Libri > Shadowhunters
Segui la storia  |       
Autore: The Custodian ofthe Doors    12/10/2018    5 recensioni
[ AU!Police| Seguito di Una pista che scotta| II| Detective!Alec| PoliceOfficer!Simon| SemiCriminal!Magnus| AlecSimonMagnus!squad]
Alexander Lightwood è un Tenente della Omicidi di New York City a capo di una squadra a dir poco particolare e se un tempo era famoso per la sua pazienza e la sua calma imperturbabile, oltre che per la sua sfortuna, ora lo è anche per aver risolto il grande Caso Circle a trent'anni dalla sua archiviazione.
Ma i problemi non sono finiti e non arrivano mai da soli.
Dopo il ritrovamento del quaderno del Circolo di Asmodeus vecchi mostri sacri della criminalità risorgono dalle loro ceneri, attirati dalla consapevolezza che il proprio nome risulti su quelle pagine assieme a tutti i loro segreti più grandi.
New York apre il sipario e mette in scena, per l'ultima volta, l'ennesimo atto di uno spettacolo che in troppi temevano di rivedere, in cui troppi saranno costretti a recitare di nuovo o per la prima volta.
I demoni stanno tornando, crimine e giustizia saranno ancora costretti a combattere assieme questa battaglia che nasconde più di quanto non possano credere.
La chiamata è stata fatta e nessuno potrà ignorarla.
Che gli piaccia o meno.
Genere: Azione, Commedia, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Simon Lewis, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Capitolo IX
Ragnatele invisibili.

 

 

 

La domenica era un giorno fantastico, un giorno in cui le strade erano leggermente meno affollate del solito e non c'erano tutti quei ragazzini che dovevano andare a scuola o tutti i pendolari che dovevano raggiungere l'ufficio.
La domenica era ancora più bella se nel tuo turno mensile ti avevano messo di riposo proprio in quel giorno.
Alexander si stiracchiò come un gatto al sole, rigirandosi tra le coperte calde e sprofondando il viso nel cuscino spiegazzato.
Si sarebbe dovuto alzare, mettere qualcosa sotto i denti e poi decidersi a fare qualche lavatrice e a stirarsi un paio di camicie, soprattutto quelle.
Si issò sulle braccia allungando un occhiata al telefono più per abitudine che per altro. Avere una domenica libera era raro, davvero rarissimo ed i primi tempi, quando aveva iniziato a lavorare ai vari casi, Alec si era dimenticato di aver un giorno di riposo, rimanendo ostinatamente chiuso in ufficio o intrappolato nel solito via vai lavoro-casa. Poi un giorno aveva incontrato suo padre per i corridoi del Dipartimento e l'uomo, conscio che quella giornata doveva esser libera per lui, gli aveva chiesto cosa ci facesse ancora a lavoro, se ci fosse stata un'emergenza.
Alec era caduto dalle nuvole: come che ci faceva lì, ci lavorava? Ah… era il suo giorno di riposo? Davvero? Non se ne era accorto.
Neanche dieci minuti dopo Robert lo aveva scortato fuori dall'edificio, dove un giovane Jace fresco di ammissione alla SWAT lo guardava scuotendo la testa, incredulo di fronte allo stacanovismo del fratello maggiore.
Aveva però ormai imparato a rispettare quelle giornate, a sfruttarle come si deve, anche solo per riprendere fiato e tirar fuori la testa da quel fumo asfissiante che era lo star a continuo contatto con morti violente e dolore della gente. Forse lo aveva imparato proprio dopo il servizio militare.
Gettò le gambe fuori dal letto come se pesassero tantissimo, alle volte gli tornava alla mente il formicolio ed il fastidio che lo avevano seguito durante i mesi sulla sedia a rotelle. Non gli piaceva ricordare quei giorni, quando si era sentito inutile, impotente, di peso per gli altri. Gli era sembrato di esser tornato alla sua adolescenza, ogni cosa che provava a fare non era mai abbastanza, poteva sempre essere migliore e fatta meglio. Erano stati anni terribili per lui, non c'era altro da dire, invece di godersi la gioventù si nascondeva e tremava all'idea che qualcuno potesse capire, che gli si leggesse in facci, che gli altri lo scansassero per questo.
Quanto gli ci era voluto per capire che il suo orientamento sessuale non incideva in nessun modo su chi era, su come si comportava, su cosa avrebbe potuto fare nella vita? Davvero troppo tempo, un Natale che pareva lontano ere geologiche e che lo vedeva esplodere sotto tutte quelle pressioni, sotto tutte quelle richieste di essere perfetto sì, ma seguendo modelli di perfezione diversi per ogni singola persona che lo guardava.
Ora, a quel ricordo, sorrideva triste e comprensivo, abbastanza maturo per capire quanto quel dolore fosse inutile ma sensato, quanto aver avuto al suo fianco delle persone care e fidate era valso come una boccata d'aria dopo esser andato a fondo. Come una giornata di riposo dopo infiniti turni di lavoro e sofferenza.
Guardò di nuovo il suo telefono, indeciso se fare o meno quella telefonata, anche se forse era meglio aspettare, con il fuso orario che li divideva avrebbe finito per svegliare tutta la palazzina.
Cercò così le ciabatte per trovarne una occupata da qualcuno che conosceva fin troppo bene. Sin da quando era piccolo Church aveva preso l'abitudine di dormire nelle sue pantofole. Forse perché erano grandi, morbide e calde, gliele aveva regalate suo fratello Max, tutto contento per averle trovate imbottite ma non ridicole, fatto sta che erano diventate il letto preferito di Church, ed il fatto che ormai sia le scarpe che il gatto avessero quasi sei anni, e che per altro Church non entrava più per bene della ciabatta ma si limitava a dormirci con il muso o il sedere dentro ed il resto del corpo arrotolato su sé stesso, non interessava minimamente a nessuno. Né ad Alec, né a Church e né tanto meno alla ciabatta. Non si era mai lamentata lei.
Si abbassò per prendere il gatto in braccio, ricevendo una mera resistenza visto che ancora sonnecchiava immerso nel suo mondo, se lo strinse al petto e si lasciò ricadere con la schiena sul materasso. Rimase a sentire il felino far le fusa per un po', domandandosi quando gli sarebbe ricapitata una situazione del genere quando avrebbe cominciato ad indagare sulla rete criminale.
Ancora gli faceva strano pensare che se ne sarebbe occupato lui e non la Crimine Organizzato, ma aveva ben capito che quella era la sua opportunità per dimostrarsi al livello del suo titolo e, c'aveva riflettuto per bene, doveva esser anche in un qualche modo collegato al quaderno di Asmodeus.
La situazione era capitata a pennello, forse per colpa della proverbiale fortuna che lo perseguitava da quanto era nato, eppure alle volte Alec si ritrovava a pensare che tutte le cose, tutti gli eventi, si incastrassero così bene che dovevano esser per forza opera della stessa persona.
La rete criminale di cui avevano parlato per tutti i giorni precedenti ne era un chiaro esempio: Alec sapeva che non c'era sempre lo stesso capo, che non era una singola persona a muovere le fila e che non era neanche la medesima organizzazione, ma era possibile che solo ora l'Antidroga decidesse di sgominare quella sottocultura di omicidi e spaccio che da sempre soffocava la città?
Alexander non si illudeva, sapeva che una volta messi in prigione i responsabili e gli affiliati dell'odierna associazione la droga non sarebbe scompara delle strade di New York City, sapeva che ci sarebbero sempre state altre bande, altre imprese criminali, eppure sapeva anche che eliminando questa la situazione si sarebbe quietata momentaneamente, mettendo a dormire tutti quei piccoli spacciatori che temevano per la propria salvezza.
Ben riflettendoci, fino a quel momento aveva interpretato la rete come un'organizzazione mutevole, che ad ogni cambio di Capo si modificava ed evolveva con colui che saliva al potere. Probabilmente cambiava la sede di ritrovo, cambiavano i codici per mettersi in contatto, cambiavano le gerarchie e magari anche i metodi d'azione, ma era davvero sempre la stessa? Offriva davvero gli stessi servizi?
Forse stava sbagliando approccio, forse stava sbagliando tutto. Presupponeva che quel gruppo agisse come una vera e propria agenzia, con regole, livelli, lavori assegnati a un affiliato o all'altro, e se non fosse stato così?
Improvvisamente Alec si domandò se non avessero mai sgominato davvero quel giro perché non facevano tutti conto ad un unico capo, improvvisamente si chiese se invece non fossero un'associazione di più “imprese”.
Il miagolio di Church, che aveva trovato del tutto fastidioso il fatto che il giovane avesse smesso di carezzargli il pelo, lo tirò fuori dai suoi pensieri, facendogli alzare la testa per fissare il proprio petto, da cui il fatto lo fissava intensamente senza batter ciglio.

<< Mi concili le idee, Church, forse dovrei portarti con me a lavoro. Sei fonte di ipotesi sensate molto più di quanto non lo siano i miei colleghi.>> gli disse grattandogli le orecchie.
Già, più dei suoi colleghi… di cui uno prendeva tutto sul personale e apocalittico e l'altro tutto sul personale e drammatico. Formare quella squadra era stata probabilmente la sua idea peggiore, molto più che farli conoscere, avrebbe dovuto continuare a farsi aiutare com'era stato per il caso Fell, senza che fosse davvero ufficiale.
Dannato lui e quella sua mania di fare sempre le cose per bene, come le regole comandavano.
Sospirando si tirò a sedere tenendo sempre il gatto stretto a sé, Church si rigirò pigramente e sgusci via dalle sue braccia, per poi stiracchiarsi e sedersi sul piumone, leccandosi tranquillamente la pancia.
Alexander lo invidiò tantissimo, sarebbe stato magnifico se il suo unico pensiero in quel momento fosse stato farsi una doccia, ma purtroppo per lui doveva pensare anche alla colazione e poi alla sua prossima meta.
Si alzò e sospirò di nuovo, l'ultima cosa di cui aveva voglia era andare a far visita al Dottor Lawson.




