigre erano di fatto gli ospiti d'onore della serata.

Se non fosse stato per quella formalità, Bianca di sicuro si sarebbe ritirata molto prima, soprattutto perché anche Ottaviano Manfredi aveva già lasciato Palazzo Numai e, per quanto assurdamente, la Riario moriva dalla voglia di sapere dove fosse. E con chi.

La ragazza era ancora seduta al suo posto, con accanto Galeazzo, che le si era avvicinato poco prima per metterla a parte di quello che Numai e gli altri avevano detto nel corso della serata in merito al suo matrimonio con Astorre.

Sforzino stava ancora piluccando qualcosa, mentre Bernardino pareva davvero impaziente di andarsene e non la smetteva di tormentare la balia, nella speranza che, pur di non sentirlo più, la donna decidesse di levare le tende e farli tornare tutti quanti alla rocca.

Cesare aveva ancora il suo bel daffare a spiegare a destra e a sinistra della sua missione apostolica e di come, non appena ne avesse avuto modo, avrebbe cercato di migliorare Santa Madre Chiesa e i suoi fedeli, mentre Giovannino, tranquillizzato dal minor fracasso della sala, dormiva beato tra le braccia di una delle sue bambinaie.

All'appello, si rese conto Bianca, mancava solo Ottaviano. Bianca si guardò alle spalle un paio di volte, tentata di andare a cercarlo, in modo da poter poi cercare Luffo Numai e andarsene, quando lo vide arrivare sull'uscio.

Era in disordine, accigliato, e si stava risistemando un po' il giubbetto di seta e raso. Era visibilmente ubriaco, ma non era solo quel dettaglio a mettere ansia alla sorella.

Il diciannovenne la vide e si andò a sedere accanto a lei. Galeazzo, dall'altro lato, lo guardò appena, vergognandosi dello stato in cui versava suo fratello, e si alzò, per non doverlo sentir parlare.

Bianca, guardandolo di sottecchi, si accorse che aveva un paio di graffi all'altezza del collo e le bastò incrociare un momento solo i suoi occhi per capire che quelli non erano ricordi di un momento di passione, ma di violenza.

“Che cosa hai fatto?” gli chiese, in un sussurro.

“Non sono affari tuoi.” disse lui, allungando la mano verso il primo calice non vuoto che trovò.

“Siamo ospiti a casa di messer Numai.” gli fece presente la ragazza, con severità: “Devi dirmi che cosa hai fatto e a chi.”

“Non devo dirti nulla.” ribatté Ottaviano, stizzito, vuotando il bicchiere in un sorso solo: “Quello che faccio io non ti deve interessare.”

“Io lo so che hai usato violenza a una ragazza, ti si legge in faccia.” sussurrò Bianca, il viso contratto in un'espressione di ribrezzo: “Mi fai schifo.”

“Be', che problemi hai?” fece lui, alzando appena la voce, ma riabbassandola subito, temendo che qualcuno, nel sentirgli dire certe cose, si insospettisse: “L'ho pagata, dopo. Ha avuto la sua ricompensa, no? Le ho dato più soldi di quanti ne guadagna in un anno di lavoro da questi spilorci, te lo posso garantire.”

“Ringrazia che non siamo soli, altrimenti...” iniziò a dire la Riario, che avrebbe, come minimo, voluto prendere a schiaffi il fratello.

“Altrimenti?” fece lui, con una risatina beffarda, guardandola fissa negli occhi: “Credi di farmi paura?”

“Io magari no, ma nostra madre sì.” minacciò Bianca.

Ottaviano rimase per un lungo istante in silenzio. Sembrava intento a capire se la sorella fosse davvero disposta a fare la spia o meno.

Alla fine, cercando di apparire sicuro di sé, soffiò: “Nostra madre non rischierebbe mai un incidente coi Numai per colpa mia. Anche se glielo dicessi, non farebbe niente. Come non fa niente per nessuna delle cose che faccio io. Per lei, ormai, è come se non esistessi.”

Le labbra del giovane si erano arricciate in un sorriso amaro che non lasciava intendere nulla di buono, e Bianca avrebbe tanto voluto approfondire il discorso, ma proprio in quel momento il Conte indicò un punto oltre le sue spalle.