 

Sedersi su quella poltrona, dopo quasi un mese che non lo faceva, gli diede la sgradevole sensazione che l'uomo di fronte a lui potesse leggergli negli occhi il disagio provato e tutte quelle cose che non avrebbe voluto dirgli.

<< Non sta andando per niente bene la nuova squadra, vero?>>
La voce del dottor Lawson era sempre bassa e profonda, con un nota comprensiva di sottofondo che lo faceva rassomigliare molto ad un nonno che guarda il nipote già sapendo la marachella che sta per confessare. O almeno questo era il tono che teneva con lui: Alexander si sentiva in colpa ogni volta che gli posava lo sguardo addosso, ogni volta che silenzioso gli diceva “io già lo so, devi solo liberartene tu”. Non riusciva ad essere scontroso perché forse la figura di un nonno per lui era quella che non andava contraddetta, o per lo meno era stato così con il padre di sua madre. Alec aveva ricordi sbiaditi del nonno, certo più chiari e vividi di quanto non ne avessero gli altri, più di Max che non lo aveva mai conosciuto, ma restava il fatto che nei suoi ricordi il nonno diceva una cosa e quella era, non gli si doveva disubbidire, era così punto e basta.
A ben pensarci non sapeva neanche perché.
Rimaneva il fatto che Lawson usava quel tono con lui -probabilmente non anche con altri pazienti che ne sarebbero stati irritati- e funzionava, quasi quanto il tono colloquiale e amichevole.
Lasciò cadere le spalle e scosse la testa.
<< Non siamo neanche ad un mese e hanno già litigato. Non sono arrivati sulla scena del crimine, quando sono tornato in ufficio loro si ignoravano e sono stato costretto a chiuderli in sala riunioni perché si stavano saltando al collo. Si sono urlati contro senza ascoltarsi davvero a vicenda, ho provato a fermarli, Magnus si è arrabbiato ancora di più e se n'è andato. Non lo sento e non lo vedo da mercoledì mattina.>>
L'uomo annuì. << Sono cinque giorni. Simon anche?>>
<< No. Catarina, l'amica infermiera di Magnus, ha parlato con lui e lo ha fatto ragionare. Così Magnus ha mandato un messaggio a Simon e si sono incontrati giovedì sera al Pandemonium per parlare.>>
<< E tu lo sai perché?>>
<< Perché quando gli ha telefonato era con me in ufficio.>> rispose accigliato.
L'altro scosse la testa. << Perché sai che è stata Catarina, intendevo.>>
Alec alzò le sopracciglia sorpreso. << Oh, perché mi ha mandato un messaggio e me lo ha detto.>>
<< Catarina.>> ripeté il dottore per sicurezza.
Il giovane annuì sicuro. << Sì, mi ha detto che lo aveva fatto ragionare. Lo fa spesso, quando Magnus combina qualcosa lei ci parla o lo sgrida direttamente e poi mi manda un resoconto dell'accaduto.>>
<< E questo lo fai anche tu con lei?>>
<< Non è mai successo, le ho mandato una volta un messaggio per dirle che mi pareva un po' turbato, per la sua prima scena del crimine, ma tutto qui.>> si strinse nelle spalle e prese a giocherellare con il bordo della felpa larga e scura che portava. Era blu ad onore del vero, del blu scuro e pesante delle divise degli ufficiali di polizia, Alec aveva sempre amato quel colore, era la sua preferita e lo si poteva facilmente capire dall'usura dei polsini e dal modo in cui ugualmente era tenuta con attenzione.
Lawson fissò le sue dita sfregare quella stoffa consunta, proveniente da un'altra epoca non storica, ma di Alexander. Quando era entrata a far parte della vita del poliziotto? Quanto valeva per lui? Che significato aveva portarla in quel momento?
Sicuramente doveva essere dei tempi dell'accademia o giù di lì, gli calzava un po' larga ma non eccessivamente, forse una taglia in più; se l'avesse comprarla prima a quell'ora sarebbe stata in un cassetto, al sicuro ma non indosso a lui. Il fatto che se la fosse messa per quella seduta significava anche che si sentisse a disagio più del solito, che necessitasse di un'ulteriore protezione dal mondo, dalla verità, dalle azione della gente, da qualcosa che lo aveva ferito e che, quella volta, il giovane non riusciva ad arginare solo dietro la sua scorza dura e graffiata.
La personalità di Alexander era come un'armatura a placche: ogni placca diceva qualcosa di lui e se la si guardava da vicino ci si rendeva conto che era fatta di tante scaglie diverse ma tutte inesorabilmente saldate tra di loro.
Non penetrava il sole, non passava l'acqua, non vi filtrava l'aria, dentro la corazza nulla poteva intaccare il micromondo che vi viveva ed il microclima necessario affinché continuasse a vivere.
Fuori le scaglie splendevano in rilievo, annerite, scheggiate, graffiate, ammaccate, ma tutte unite e impossibili da smuovere. Componevano le placche grandi e modellate che abbracciavano quel corpo, lunghi ed opachi segni di saldatura a rilievo segnavano i punti in cui era stato necessario ricucire uno strappo, dove era stata aggiunta una nuova placca per difendere quella precaria che vi era sotto.
Nel micromondo un pezzo di cielo era caduto ma un'entità superiore si era affrettata a ripararlo.

 

Aggiusta il cielo.

 

Lawson una volta aveva chiesto al suo paziente di svelargli qualche segno particolare che aveva il suo corpo e con sua grande sorpresa l'uomo in giacca e cravatta davanti a lui il ragazzo, aveva solo 22 anni- gli aveva detto di aver dei tatuaggi.
Ben riflettendoci, sul momento, si era dato dello sciocco: era un riservista, un militare, un marines, era ovvio che avesse tatuato addosso come minimo il simbolo del suo squadrone o il suo numero. Ma Alexander lo aveva stupito e gli aveva raccontato che il primo se lo era fatto a quattordici anni, di nascosto dai suoi genitori come gli altri sei che erano venuti dopo.
Tra questi tatuaggi, tra il nodo celtico della fratellanza, tra la fiamma di una torcia che simboleggiava la sua famiglia, la "lightwood" che avrebbe illuminato la sua strada e la sua vita, -“Che in verità ho impiegato fin troppo per accendere. Per moltissimi anni ho preferito vivere al buio”- , tra i nomi dei suoi fratelli, tra la freccia sul suo bicipite e la croce di cui non aveva mai spiegato il significato, c'era una frase, fine, scritta lungo la sua spina dorsale, che si intravedeva a mala pena tra quelle ali che ora aveva e che il tatuatore era riuscito a celare in mezzo alle piume:Aggiusta il cielo”.
Al vecchio medico era capitato spesso di ritrovarsi a pensare ai suoi pazienti, di vedere un oggetto e di ricordare o capire qualcosa a loro inerente, ma solo dopo quasi quattro anni di conoscenza aveva collegato quelle parole, rivelate forse alla sesta seduta, con ciò che il giovane era, con il modo in cui affrontava la vita.
Alexander aggiustava ciò che gli capitava sotto mano, non aveva il cuore di buttare nulla, affezionandosi anche alle sue cicatrici più profonde perché erano parte di lui, perché erano collegate al bene quanto al male e perché, malgrado il ragazzo dicesse il contrario, Alexander non poteva smettere di soffrire, non poteva smettere di espiare le sue colpe.
Così creava il suo mondo personale, quello in cui vivere e in cui agire secondo le sue regole, senza mai dimenticare quelle degli altri, chiuso in quella bolla trasparente e impenetrabile, metallica e fragile, indistruttibile e rotta, ed ogni volta che c'era un terremoto, ogni volta che riceveva un colpo troppo pesante, un frammento del suo cielo cadeva e lui lo rimetteva al suo posto.

 

Aggiusta il cielo.
 

A guardarlo da dentro, non si sarebbero viste le spesse placche metalliche della sua armatura, si sarebbe visto solo un cielo infinito e contenuto al contempo entro una barriera viva e umana. Forse anche troppo umana ma mai abbastanza.
Lo psicologo guardò quel ragazzo, quell'uomo, che ormai conosceva fin troppo bene e gli sorrise mesto.
<< Per cosa hanno discusso?>> chiese in un soffio gentile e confidenziale.
Alexander si mosse a disagio, strinse i pugni sui polsini logori, un gesto così palesemente nervoso che Lawson già sapeva quale sarebbe stata la risposta: gliel'aveva data senza parlare.
<< Come mai?>> continuò quindi.
L'altro prese un respiro profondo. << Simon è andato a prendere Magnus ma ha incrociato una sua… conquista di una notte. Si è arrabbiato e ha messo su una discussione a cui Magnus non si è sottratto, anzi.>> la sua voce era flebile e lasciava passare tutta la sua voglia di starsene zitto e buono.
Lo rivide per un attimo alla loro prima seduta, quasi quattro anni prima, un ragazzo con i capelli dal taglio militare, corti ma non abbastanza per un membro dell'esercito, come se se li fosse lasciati crescere senza un senso preciso. Ricordava le strisce blu che uscivano dal colletto della camicia, quelle che reggevano la fasciatura che gli copriva il torace. Lo ricordava con lo sguardo lontano, il blu del cielo senza luna macchiato dal rosso e dall'ocra, dai colori violenti di una terra che pareva non riuscire mai a trovar la pace, vessata da troppe genti e troppe guerre non sue.
Ripensandoci indossava quello stesso maglione, solo che al tempo vi spiccava una scritta la cento, bianca ed opaca.

Marines.

 

<< Simon ha cercato di fargli capire come la cosa avrebbe potuto ferirti?>>
<< Non mi ha ferito.>> il suo tono divenne improvvisamente duro e serio, quella luce sabbiosa nei suoi occhi spazzati da un profondo freddo, da un'oscurità in cui Alexander sguazzava, in cui viveva mille volte meglio che alla luce. << Ho parlato con Simon, ho parlato con mio fratello e con i miei amici, non venga a dirmi anche lei che le azioni di Magnus mi hanno ferito perché non è così. Non abbiamo nessun vincolo, non abbiamo nessun legame, non ci sono parole dette o non dette. Da Natale è tutto congelato. Io sono il suo superiore, il mio compito è quello di dirigerlo al meglio e di non farlo finire nei guai. Non mi deve nulla.>> lo disse con asprezza e con ferocia, un'azione così palesemente difensiva che Lawson non cercò minimamente di non farglielo notare.
<< Questo tuo rifiutarti di accettare i tuoi interessi- >>
<< Non sto rifiutando nulla, non mi sto difendendo.>> Alec si tirò a sedere composto, la schiena dritta, le spalle rigide, le dita abbandonarono i polsini e anzi, se li tirò leggermente su, lasciandole intravedere pallide ma forti e ferme. Ferme come lui e le sue parole.
<< Non mi sentirà negare il mio interesse verso Magnus: lo trovo un uomo attraente e abbiamo dei precedenti, seppur minimi, che fanno presupporre che potrebbe nascere qualcosa di buono da una possibile relazione. Ma voglio essere anche il più obbiettivo possibile e questo mi porta a ragionare sul fatto che non lo conosco davvero e- mi faccia finire! Non lo conosco davvero ma lui ancor di più non conosce me. È figlio di un malavitoso, lo è lui stesso seppur non con la stessa ferocia di suo padre ma ciò che ha fatto non è nulla, nulla, in confronto a ciò che ho fatto io. Devo aver la certezza di poter esporre la mia storia a qualcuno che non scapperà e attualmente non ho il tempo per costruire una relazione solida, per conoscere qualcuno. È la nostra chiave di volta per riuscire a smascherare i colleghi del padre, non posso dare a nessuno ulteriori appigli per portarlo via da qui, dal Dipartimento, da me, più di quanti già non ne abbiano e lui… Dio santo, lui non è collaborativo. Non parla mai seriamente, fa sempre battute, sempre doppi sensi e io sono cresciuto con il re e la regina dei doppi sensi ma non- non ce la faccio.>>
Finì la sua arringa con la stessa forza con cui l'aveva iniziata e Lawson non ebbe nulla da ridire perché effettivamente se c'era una cosa che ad Alexander non si poteva negare era quanto fosse obbiettivo, freddo e lucido nel giudicarsi. Alle volte lo era anche troppo.
Compreso che su quel fronte non avrebbe ottenuto nulla di più per quella volta, e più che deciso a chiedergli comunque un altro incontro quel mese, il dottore espirò piano mantenendo la calma ed annuì.
<< Cosa ti ha turbato allora della discussione dei tuoi colleghi?>>
Visto il cambio di rotta Alec si rilassò leggermente, ma la sua posa, le sue mani ferme immobili sulle cosce, non mutarono minimamente.
<< Hanno urlato.>> il giovane disse solo quello e lo psichiatra annuì.
<< Stai avendo di nuovo quegli incubi?>>
<< Non sono incubi dottore, sono ricordi. È inutile classificarli come frutto della mia immaginazione quando so perfettamente che sono veri. Ma sì, quelli.>> disse freddo.
L'uomo lo studiò attentamente e prese un foglio dalla sua scrivania, vi scrisse sopra qualcosa e tornò a fissare i suoi occhi amichevoli, ora seri e concentrati, in quelli blu dell'uomo davanti a lui.
<< Chiamare le cose con il loro nome è il primo passo per accettarle.>>
Alec fece un singolo cenno affermativo con la testa. << È l'Iran.>> continuò prima che glielo chiedesse. << L'attacco al villaggio che presiedevamo.>> si fermò e cercò di chiamare alla mente anche gli altri sogni che di recente gli rendevano difficile riposare come si deve. << Il mio primo obiettivo, quando eravamo tra le montagne in appostamento. Il bombardamento. >> finì affievolendo al voce.
<< Le tue emicranie come vanno?>> gli domandò l'altro preoccupato.
<< Le sopporto, ho i medicinali con me ma preferisco non prendere nulla. Ho come l'impressione che mi rendano lento e non mi facciano capire tutto.>>
<< Sei consapevole che non è null'altro che questo vero? Una sensazione.>>
<< Lo so, ma se posso sopportare il dolore perché dovrei imbottirmi di farmaci?>>
L'uomo sospirò. << Prendere dei farmaci controllati da un medico, con la giusta prescrizione, non porta ad esserne dipendenti, né ad essere dei drogati.>>
<< So anche questo, ma- >>
<< Ciò che è capitato a lui non capiterà anche a te, Alexander, ne sono sicuro. Ho assoluta fiducia in te e nella tua forza di volontà, perciò promettimi che se le emicranie dovessero aumentare di frequenza o di intensità me lo dirai e accetterai di prendere i farmaci opportuni.>>
<< Non voglio diventare schiavo di una pasticca… >> soffiò neanche fosse una cosa da non dire.
Lawson a quel punto si alzò in piedi e fece il giro della scrivania, poggiandovisi contro e tenendo il foglio di carta stretto in mano. << Non ti succederà. Noi medici siamo qui proprio per questo, per far sì che le medicine facciano il loro lavoro, nel miglior modo possibile, nel minor tempo possibile e senza danni collaterali. Tieni, >> gli porse il foglio, << non sono medicine, è la ricetta di un infuso di erbe che aiuta a rilassare i nervi, bevine prima di andare a dormire, ti aiuterà.>>
Alec si lasciò sfuggire uno sbuffo ed una smorfia storta, << In pratica non mi da una medicina chimica ma me ne da una omeopatica?>> domandò con una nota divertita nella voce.
Lo psichiatra si tirò indietro con un'espressione quasi schifata. << L'omeopatia è buona per molte cose Alexander ed è una valida sostituzione a creme contro contusione o rilassanti, ma ti prego, non chiamarla “medicina”, perché non lo è.>>
Alexander prese il foglietto e annuì. << Mi spiace, non volevo offenderla.>>
Il dottore gli assestò una pacca sulla spalla e poi tornò al suo posto. << Non mi hai offeso per nulla, tranquillo. In ogni caso, credo che dovremo rivederci anche la prossima settimana, così magari parleremo con comodo di ciò che hai detto a tuo fratello e anche al tuo amico. Chi era poi?>>
<< Seth. E Jace.>>
<< Mh, sì, i tuoi “uomini”, no?>> sorrise.
Alec invece fece una smorfia. << La prego, così la fa sembrare una brutta cosa.>>
L'altro rise bonario, << Lo è solo se lo pensi. Stai pensando male?>>
<< Questa è la brutta influenza i Magnus, sono così abituato ai doppi sensi celati in ogni sua frase che li trovo ovunque.>>
<< Anche con i tuoi amici?>> domandò allora.
Scosse la testa. << No, loro sono come appaiono, è per questo che gli voglio bene.>>
Il sorriso di Lawson si ampliò divenendo quasi dolce. << Sono sicuro che loro te ne vogliono altrettanto.>>

 

 