“Guarda. Tuo fratello Giovanni sta piangendo come un dannato. Scommetto che correrai a consolarlo. Con lui, lo fanno tutti.” le parole uscirono dalla bocca di Ottaviano come tante piccole spine, e, appena ebbe finito di parlare, la sorella era già accanto alla balia, che le stava passando Giovannino.

Il lattante, tra le braccia della sorella, si calmò subito. E in quel momento Ottaviano lo invidiò con tutto se stesso.

 

Caterina aveva scelto di rileggersi la terza giornata, quella che lei e Giovanni avevano sempre amato di più. Certe novelle, che ormai conosceva quasi per intero a memoria, riuscirono ancora a farla ridere, però, quando finì di leggere l'ultima, le rimase in bocca uno strano sapore amaro.

Nel ritrovare quelle trame note e amate, le era parso di riavere al suo fianco il suo terzo marito, ma poi, conclusa la terza giornata del Decameron, l'illusione di avere accanto a sé Giovanni era di nuovo svanita nel nulla.

Chiuse il volume e si mise a fissare il soffitto, accarezzando con lentezza il lenzuolo vuoto accanto a sé. Quando erano alla Casina, dicevano ogni volta che quel letto era troppo piccolo, per due persone, però nessuno dei due si sarebbe mai sognato di proporre di cambiarlo con uno più grande.

Con quella scusa, infatti, potevano starsene sempre stretti l'uno all'altra, senza sosta, da quando si coricavano a quando decidevano di tornare a casa.

Ripensare a quei giorni e a quelle notti – che a volte le erano parsi frammenti di felicità e quiete strappati a una vita di guerra – la fece tornare ancora più indietro con la memoria. Ripensò a tutte le volte in cui, mentre stava amando Giovanni, la sua mente la ingannava, riportandola tra le braccia di Giacomo.

Con lui, il simbolo della felicità era stato il Paradiso. Quando entravano in quella casupola, così vicina a Ravaldino, eppure così lontana dalla corte, Caterina poteva sentirsi solo una donna che amava un uomo. Non una Contessa, non una Tigre, non una Sforza. Solo una donna.

Nel ricordare il suo secondo marito, la sua giovinezza e la sua bellezza, Caterina si perse per parecchio tempo nel passato e solo a notte fatta si ritrovò a valutare il proprio presente.

Non sapeva nemmeno lei dove la storia con Ottaviano Manfredi la stava portando. Ad attrarla, di lui, era stato prima di tutto l'aspetto, poi l'età – un anno solo di differenza con Giacomo, che l'aveva portata a immaginarsi come sarebbe stato lui a ventisei anni, se solo ci fosse arrivato – e solo per ultimo i suoi modi. Era sicuro di sé, sapeva essere anche arrogante, a tratti, ma per lo più le dava una certa sicurezza. Era un uomo deciso e le aveva dimostrato di essere anche un abile soldato.

Ma a parte quello, e alla promessa fatta di liberare tutti loro dal legame con Astorre Manfredi, fantoccio dei Bentivoglio e di Venezia, non aveva altro. Anche se faticava a stargli lontano, si rendeva conto che sotto non c'era nulla di più.

Giovanni da Casale, invece, era un'altra storia. Avrebbe voluto avere l'autorità di farlo tornare subito a Forlì, ma sapeva di non poter avanzare richieste troppo dirette. Pirovano era pur sempre un uomo di suo zio Ludovico e, come tale, doveva obbedienza a Milano e non a Forlì.

Forse, si trovò a dirsi, non l'avrebbe nemmeno più rivisto. C'era una guerra. Sarebbe bastato che il Duca lo avesse rispedito al fronte, e il rischio di cadere sotto i colpi dei Serenissimi si sarebbe fatto altissimo. Se fosse morto in battaglia, anche di lui le sarebbe rimasto solo il ricordo. Come di suo marito Giovanni, di cui non aveva nemmeno un ritratto, ma solo il nodo nuziale che portava al dito e qualche libro. O di Giacomo, la cui statua e il cui ritratto nella cappella dei Feo non restituivano nemmeno in parte il suo reale aspetto.

Con un respiro greve, la Sforza si voltò sul fianco, le coperte tirate fino al mento e poi, rendendosi conto che non sarebbe riuscita a dormire, sopraffatta dai ricordi del passato e dai dubbi del presente, non badando al fatto che fosse piena notte, si alzò, si rivestì e preparati i suoi pochi bagagli, andò dal suo stallone e montò in sella, sfidando la neve e il gelo, pur di tornare alla rocca prima che fosse l'alba.