Quando scese i due gradini che lo avrebbero portato sul marciapiede ingombro di folla Alec si disse che forse non era vero che la domenica c'era poca gente in giro, c'erano meno macchine la mattina e basta, alle undici la strada era ancora troppo affollata.
Pescò il cellulare dalla tasca e controllò che nessuno lo avesse chiamato. C'erano un paio di notifiche da qualche chat, quella dei suoi fratelli che discutevano di Dio solo sapeva cosa, quella con Chad in cui discutevano su cosa regalare a Daisy e poi c'era anche quella di Carla che si lamentava del fratello, e quella del fratello che si lamentava di lei, ma perché dovevano lamentarsi con lui? Cos'era? Erano tornati al liceo?
Sbuffò indeciso su quale messaggio aprire prima quando una strana sensazione gli strisciò lenta alle spalle.
Alzò di colpo la testa, scrutando la folla certo che in mezzo qualcuno lo stesse fissando. Era stato troppe volte nel mirino di qualcuno per non riconoscere il peso di uno sguardo troppo interessato.
Fece vagare gli occhi da un lato all'altro della strada finché non ne incontrò un paio azzurri, accecanti in chiarezza quanto in freddezza.
Una donna lo scrutava attenta dall'altro lato del vialone, accosta al muro della palazzina per non intralciare il passaggio. Indossava un lungo cappotto bianco immacolato, così come lo era la sua borsa e come lo erano le sue scarpe. I lunghi capelli biondi le ricadevano come onde sulle spalle minute, sulla linea strutturata della giacca. Il volto delicato, la pelle chiara, di una tonalità di un rosa così pallido da sembra fatta di cipria. Le labbra carnose erano rilassate, di un color carne più cupo che risaltava tra quelle guance candide, così come gli occhi ed il trucco semplice ma scuro che li decorava.
Sembrava un fiocco di neve, le mani graziose e le gambe lunghe e longilinee come i bracci di un cristallo volande che fievole volteggiava in aria per poi toccare terra.
Ma tra quel tripudio di bianco candido e immacolato, innocente e freddo, vi era una macchia, un pugno forte, un lume accecante che catalizzava tutta l'attenzione.
Adagiato sui seni prosperosi, vestiti di una morbida scollatura elegante ma lasciati scoperti dai lembi chiari del giaccone, vi era una scintillante pietra rossa, come il fuoco, come l'amore, come la rabbia, come il sangue.
Alec rimase imbambolato a fissare quello che pareva un rubino abnorme e limpidissimo, che catturava in sé tutta la luce che gli abiti bianchi attiravano. Probabilmente, se fosse stato interessato al gentil sesso quella sarebbe stata la prima cosa che avrebbe notato, ma ugualmente si sentì attratto da quella pietra enorme.
Alzò lo sguardo stupito e si ritrovò a ricambiare quello freddo ed acuto della donna.
Un sorriso curvò le belle labbra ma se anche per tutti i presenti parve sensuale e accattivante ad Alec diede la stessa sensazione di essere immerso nel ghiaccio.
Rimasero a fissarsi per un tempo indefinito, fino a quando una macchina bianca come le vesti della donna non si fermò proprio davanti a lei e quando ripartì quella era scomparsa. Non si mise neanche a cercarla in giro, Alec seguì con lo sguardo la Mercedes bianca ed i suoi finestrini oscurati, era certo che dietro ad uno di quelli ci fosse la bionda.

Non sapeva chi fosse, né cosa volesse da lui, ma una cosa era certa: un fiocco di neve macchiato di sangue non era mai una buona cosa.

 

 

 

 

Raphael rimase impietrito al telefono, non poteva crede a quello che la donna gli aveva appena detto
<< Tu hai fatto cosa? >> domandò lentamente.
Dall'altra parte arrivò un suono indistinto ma sicuramente divertito. << Ho detto che ho visto il detective, anzi, no, è un Tenente vero? Non sembra avere neanche trent'anni, è arrivato così in alto per le sue capacità o per il suo nome? >>
<<
Per ciò che sa fare, anche se non sono riuscito ad ottenere grandi informazioni sul fatto. Ma questo non importa, Camille, vai via di lì, non parlarci. >> le disse segretamente allarmato.
Gli ci mancava solo lei che decideva di farsi una passeggiata per New York City alla ricerca di quello che, Raphael lo sapeva perfettamente, sarebbe stato l'uomo che le avrebbe dato la caccia quando si sarebbe reso conto di ciò in cui era coinvolta.
<< Non l'ho fatto, l'ho solo guardato. È un bel giovane, davvero particolare. Mi ricorda i film daltri tempi, quando l'uomo era misterioso ma a modo e non un bad boy come ora. >>
<<
Lascia stare i film e lascia stare a che lui. Camille non ci scherzare, Alexander non è un poliziotto che puoi corrompere, non chiuderà un occhio se sei nel suo mirino. Non lo farà perché sei una bella donna e neanche perché gli offrirai qualcosa che desidera tantissimo. >>
<< Incorruttibile, capito, non mi metterò nei guai. Anche se adesso che l'ho visto capisco perché Magnus ha perso la testa per lui. >> la sua voce si affievolì e poi prese un respiro. << Lo hai preso in simpatia? >>
Raphael non rispose, rimase in religioso silenzio per interminabili minuti, il rumore della linea come unico sottofondo.
<< Lo hai notato anche tu? >> chiese con un fil di voce.
Immaginò Camille annuire e già si aspettava la risposta che ne conseguì .
<< Oui mon Cher. Oui. >>
<< Cosa ne pensi?>> chiese con voce rauca, quasi gli si fosse improvvisamente seccata la gola.
Non poté certo vederla, ma Camille si strinse nelle spalle e poi voltò il capo verso il finestrino. Davanti a lei un lucido vetro nero la divideva dall'autista.
<<
Non lo so, Raphael, non so davvero cosa pensare. Se fossi una brava persona gli augurerei di non somigliargli per niente.>>
<< E invece cosa gli consigli ora?>>
Stava in piedi davanti alla finestra del suo salone, le tende erano tirate come in ogni singola stanza di quella casa, del suo appartamento vicino a Palacio Santiago.
Non era mai andato a vivere lì da solo, lo aveva lasciato ai suoi fratelli e cugini, a chi avrebbe messo su famiglia e avuto bisogno di una mano dalle matrone e dagli anziani padri che ridevano assieme ai nipoti delle loro marachelle, scappando con loro da mogli, nuore, figlie e sorelle arrabbiate.
Era comunque rimasto in zona, a pochi portoni di distanza ad esser sinceri, non si era allontanato da quel quartiere malfamato malgrado potesse tranquillamente vivere nei suoi lussuosi appartamenti all'Hotel.
Sbirciò oltre la pesante tenda color granada, scrutando la strada in attesa di veder comparire i suoi ospiti, attendendo con pazienza e senza fretta che Camille gli rispondesse.

<< Gli augurerei di somigliargli ma non fino alla fine. Non finisce bene la gente come loro, giusto?>>
<< È già diventata “la gente come loro”? Quindi pensi si somiglino?>> chiese grattando con l'unghia sul vetro lucido. La minuscola macchiolina era fuori dannazione.
Un fruscio. << Questo me lo devi dire tu, mon cher, lo conosci a differenza mia.>>
<< Lo vorresti conoscere?>>
<< Ne varrebbe la pena?>> ribatté lei curiosa, senza cercare minimamente di nascondere né questo né il suo scetticismo.
Raphael non disse nulla, prese un bel respiro e poi annuì. << Sì.>>
Un basso risolino senza gioia arrivò dall'interfono. << Gli stai dando molta importanza.>>
<< Si merita il mio rispetto, quanto meno.>> disse espirando l'aria presa prima, le spalle si abbassarono un poco e il giovane camminò ad agio verso il divano. << Ha fatto molto per Ragnor.>>
<< Solo per questo?>>
<< Non so se ricordi quanto- >> iniziò lui già innervosito dal dover tirar fuori quel discorso. Ma Camille lo stroncò sul nascere.
<< Lo so. Non trattarmi come una stupida che non capisce nulla e a cui dev'essere spiegato tutto. Io ricordo, ma pare che tu ti sia dimenticato quanto mi dia fastidio.>> replicò lei seccata.
Raphael si domandò se fosse possibile per loro fare una conversazione normale senza dover tirar in ballo qualcosa del loro passato. Probabilmente no. Probabilmente questo era quello che facevano tutte le persone che un tempo erano state tanto amiche e vicine e che si rivedevano dopo troppo.
<< Sì, hai ragione. È uno dei motivi per cui hai rotto con Magnus, no?>>
Un verso quasi schifato. << Mettiamo in chiaro questa cosa una volta per tutte: se l'ho lasciato un motivo c'è. Non è stata solo colpa mia, eravamo una coppia, le cose si fanno in due e tu sai perfettamente quanto Magnus possa essere- >>
<< Infantile? Stupido? Egocentrico? Rancoroso? Invidioso? Accecato dai suoi desideri e spesso cieco a quelli degli altri? Convinto di essere l'unico a soffrire o ad aver il diritto di arrabbiarsi perché è un fottutissimo bambino viziato o perché è sempre stato associato al nome di suo padre che gli apriva tutte le porte? O magari malfidato, per nulla collaborativo e con una tendenza alle cazzate e al dramma da far invidia ad una tragedia Shakespeariana?>>
L'attimo di silenzio che seguì le sue parole fu tutto ciò che servì a Camille per scoppiare a ridere di gusto, costringendo in un qualche assurdo modo anche Raphael a piegare le labbra divertito.
<< Oh, Rafaél! Me lo dimentico sempre che tutto il bene che vuoi ai tuoi amici è proporzionale a quanto sono pericolosi per la società e la sanità mentale collettiva.>>
<< Spero tu ti renda conto che questo include anche te.>> le disse continuando a sorridere.
Camille annuì. << Je le sais, je le sais. Ti sei scelto dei begli amici.>>
<< Mi spiace deluderti, ma né te né Magnus siete stati una mia scelta. Direi che siete più classificabili come imprevisti, spiacevole conseguenze ed incidenti di percorso.>>
<< Aw, anche io ti voglio bene.>> gli disse lei civettuola. << Ma parlando di incidenti di percorso… glielo hai detto?>> domandò curiosa.
Raphael allungò le gambe davanti a sé, poggiando il gomito sul bracciolo e premendo la guancia contro il telefono. << Che sei qui? No, non gli ho detto nulla. Perché ho la sensazione che lo farai tu?>>
<< Perché sei una persona trés intelligent. Credo sia giunto il momento di farci due chiacchiere come si deve o continuerà a farmi passare per una puttana per tutta la vita.>> concluse con fastidio.
<< Ma lo sei.>> le fece notare pacato il messicano.
<< Certo che lo sono, ma non nel senso sessuale del termine. Sono una stronza puttana perché ho un carattere di merda, sono una millantatrice, una sibilla, un'arrivista e un'affarista fredda e senza scrupoli, ma certo non la do' via per soldi.>> concluse lei tutta convinta.
A Raphael venne da ridere: gli era mancata Camille, soprattutto quella parte di lei, quella che spesso gli ricordava Lily. Oh, aspetta, Lily.
<< Neanche Lily sa che sei qui.>> la informò di getto.
Camille aggrottò le sopracciglia e poi annuì. << Questo spiega molte cose. Mi occuperò anche di lei, tranquillo.>>
<< Non fate danni.>>
<< Certo mamà. Ora ti lascio, mon cher, sono arrivata a destinazione.>>
<< Devi vedere Saint Cloud?>> le chiese improvvisamente attento.
<< Oui. Sono arrivata qui già da un paio di giorni e non l'ho ancora visto. Pian piano mi toccherà far visita a tutti, sai com'è la prassi quando si ritorna a casa… >> lasciò la frase in sospeso e Raphael sapeva perfettamente cosa ci fosse di non detto.
C'era che quella, l'America, era stata casa di Camille ma non lo era più da tempo, che ora, come alla sua nascita, casa sua era Parigi e tutto ciò che vi gravitava attorno o vi si agitava dentro. C'era che far visita ad ogni singolo membro del loro Caln significava dire a tutti che ora anche lei era lì e che era pronta rimettersi in affari, nel giro, nei guai. Non si poteva passare solo per un saluto e poi via, a godersi le spiagge della costa Est e gli hotel di lusso. C'era da partecipare alle riunioni, alle cene, ai gala, alle feste e alle lotte. C'era da prendere una posizione e c'era anche il fatto che tutti si aspettassero di conoscere già la tua decisione.
C'era che ormai di veri parenti nella loro famiglia, Camille non ne aveva più nessuno, che forse aveva lui e basta e c'era un motivo per cui aveva lasciato New York così tanto tempo fa.
Camille si stava godendo le sue ultime ore di aria, stava guardando per l'ultima volta il cielo chiaro e luminoso della mattina, ma presto il sole le sarebbe stato di nuovo fatale, presto sarebbe ridiscesa nelle cripte che ospitavano loro ed i loro segreti e sarebbe tornata a venerar la notte ed il buio.
Camille era di nuovo ridiscesa tra i Figli della Notte e Raphael sapeva che per lei sarebbe stato ancora più difficile di quanto non lo sarebbe stato per chiunque altro di loro.
Perché una volta assaggiata la libertà, nessuno riesce a tornare in gabbia.


 

 

 

Comodamente seduta sul divano del salotto, Catarina fissava Raphael senza vederlo davvero.
Era arrivata circa dieci minuti prima e questo era stato tutto il tempo di cui aveva necessitato l'altro per metterle un bicchiere di vino in mano e sganciare la bomba più devastante che teneva nel suo arsenale.
Non poteva crederci, non era possibile, non ora, non con tutto quello che stava succedendo e che dovevano affrontare. Ma forse era proprio quella dannata situazione ad aver richiamato persino Lei a New York.
La città non le era mai parsa così piccola.

<< Mi stai dicendo che anche lei ha ricevuto questa… chiamata, come è successo a te e che per questo è tornata in America?>> chiese con voce flebile.
Raphael annuì, poggiato ancora contro la finestra chiusa, la spalla premuta contro il vetro gelato.
<< Anche se la sua di chiamata è stata decisamente più cruenta nella mia… >> rifletté lui sovrappensiero.
<< Ma perché non ci hai detto nulla? Perché non ci hai avvertito quando ti è arrivata- cosa? Una lettera? Una missiva? Un pacco?>> continuò ora più allarmata.
<< Una lettera, sì. E per inciso, a qualcuno l'ho detto, ma è stato fin troppo stupido per capire cosa fosse davvero. Così come sono stato sciocco io a credere che anche lui l'avesse ricevuta.>>
La donna si agitò sul posto, cercando una posizione comoda che non poteva trovare, non in quella situazione. << Lo hai detto a Mags?>>
<< Sì, ma come sempre è duro di comprendonio. È estremamente intelligente per tante cose e completamente ottuso per altre. Se ti consola, non ne sa nulla.>>
<< Non è per nulla consolante.>>
<< Ma è già qualcosa.>>
Malcom era rimasto in silenzio sino a quel momento, facendo roteare piano il vino nel calice lucido, conscio, a differenza di Catarina, sia di quale poteva esser stata la chiamata di Belcourt, sia quali conseguenze la cosa comportasse.
<< Se non ha ricevuto nessun segno vuol dire che non ne sarà coinvolto. Sarà comunque toccato dalla guerra, ma non scenderà in campo.>> la sua voce era lenta e decisa, quasi stesse scandendo con attenzione le parole per farle permeare al meglio nella mente dell'amica.
Non era rimasto sorpreso dalla confessione di Raphael, anzi: chiamare qualcuno che sai potrebbe esser coinvolto e che sai anche esser stato tuo amico era una mossa più che intelligente e decisamente da Raphael. Dopotutto l'aveva fatto anche lui, figurarsi se sarebbe andato a far la paternale a quello che, a conti fatti, era il ragazzo di cui si era preso meno cura durante la sua adolescenza.
Da Magnus a Lily, da Ragnor a Catarina, persino Meliorn era stato suo protetto come invece Santiago non lo era stato. Veniva da un quartiere diverso, da una realtà diversa e poi Asmodeus non gli aveva mai chiesto di stargli attento o di tenerlo d'occhio. Raphael aveva la sua enorme famiglia e tutta la rete di conoscenze che ne derivava. Aveva il suo popolo in campo straniero, in parole povere non era affar suo.
Lo aveva conosciuto che era già grande, non lo aveva visto crescere se non di sfuggita, quando lo incrociava con Rag, o a litigare con Magnus. Forse solo quando Lily aveva iniziato a poter far di testa sua il messicano era diventato più presente in quel loro strano quadretto, ma a quel tempo Mags era grande e Malcom aveva ampiamente adempiuto ai suoi doveri di babysitter.
Gli si era quindi sempre rapportato in modo diverso, era più indulgente con lui perché non aveva il potere di bacchettarlo, gli si era sempre posto da amico, non da guida, non da persona adulta che devi ascoltare. La sua telefonata non lo aveva certo sorpreso: essere “amici” come lo erano loro implicava che se si aveva un problema si chiamava l'altro per un consiglio, ma che quell'altro non aveva il diritto di dirti che avevi fatto una cazzata a meno che non l'avessi fatta talmente tanto epica da risultar impossibile ignorar la cosa.
Tra tutti i suoi demonietti, Raphael apparteneva decisamente ad un altro girone.

<< Sì, ma questo non significa che non possa succedere in futuro. Magari lui sarà l'ultimo ad essere chiamato.>> insistette Catarina.
<< Speriamo di no, farebbe solo danni.>> borbottò invece Raphael. Si diede una spinta con la spalla e tornò verso di loro. << Attualmente i problemi sono altri. Camille è tornata, questo vuol dire che prima o poi Magnus se ne renderà conto.>>
La donna annuì, << Quella stronza…sarà di nuovo pronta a rovinare la vita a Mags. >>
<< Io non la giudicherei così velocemente, Catarina.>> Malcom la guardò quasi con una nota di rimprovero negli occhi, << Ricorda che noi conosciamo solo una versione dei fatti e sappiamo quanto Magnus sia bravo ad omettere le cose per risultare sempre vincitore.>>
Catarina si voltò a guardarlo sconcertata. << Come puoi dire una cosa del genere? Lo ha mollato dopo tutto il casino che si era alzato, quando lui le aveva chiesto solo di restargli vicino! Aveva appena preso davvero in mano le redini dell'impero di suo padre e lei invece se ne scappa in Francia, lontana dai problemi!>> alzò la voce infervorata, poggiando il bicchiere sul bracciolo del divano.
Malcom si strinse nelle spalle e fece per parlare, ma la voce glaciale di Raphael lo precedette.

<< È questo quello che ti ha detto Magnus? Che lei non voleva i problemi derivanti dal suo nuovo ruolo e che lo ha lasciato solo a gestire tutto?>>

Raphael era nato e cresciuto in America e malgrado fosse sempre vissuto in mezzo alla comunità messicana il suo accento non usciva mai allo scoperto, una perfetta pronuncia anglosassone addirittura lo contraddistingueva dagli altri ed era stato uno dei primi punti di contatto tra lui e Ragnor. Ma in quel momento il sibilante accento delle terre infuocate del sud, dove un tempo avevano dimorato antiche culture e popoli potenti adoratori del sole, era tornato in tutto il suo splendore accecante.
Raphael era arrabbiato e Catarina non ne capiva il motivo, specie perché non lo aveva mai sentito difendere così Camille.
<< Io… sì, questo è quello che disse Magnus. Camille fece sparire tutte le cose dal suo appartamento e lasciò l'America senza dir nulla. Mags ne rimase- >>
<< Non è affar mio cosa sia successo tra quei due e come ci rimasero male. Ma credimi Catarina, spero vivamente che Magnus non sappia davvero il motivo per cui Camille se ne sia andata così e che creda che sia perché non voleva sopportare tutto il pandemonio che si è alzato dal passaggio di testimone ufficiale. Lo spero per lui.>>