 

Ludovico smise di picchiettare sul tavolo con indice e medio e guardò di nuovo suo nipote Ermes.

Non gli piaceva il tono con cui gli aveva parlato, tanto meno le cose che gli aveva detto. Era l'ultima notte dell'anno, avrebbero dovuto starsene nel salone con gli altri a divertirsi, godendosi quella festa ideata da Leonardo, e invece se ne stavano chiusi in un salottino, alla luce tremula del camino, con davanti due bicchieri di passito ormai vuoti.

“Voi avete sempre voluto far finta che non fosse così, ma la realtà è che sappiamo da anni che Luigi vuole Milano.” proseguì Ermes, gli occhi tondi che, forse per la prima volta nella sua vita, tradivano inquietudine e ansia: “Vi dico che è solo questione di giorni, prima che il re di Francia renda pubbliche le sue mire.”

Il Moro strinse le labbra sottili e scosse appena il capo, facendo ballare il suo doppio mento in un modo che il nipote avrebbe trovato comico, se solo la situazione non fosse stata tanto tragica.

Passando il grosso indice sul bordo del bicchiere vuoto, il Duca borbottò, con un'ostinazione quasi puerile: “Non vedo come il re di Francia possa avanzare serie pretese su Milano. Senza contare che l'Imperatore non permetterebbe mai che io, che sono lo zio di sua moglie...”

“Lasciate perdere l'Imperatore!” sbottò Ermes, battendo una mano aperta sul tavolo, facendo strabuzzare gli occhi a Ludovico, che non si sarebbe mai aspettato un simile scatto da lui: “Non avete ancora capito che odia Bianca Maria e che, di conseguenza, non sopporta nemmeno voi? La politica è importante, ma i rapporti umani ancora di più, e negli anni voi non avete fatto altro che alzare la voce con lui e fargli capire che ve ne infischiavate della sua autorità!”

“Ma io...” fece il Duca, deglutendo rumorosamente.

“Perdonatemi, zio, se ho alzato la voce.” si scusò Ermes, premendosi le dita sugli occhi, come a volersi imporre una maggior calma: “Ma la situazione sta diventando davvero critica e voi non lo volete ammettere. Avete sbagliato tutto, negli ultimi anni. Da come avete gestito la prigionia di Isabella, a come avete scansato ogni tentativo concreto di mediazione con la Francia.”

“Io sono il Duca di Milano! Le mie terre sono tra le più ricche d'Italia! Io...” prese a dire Ludovico, ma lo sguardo fisso e impietosito del nipote gli fece morire la voce in gola.

“Vi prego, zio.” disse Ermes, piano, come se lo stesse davvero pregando: “Mettete ragione e pensato in modo serio a come difenderci, o nel giro di un anno, o anche meno, il Ducato di Milano non esisterà più.”

“Queste previsioni le fai solo perché Luigi sta per sposare Anna di Bretagna?” fece il Moro, riacquistando un po' della sua solita fermezza: “Credi davvero che basti un matrimonio, per renderlo capace di conquistare una terra come la mia?”

“Io non credo niente, mi limito a valutare quello che so.” fece Ermes, alzandosi: “So che il re di Francia ha potuto annullare il suo precedente matrimonio solo per volere del papa. E so che il figlio del papa è in Francia, in questo momento, pronto a riscuotere la ricompensa per la buona azione di suo padre. Ora, mi chiedo, avete pensato a quale potrebbe essere, questa ricompensa?”

Ludovico era stanco, in fondo era notte fonda, e quei giri di parole l'avevano sempre messo in difficoltà. A differenza di suo fratello Galeazzo Maria, che era sempre stato abile con le parole, lui aveva sempre preferito i fatti.

“Non ho tempo né voglia di risolvere sciarade, nipote.” tagliò corto lo Sforza, agitando le mani in aria e alzandosi a sua volta: “Torniamo di là, a bere e mangiare. Penserò a quello che mi hai detto, ma che sia chiaro: nessuno deve pensare che il nostro Ducato sia in pericolo, perché di fatto non lo è.”

Ermes posò i placidi occhi tondi sul viso della zio e, riconoscendo in lui l'ottusa ostinazione che, a volta, aveva intravisto anche in suo fratello Alessandro – che da anni si ostinava a militare al soldo di Ludovico senza mai riuscire a fare un passo avanti – annuì, rimanendo in silenzio, ben capendo che non esistevano parole per convincere un coccio di terracotta a diventare un pezzo di ferro.