Il suo tono freddo non ammetteva repliche, così come metteva il punto definitivo a quel discorso.
<< Se la vedranno loro due.>> si intromise Malcom guardingo, studiando l'espressione granitica del padrone di casa. << Ora dobbiamo parlare di altro, cose più importanti. Se Belcourt è qui significa che il Clan è di nuovo unito, mancava solo lei, no?>> domandò rivolto al giovane. Quello annuì.
<< Bene, un fronte è già unito.>>
<< Che fronte?>> chiese Catarina ancora turbata dalla reazione dell'amico. L'aveva visto inalberarsi in quel modo per poche, pochissime persone e una di queste era Ragnor. Illuminata da quel pensiero si voltò di scatto verso Raphael e lo scrutò sbalordita: che Camille fosse l'altro punto scuro della sua vita?
Catarina amava davvero tanto Raphael, così come amava Magnus e aveva amato Ragnor come l'avrebbe sempre amato­- ma c'erano delle cose di quello schivo ragazzo messicano che ancora non conosceva.
A quanto pare tanto lei amava il suo amico tanto lui amava il buio e le sue storie.
<< Forse non dovresti sentirle queste cose.>> le disse dolcemente Malcom, ma lei scosse la testa.
<< Ti ricordo che anche a me è arrivato qualcosa.>>
<< Ma non è una chiamata, gracias a Dios.>>
<< No, ma dice che è “Arrivato” e visto il mittente può trattarsi solo di una persona.>>
<< Sei sicura che il numero fosse quello?>> chiese l'uomo sporgendosi verso di lei.
Catarina annuì mentre recuperava la borsa e ne tirava fuori il cellulare. << L'ho chiamato troppe volte per essermelo dimenticato. Magari prima non avrei saputo dirtelo a memoria, ma appena l'ho visto l'ho riconosciuto.>> selezionò il messaggio e voltò il telefono verso di lui.
Raphael non si mosse, lui quel numero non lo avrebbe mai potuto ricordare.
<< Sì. >> sentenziò Malcom. << è decisamente il suo numero. Non credevo che l'avrei rivisto in questo modo e per questo motivo.>>
<< Quindi cosa pensi che sia?>> s'intromise Raphael.
<< Un avvertimento dato da un amico. Ci ha informati che ciò che faremo da oggi in poi dovrà calcolare anche la sua presenza.>> rispose Malcom. << Sapeva che tu l'avresti mostrato a noi, forse sperava anche che tu lo mostrassi a Magnus.>>
Catarina scosse la testa. << Assolutamente no. Se l'avessi fatto adesso saremmo tutti in pigione per i motivi più svariati. Se non tre metri sotto terra direttamente.>> concluse abbassando il tono di voce. << Quindi cosa dobbiamo fare?>> si riprese poi.
<< Tu nulla.>> disse subito Raphael. << Non hai ricevuto la chiamata e non fai parte di nessuna famiglia, quindi non ti immischierai in questa faccenda più di quanto non lo farai già per colpa nostra.>>
<< Non credo spetti a te deciderlo e ti vorrei anche ricordare che sono più grande di te. E che so difendermi.>> replicò infastidita.
<< Di poco. Per di più saprai anche come tener in mano un bisturi, ma mi duole informarti che una lama non batte un proiettile. Se ti ritrovasse coinvolta in uno scontro a fuoco, e prima o poi succederà, non avresti di ché proteggerti.>>
Il ragionamento di Raphael filava ma Catarina non avrebbe mai lasciato i suoi amici nei guai, non se di quella portata.
<< Raphael ha ragione, Cat.>>
<< Malcom!>>
<< Mi spiace cara, ma è così. Puoi difenderti da un problema, da un criminale anche, comune, ma non puoi far nulla contro i mostri che stanno per farsi vivi. Saremo tutti più tranquilli nel sapere almeno te lontana dai guai. Sei rimasta pulita fino ad ora, non entrare nel fango adesso.>> le sorrise gentile, cercando di convincerla in ogni modo.
Catarina sospirò. << Quindi non conta il mio messaggio?>> provò un'ultima volta.
<< No cara, non te lo ha mandato il Capo. Catarina, ascoltami, è decisamente meglio per te e per noi. Meno pedine ci sono in gioco meno vittime rischiano di esserci.>>
<< “Pedine”? Malcom questo non è un gioco, è la realtà! Rischiate di morire, di finire in prigione per il resto dei vostri giorni se vi dice bene!>>
<< Non siamo mai finiti dietro le sbarre.>> iniziò Raphael,<< Tranne Magnus, ovviamente. Comunque non ci finiremo ora. Questo è davvero un gioco, Catarina, il più delicato e difficile a cui potremmo mai partecipare, ma non cambia la sua identità. Anni addietro, prima che noi nascessimo, prima che anche Malcom entrasse in questo circolo vizioso, Asmodeus iniziò una partita, decidendone le regole e arrogandosi la possibilità di cambiarle quando voleva. Personalmente non le conosco neanche tutte, queste regole, e molti si sono rifiutati di dirmele. >> lanciò uno sguardo a Malcom come a fargli intendere che dopo avrebbe chiesto anche a lui. << E con “regole” intendo proprio quelle: ci sono cose che si possono o non possono fare, in determinati momenti o situazioni. Siamo divisi in “squadre”, ci chiamano Famiglie, Branchi, Clan, Popoli, Casate. Ognuno di noi ha una differente fazione e ruolo. Lo chiamiamo gioco perché lo è. La chiamata serve ad informarci che siamo giunti alle ultime battute di quest'opera, che presto dovremmo scendere in campo e combattere. Chi prima lancerà i dadi prima potrà muovere. >>
L'espressone sul suo volto era neutra e quasi preoccupante, ma Catarina non dubitò neanche per un secondo delle sue parole.
<< Posso almeno sperare che se avrete bisogno d'aiuto verrete da me?>> domandò ormai arresa.
Malcom le sorride. << Posso assicurarti che verremo da te solo ed unicamente se sapremo di non metterti in pericolo. Ma sì, se mi servirà un medico sarai la prima a cui penserò.>>
<< Io non posso, mamà s'arrabbia se non vado da mio cugino Rodrigo quando sto male, dice sempre “cosa l'abbiamo a fare un medico in famiglia se poi non lo sfruttiamo?”, ma sappi che saresti comunque la mia prima scelta, mio cugino è un cane.>> disse invece Raphael.
Un sorriso leggero tese le labbra di Catarina, per il momento quello poteva bastare.
Forse era davvero una cosa più grande di lei – di tutti loro- e doveva tenersene fuori il più possibile. Non voleva immaginare quali fossero le “regole”, come bisognasse agire, quanto sangue avrebbe sporcato le mani dei due uomini davanti a lei e di molti altri che conosceva.
Magari sarebbe stato loro utile un aiuto dall'esterno, qualcuno imparziale e soprattutto neutro che avrebbe solo fatto il suo dovere: come infermiera nessuno poteva obbligarla a non far il suo lavoro, a non cercare di salvare delle vite.
Dalle loro parole ne dedusse che presto New York City sarebbe diventata un pandemonio in terra, che le strade sarebbero state battute da demoni infernali tornati in superficie, da fazioni diverse che un tempo avevano combattuto sotto lo steso vessillo per lo stesso signore. Ogni angolo sarebbe stato un punto salvo per nascondersi, dietro il quale moderni cowboy sarebbero stati pronti ad armare la propria pistola e sparare a sangue freddo al nemico.
Osservando i suoi amici Catarina si domandò improvvisamente una cosa: Se loro erano i banditi, i popoli che presto avrebbero fatto fuoco e fiamme di quella città, chi sarebbe stato lo sceriffo, pronto a riportare l'ordine?

 

 

 

 

 

Fare la strada dallo studio a casa sua, la sua vecchia casa, non era poi così impegnativo. Se il dottor Lawson costava quello che costava non ci si poteva mica aspettare che vivesse in periferia e per fortuna non abitava neanche dall'altra parte del Parco. La 5th Avenue era abbastanza vicina, per di più ad Alec non pesava minimamente camminare, non dopo esser stato così tanto tempo seduto.
Erano passati mesi da quando aveva lasciato la sedia a rotelle, qualcosa di meno da quando aveva lasciato definitivamente le stampelle, che per altro erano ancora sotto il letto della sua vecchia cameretta, sempre a portata nel caso fossero servite quando ancora stava dai suoi.
Probabilmente, tra tutte le case della sua famiglia, quella più adatta alla degenza sarebbe stata quella di Jace, che vantava un bell'ascensore funzionante. L'appartamento di Izzy era al secondo piano di una palazzina da tre, quindi niente oltre alle scale per salire. Quello di casa sua era rotto dall'alba dei tempi, ed Alec proprio non voleva ricordare come fosse successo, ed infine l'ovile non aveva uno straccio di ascensore in cinque piani, sei se si contava il seminterrato, di casa.
Già portarlo oltre quei quattro gradini che c'erano all'entrata era stato terribile. Jace, Simon, Izzy e pure Jordan, chiamato per l'evenienza, si erano quasi rotti qualcosa per riuscire a portarlo su con tutte le bombole dell'ossigeno e la sedia.
Poi era arrivato Seth, aveva guardato tutti con una faccia accigliata quanto interrogativa e aveva domandato per quale dannato motivo non avessero messo semplicemente una rampa sui gradini.
Max rideva ancora quando si tirava in ballo l'argomento e l'avrebbe fatto per molto tempo. Di solito la battuta iniziava con “Quanto ci mettono due poliziotti, un ingegnere informatico e un patologo forense a portare una sedia a rotelle oltre quattro gradini?” e poi da lì giù a litigare su come, quando e perché avrebbero dovuto procurarsi una rampa.
Alec era perfettamente consapevole che a Natale la cosa sarebbe entrata di diritto nella lista delle grandi cazzate fatte dai Lightwood nel corso della vita.
Rimaneva il fatto che fosse rimasto per mesi nella camera degli ospiti del piano terra, che in realtà era la stanza degli armadi dove erano riposti i cambi delle biancherie per la casa e i loro abiti più importanti. C'erano le toghe dei diplomi, l'abito da sposa di Maryse e le divise d'onore di Robert e pure la sua. C'erano persino i loro vestiti del Prom.
Avevano aggiunto un letto, comprato e montato per l'occasione ed era diventata praticamente la sua prigione per quasi tre mesi.
Quando era tornato in camera sua, oltre quelle due rampe di scale, aveva tirato un sospiro di sollievo. Quando era tornato a casa sua si era quasi messo a piangere al pensiero di esser solo e non doversi aspettare incursioni a sorpresa da nessuno visto che per entrare sarebbe dovuto andare ad aprirgli il portone.
Per un periodo ogni volta che qualcuno lo informava che gli avrebbe fatto visita Alec chiudeva gli occhi e si domandava cosa avesse fatto di male nella vita.
Probabilmente era stata la stessa domanda che si faceva da una vita.
Le strade semi popolate della città però lo aiutavano a pensare ad altro, a distogliere l'attenzione da tutti quei problemi che gli affollavano la mente, tutti quei ricordi, lasciando il posto ad altre domande e altri pensieri.
Come quell'angolo di strada. Alec si bloccò nel mezzo del marciapiede per poi spostarsi velocemente di lato ed evitare così di dar fastidio.
Il marciapiede grigio sporco era lo stesso di tanti anni fa e persino la vetrina che vi stava davanti non era cambiata nei colori ma solo nell'allestimento interno. Le scalette che portavano al piano seminterrato e quelle che invece conducevano al portone della casa di fianco. Una volta c'erano stati dei gerani sulla finestra dell'edificio, ma l'implacabile tempo newyorchese non era così clemente con quei delicati fiori.
Si ritrovò a sorridere e alzare lo sguardo al cielo, non c'era il sole splendente di quella volta e non vi era neanche qualcuno finito a terra per evitare una bici. A ben pensarci molte delle “prime volte” di Alec erano avvenute per colpa di un pony-express: il suo primo cadavere, la sua prima cotta, la sua prima realizzazione, il primo incontro. Dannazione, magari portava sfiga ai ragazzi delle consegne, o magari il Mondo non sapeva come rompergli ulteriormente l'anima e gli mandava moderni “messaggeri” con casco e protezioni a portargli delle nuove in sella al loro cavallo meccanico. E diamine, più meccanica di una bici non c'era neanche una moto, quelle ormai si reggevano di elettronica e di ingegneria avanzata.
Con una smorfia insofferente sul viso riabbassò lo sguardo sul terreno. Fare pensieri così filosofici sul Fato o chi per lui che ti manda a dire qualcosa non era proprio nelle sue corde, di solito tirava fuori argomentazioni terribili e soprattutto catastrofiche. Meglio lasciar perdere il destino e i pony-express, anzi! Chissà se sulla Weast Coast il tempo era bello, chissà se telefonando avrebbe disturbato o meno.
Neanche si rese conto di aver tirato fuori il cellulare dalla tasca, si ritrovò a fissare lo schermo nero e tentennò per un attimo. Erano le dodici passate lì, c'erano circa quattro ore di distacco da una costa all'altra, magari alle tre lì la gente era al mare a fare surf sui cavalloni invernali alti sette metri.
O magari poteva fare una prova e al massimo lasciare un messaggio.
Gli parve quasi di sentire la voce di Lawson che gli ripeteva di non partire sempre dal presupposto di star disturbando la gente, ignorando lo sguardo furbo di suo fratello che dal passato dei suoi ricordi ripeteva che chiedere è metà parte di ottenere, così come aveva insegnato loro nonna Phoebe. Lui non era mai stato bravo in quelle cose, nel chiedere, ma forse poteva fare un eccezione. Sbloccò il telefono con rinnovata decisione, aprì la rubrica e fece scorrere la lista fermandosi a colpo sicuro. Il pollice rimase per un po' sollevato sopra quel numero, tremando leggermente. Rialzò la testa per guardarsi attorno, gli ci sarebbero voluti almeno venti minuti di camminata veloce per arrivare a casa, ma se se la fosse presa con comodo avrebbe avuto tutto il tempo di farsi una chiacchierata come si deve.
Annuendo interiormente poggiò il dito sul display e si portò il telefono all'orecchio, il cuore in gola nell'attesa come se stesse commettendo un crimine. Come se fosse tornato bambino e si vergognasse ancora a morte di telefonare a qualcuno, spaventato dall'idea che potrebbe essere una terza persona a rispondere e non quella che si voleva sentire.
Poi il ritmico ripetersi di quel tuu monocorde finì ed Alec trattenne il respiro nell'attesa di sentire chi avrebbe trovato dall'altra parte.

<< Pronto? >>
La gola secca lo costrinse a deglutire, ma le sue labbra si tesero traditrici e non ci fu niente da fare, il sorriso che gli si aprì sul volto era quello del sollievo nell'aver trovato al primo colpo la persona giusta e della felicità di risentire qualcuno di caro dopo molto tempo. Effettivamente era da Natale che non si sentivano.
<< Ehi.>> cominciò bloccandosi quando sentì la sua voce tremolare per l'emozione. Come un dannato moccioso.
Dall'altra parte qualcuno rise in modo basso, divertito e privato, ma maledettamente famigliare.
<< Sei felice di sentirmi o hai avuto di nuovo la brillante idea di telefonarmi mentre stai correndo?>> Domandò l'interlocutore.
Alec scosse la testa. << Mi sono fermato per telefonarti.>> gli confessò con voce leggera e ferma.
<< Non hai investito nessuno questa volta?>>
Non riuscì a trattenere quella risata nasale per cui spesso era stato preso in giro e scosse ancora la testa lasciando che i capelli si scompigliassero più di quanto già non lo fossero.
<< Non sono io quello che investiva la gente, di solito la salvavo. A differenza di qualcuno che invece andava sempre salvato.>>
Una risata proruppe anche dall'altra parte. << Ah! Questo è un tiro da centro campo, Xander.>>
Alec sorrise a quel nome, mettendosi una mano in tasca e ricominciando a camminare verso casa, ad agio e con tranquillità.
Dopotutto, per quel giorno, per quella domenica, aveva tutto il tempo del mondo.


 

 

Chiuse la telefonata e rimise il cellulare nella tasca del giaccone, aprendo il cancelletto nero che delimitava quella piccola porzione di praticello ora sbiadito dal freddo che anticipava i “gradini maledetti”.
Era l'una e cinquanta, forse sua madre l'aveva dato per disperso o forse l'aspettava solo al varco per fargli una lavata di capo come non ne riceveva da quando era piccolo.
Suonò il campanello ed attese che gli aprissero, quella mattina non si era portato le chiavi appresso e si rimproverò per questo: non si poteva mai sapere se servissero o meno, specie perché non avevano una chiave nascosta o qualcosa del genere. Oh, e perché il codice di sicurezza dell'allarme era cambiato e i suoi ancora non glielo avevano detto, certo, anche per quello.
Un rumore di passi proveniente dall'interno gli rivelò, prima ancora che la porta si aprisse, chi fosse arrivato. Ebbe appena il tempo di chiedersi cosa ci facesse suo padre a casa che l'uomo apparve sull'uscio con un vecchio maglione vedere bottiglia indosso ed una forchetta ancora in mano.
Alec alzò un sopracciglio.

<< Scusa, stavate mangiando?>> Chiese dispiaciuto battendo i piedi sullo zerbino e seguendo il padre in casa.
Lui scosse la testa. << No, a dirla tutta sto preparando ora.>>
<< “Stai”? Mamma ti ha lasciato cucinare?>> fece Alec sorpreso.
Robert scosse la testa. << No, o poi dovrebbe ammettere che sono più bravo di lei. È corsa in ufficio, un sospettato voleva fare un accordo in cambio di una confessione.>> disse semplicemente tornando in cucina.
Alexander si fermò in anticamera per appendere il giaccone e svuotarsi le tasche, soppesando il telefono in mano e concedendosi un piccolo sorriso storto dei suoi prima di raggiungere il padre.
Un profumo invitante arrivò dritto dalla pentola che bolliva sul fuoco, non gli ci volle molto per identificare la zuppa di zucca in quel denso composto aranciato che scorse oltre il coperchio.
<< Ti piace, no?>>
La domanda dell'uomo lo fece voltare: ogni volta che era suo padre a dover cucinare cercava sempre di far loro i piatti che preferivano. Quando poi c'era uno solo dei suoi figli si concentrava soprattutto su quelle pietanze che gli altri non amavano troppo. Le zuppe rientravano tra quelle cose che tutti in famiglia mangiavano ma che, per così dire, se non c'erano non venivano richieste. Tranne da Alec ovviamente. Brodi, minestre, zuppe calde… Alexander aveva sempre amato la consistenza morbida e vellutata di quei piatti, che gustava senza l'aggiunta dei sempiterni crostini di cui andava matto Max, o delle spezie di Izzy o della pasta che Jace preferiva per asciugare il più possibile il composto. Suo padre lo sapeva, così come conosceva alla perfezione le preferenze di tutti, eppure continuava a chiedere se una cosa andasse bene oppure no, come se avesse l'eterno terrore di far qualcosa di sbagliato.
Si guardarono in silenzio e quando Alec vide quel leggero rossore colorare le guance dell'uomo seppe che ve ne era uno identico sulle proprie.
Mettere assieme i due più timidi della famiglia non era mai una buona idea, specie perché loro due, malgrado gli anni e tutto ciò che avevano condiviso tra di loro come segreti inviolabili, continuavano a sembrare due cactus che non sapevano come toccarsi.
Alexander annuì così a suo padre e tentò un sorriso, storto come quello sul volto dell'altro.
<< Certo papà, lo sai che l'adoro.>>
Anche Robert annuì, impacciato e rigido come lo era in ogni suo approccio affettivo ai figli, specie ad Alec, e tornò ad apparecchiare la tavola della cucina, borbottando che avrebbero mangiato lì perché sarebbe stato sciocco apparecchiare la tavolata infinita della sala da pranzo.
In un susseguirsi di cenni di testa, azione di cui entrambi sembravano vivere e che pareva essere la risposta giusta a tutto, il giovane si congedò per andare a lavarsi le mani e quando tornò trovò già servito in tavola.
Mangiarono in silenzio per un po', le solite chiacchiere gentili ed inutili s'accesero sino a quando suo padre non gli chiese come fosse andata da Lawson.