 

Caterina stava levando la sella al suo stallone. Aveva mandato via il garzone di stalla che aveva cercato di aiutarla e se la stava prendendo comoda.

Anche se aveva le mani intirizzite dal freddo e il naso congelato, le dava una strana quiete, quel lavoro manuale. Slegò i lacci di cuoio a uno a uno e poi, dopo aver tolto fino all'ultimo finimento e averlo riposto con cura, si premurò di spazzolare per qualche minuto il cavallo, insofferente all'idea di salire in camera e restare da sola fino al mattino.

Si rendeva conto che la scarsità di ore di di sonno – e la loro scarsa qualità – l'avrebbe portata a consumarsi prima del tempo. Il suo medico era stato molto chiaro, a riguardo, ma non poteva farci nulla.

“Finalmente ti ho trovata.” la voce di Ottaviano Manfredi attraversò l'aria fredda della stalla, arrivando alle orecchie della Contessa come un pugnale.

“Sei già tornato?” chiese lei, cercandolo nella penombra.

L'uomo era ancora vestito di tutto punto, i capelli lunghi abbastanza pettinati e gli occhi ancora molto svegli, malgrado l'ora: “Sì. Mi stavo annoiando, senza di te, a quella festa. I Numai sono ottimi ospiti, ma tendono a essere un po' tediosi, a lungo andare.”

La Tigre non commentò, andando avanti a strigliare il cavallo. Lasciò che il faentino si appoggiasse alla parete divisoria di legno e la fissasse, mentre lavorava.

“Dobbiamo parlare.” disse lui, dopo un lungo silenzio.

“Siamo qui da soli. Parla.” lo invitò lei, senza sollevare lo sguardo dal manto scuro della sua bestia.

Dalle froge dello stallone salivano spesse colonne di condensa, e così anche dalle labbra dell'uomo, quando disse: “Fa freddo. Andiamo in camera tua, per favore.”

Se non avesse parlato con tono tanto mesto, probabilmente la Sforza non avrebbe ceduto. E, invece, rimettendo a posto la striglia, acconsentì quasi all'istante.

Lo portò nella sua tana, accese il camino e un po' di candele e poi, incrociando le braccia sul petto, gli disse: “Avanti. Dimmi quello che devi.”

L'uomo si aggirò per un istante nella camera, nervoso. Mentre lo faceva, Caterina si riscoprì ancora una volta molto debole, nei suoi confronti. Si distraeva facilmente, nell'averlo davanti. Si mise a indugiare sulle sua spalle larghe, sui suoi fianchi stretti, sul suo viso dai tratti fini, eppure virili. Si trovò a pensare che in realtà dimostrasse anche meno dei suoi ventisette anni.

“Firenze mi ha scritto imponendomi di tornare nel Casentino, ma io ho risposto dicendo che ti servo qui.” fece Manfredi, fermandosi sul posto e sollevando gli occhi azzurri verso di lei.

La Contessa ci mise qualche istante, prima di spostare il fulcro del suo pensiero dal fisico di Ottaviano alle sue parole: “Che cosa hai fatto?”

“Mi hanno risposto dicendo che mi consentono di restare fino a fine gennaio, ma non di più.” si affrettò ad aggiungere lui: “Però hanno detto chiaramente che non sono contenti del mio atteggiamento. Né del tuo.”

“Io non ti ho autorizzato a usare il mio nome per...” cominciò a dire la Leonessa, avvicinandosi con fare minaccioso.

“Io ho ucciso, per te. Sono pronto a sposare tua figlia, per ordine tuo. Sono tuo, no? E allora, perché non dovrei dire che resto qui per te?!” la voce di Ottaviano si alzò così tanto da far indietreggiare Caterina, ma solo per una frazione di secondo.

“Perché io non ho mai detto di avere bisogno di te!” lo rimbrottò, dandogli uno spintone.

“L'hai fatto, invece, incastrandomi con questa storia di Astorre... Io...” prese a schermirsi Ottaviano, bloccando il braccio della donna, che si stava avventando su di lui, probabilmente per scagliargli un pugno contro.

“Tu vuoi Faenza da ben prima che ti chiedessi io di prenderla!” ribatté la donna, riuscendo a liberare il polso dalla presa dell'amante.

“Ma non ho mai cercato di mettermi contro i Bentivoglio!” l'attaccò lui, ricordandole di come l'avesse usato contro Annibale.

“Io non ti ho mai obbligato a fare nulla!” insistette la Sforza, ma ormai il litigio era degenerato in qualcosa di molto più fisico.

Le invettive reciproche vennero sostituite da spintoni e attacchi di ogni genere. Così come Caterina non si faceva problemi a colpire il bel viso del suo amante, così lui pareva essersi del tutto dimenticato che quella che aveva dinnanzi fosse una donna e stava calpestando completamente il suo codice morale privato, facendo di tutto, pur di avere la meglio.

Alla fine, con il fiato corto e sudati, i due si fermarono quasi a tempo. Si fissarono per qualche lungo minuto e poi, trovandosi più vicini di quanto credessero, confusi per il groviglio di emozioni che li univano e li dividevano, finirono per baciarsi.

Si presero con rabbia, tentando di continuo di sopraffarsi l'un l'altro, ma alla fine, quando ormai il cielo cominciava a rischiararsi e la neve cadeva con minore intensità, si trovarono stretti in un abbraccio che non aveva più nessuna aggressività.

Il viso affondato nella pelle calda, umida e coperta di cicatrici di ogni forma e misura del suo amante, Caterina sussurrò: “Ormai quello che è fatto, è fatto. Ora dobbiamo decidere come muoverci, e dobbiamo farlo insieme, questa volta.”

Ottaviano le passò una mano tra i lunghi capelli bianchi, sciogliendo qualche nodo, e poi sulla schiena liscia e chiara: “Quindi non mi bandirai da Forlì?”

“Credevi che l'avrei fatto?” chiese lei, le dita che, dopo avergli sfiorato le labbra gonfie – un po' per i colpi che gli aveva inflitto mentre litigavano e un po' per i morsi che gli aveva dato mentre si lasciava portar via dalla passione – ancora indagavano il profilo deciso dei muscoli dell'uomo, scendendo fino al fianco e alla radice della coscia.

“Sì. O quello o che mi avresti ucciso.” confessò lui.

La Sforza sospirò, e Manfredi avvertì con un piacevole solletico il suo respiro rovente contro il petto: “Non potrei mai ucciderti. Ti voglio troppo, per farlo.”

“Allora come ci muoveremo, Tigre?” fece l'uomo, in parte rinfrancato da quella dichiarazione.

La Contessa si spostò facendo in modo di poterlo guardare in viso, mentre diceva: “Per prima cosa organizziamo un piano per conquistare Faenza. Poi, appena l'avremo messo a punto, renderemo pubblico il tuo fidanzamento con Bianca, ma solo qui a Forlì. Che a Faenza si chiedano pure se è vero. Dopodiché, tu partirai per il Casentino, come Firenze ti comanda, in modo da dimostrare la tua buona volontà, e farai in modo di tornare il prima possibile. E, nel frattempo, io cercherò anche di mettere le mani sulla mia parte di eredità. Giovanni non avrebbe sopportato di sapermi in difficoltà, mentre suo fratello tiene i soldi che spetterebbero a me nelle sue tasche.”

Ottaviano non disse nulla, continuando a passare con lentezza una mano sulla schiena dell'amante.

“Fidati di me. Ce la faremo.” soffiò la Sforza, prima di dargli un lungo bacio che dalle labbra scese fino al collo.

“E i Bentivoglio?” domandò Manfredi, sapendo che erano loro, per lui, il vero pericolo.

“A loro penseremo a tempo debito.” lo rassicurò la Tigre, mettendosi con decisione sopra di lui, facendogli capire che non aveva più voglia di parlare.

Ottaviano non si lasciò sfuggire l'occasione di averla per se ancora una volta, anche se quella notte l'aveva lasciato senza forze.

Mentre la sentiva sopra di sé, che lo cercava e lo baciava, il respiro che si faceva spezzato e il cuore che iniziava a correre, Manfredi si impose su di lei, invertendo le loro posizioni, e, mentre la trovava stranamente cedevole a quella sua iniziativa, il faentino si chiese se non fosse davvero quel 1499 appena iniziato, l'anno giusto per il suo riscatto. Non solo come signore di Faenza, ma anche come uomo. Soprattutto come uomo.

 

 

 

 

 
   
 
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