<< Devo rivederlo tra due settimane. Mi ha dato una tisana rilassante da prendere per aiutarmi a dormire.>> disse flebilmente sbrigandosi a riempirsi la bocca per non dover aggiungere altro.
Robert si bloccò con in cucchiaio in aria. << Non riesci a dormire?>>
<< Sogni.>> bofonchiò solo, ma suo padre non ci cascò.
<< Del Medio Oriente? I sonniferi non fanno effetto?>>
<< Non voglio prenderli.>> sentenziò già innervosito dalla piega del discorso. Con suo padre non poteva fingere nulla, lui era stato sotto consulto psichiatrico e anche sotto farmaci pesanti, lo sapeva che i medicinali funzionavano e che se non li prendevi eri tu che non volevi guarire, lo sapeva fin troppo bene.
<< Alexander, se non dormi non sarai abbastanza lucido sul lavoro.>> gli disse subito infatti, ma Alec non era una testa dura meno dei suoi fratelli, era semplicemente uno con cui si poteva discutere. La maggior parte delle volte.
<< Non li prenderò. Non è così insopportabile, dormo tutte le ore che devo, solo in modo un po' agitato.>>
<< Quanto è “un po'”?>>
<< Lo sai.>>
<< No, non lo so Alexander.>> il suo tono perentorio gli ricordò quello per le grandi sgridate di quando era piccolo. Lo vide poggiare la posata sul piatto ancora mezzo pieno e cercare i suoi occhi, ma Alec sapeva che nel momento in cui gli avrebbe concesso il suo sguardo sarebbe stato perso.

Sono ancora quel ragazzino convinto che se venisse fissato dritto negli occhi tutti i suoi segreti verrebbero rivelati.

<< Non posso sapere come e quanto dormi male se non me lo dici e la tua inclinazione a minimizzare tutto ciò che ti riguarda, nel bene e nel male, non aiuta per niente. Cos'hai?>>
Ancora non lo guardava, Alec continuò a tenere ostinatamente gli occhi sulla zuppa arancione che fumava nel suo piatto.
<< Ho sprazzi di ricordi… >> iniziò con voce flebile. << Vengono innescati da qualcosa che succede. Rumori, suoni, parole. Qualche giorno fa Magnus e Simon hanno litigato, si sono urlati contro. Ho sognato il risveglio al campo medico.>>
Probabilmente Robert avrebbe capito tutto anche solo se gli avesse detto “hanno urlato”, ma apprezzò molto lo sforzo che fece il figlio per tirarsi fuori di bocca tutte quelle poche ma importanti parole.
Fin da quando era piccolo, quand'era solo un infante in fasce, Alec aveva avuto quasi paura delle urla. Quando l'avevano portato in camera di Maryse, appena nato, era calmo e rilassato, così piccolo, tutto raggomitolato su sé stesso. Ma non appena il pianto di un bambino era arrivato dal corridoio aveva iniziato ad agitarsi, a muoversi inquieto sino a cominciare a piangere lui stesso.
L'aveva visto tapparsi le orecchie quando un minuscolo Jace aveva urlato a pieni polmoni per la fame, lo aveva visto nel panico perché non sapeva – lui piccolo bambino di un anno e mezzo- come calmare il fratellino. Aveva visto quanto fosse quasi sofferente delle urla di Isabelle, che voleva tutte le attenzioni su di sé e lo ricordava con lo sguardo pieno di terrore ed il volto impassibile quando lui era uscio dalla sala operatoria per annunciare a tutti loro che sia il piccolo Max che la mamma stavano bene.
Alec aveva sempre avuto un pessimo rapporto con le urla. Quando era tornato dal fronte i primi mesi non si poteva neanche chiamare a gran voce qualcuno da una stanza all'altra, non si poteva neanche urlare a qualcuno che lo volevano al telefono.
Era migliorato con il tempo, ma le urla aveva comunque mantenuto un posto terribile e al contempo importante nella sua vita.
Un Alec che urlava, per esempio, era un Alec che stava per spezzarsi, che era al culmine della sua paura, della sua impotenza, che temeva di non riuscire in ciò che doveva fare, di non esserne all'altezza.
Era una debolezza.
<< Perché hanno litigato?>> gli chiese allora e Alec alzò finalmente gli occhi su di lui, lo sguardo beffardo e stanco al contempo.
<< Pare la domanda del mese.>>
<< Dammi la risposta del mese allora.>>
Quello sospirò. << Simon ha incontrato una conquista di Magnus, ha pensato che questo potesse danneggiarci, glielo ha detto nel modo sbagliato e Magnus gli ha risposto nel modo sbagliato. Hanno discusso anche in Dipartimento, Bane ha detto delle cose che poteva risparmiarsi e io gli ho detto che effettivamente era così, quindi poteva anche andarsene e seguire solo i casi che voleva.>>
<< Questa è la versione concisa ma completa?>>
<< Ovviamente.>>
Robert annuì. << Posso presupporre che la paura di Lewis fosse per te? >>
<< Mh.>> Alec riabbassò la testa sul piatto e riprese a mangiare. << Non ti ci mettere anche tu papà, per favore. Ho sentito lui, Jace, Seth, Izzy e pure Lawson.>>
<< E ti hanno detto tutti ben o male la stessa cosa?>>
<< Che devo parlare con lui, conoscerlo se mi interessa davvero ma- posso sperare che tu almeno capisca?>> chiese speranzoso guardandolo di sottecchi.
L'uomo lo guardò di rimando e poi annuì lentamente. << Non è una situazione facile, ma per il bene della squadra dovreste chiarirvi. C'è un motivo se i rapporti tra colleghi sono vietati, ecco cosa succede.>>
<< Io lo so e speravo che lo capissero anche gli altri. Eppure pare che tutti credano che sia estremamente facile risolvere il problema.>>
<< Questo perché pensano al piano affettivo. Magari pensano anche a dei precedenti?>> gli domandò poi alzando un sopracciglio.
Le guance di Alec divennero rosse in un batter d'occhio, annuì in modo sconnesso e abbassò la testa, balbettando parole senza senso.
<< Ti posso ricordare che i tuoi fratelli mi hanno fatto la telecronaca di Natale.>>
<< I miei fratelli sono dei fottuti traditori del loro stesso sangue!>> Lo disse con veemenza ma si morse subito la lingua quando realizzò che stava parlando con suo padre e doveva mantenere un certo linguaggio.
Robert però sorrise mesto e un po' dispiaciuto. << Colpa mia… >>
<< So anche questo, i geni del ficcanaso dovevano essere di mamma, tutti noi saremmo stati degli splendidi avvocati.>> ammise a voce bassa.
<< Tua madre infatti voleva fartici diventare.>> gli ricordò ancora.
<< Già, temo di averle, ugh… notificato la mia contrarietà in modo un po' eccessivo quella volta...>>
Suo padre sospirò e annuì. << Ricordo bene. >> disse solo. Poi prese un respiro profondo. << Quindi la storia dei medicinali, degli incubi e magari anche di Bane è legata a quello?>>
Alec lo guardò a occhi spalancati. << No! Dio santo, no, assolutamente no. Sarebbe sciocco dire che non abbia mai influenzato le mie decisioni, ma… Papà, ascolta, ci sono cose del mio passato che io non sono pronto a condividere. Non le ho dette a Lawson posso andare a dirle a lui? Non le sa Simon, non le sanno Jace e Izzy, figurarsi Max. Alcune non le sa neanche Seth. Non posso caricare una persona di queste cose quando non ci conosciamo davvero, vorrei avere alle spalle uno straccio di rapporto d'amicizia prima di sganciare la bomba… letteralmente. >> finì di nuovo abbassando la testa.
L'altro annuì ancora. Era un gesto così comune ad entrambi che avrebbero potuto tenerci una conversazione a forza di cenni di capo.
<< Sì, ti capisco.>> sussurrò. << Vorrei solo- vorrei solo vederti felice, Alec e se Magnus Bane ti rende felice vorrei che tu non scappassi.>>
Un sorriso amaro si aprì sul volto pallido del giovane. << Una notte assieme e un caso alle spalle non fanno la felicità di nessuno.>> ammise stanco anche di provar vergogna.
<< Però ti attira.>>
<< Fascino del proibito? >> provò a scherzarci su rimestando la zuppa nel piatto. << Ha il suo fascino, sì, non lo negherò. Eppure non so fino a che punto possa esser giusto per me. Specie in questo momento.>>
Robert si tirò indietro sulla sedia ed incrociò le braccia al petto.
<< Come tuo superiore ti direi che hai ragione: non è adatto a te, non è adatto al lavoro che fai ed è vietato intrattenere rapporti sentimentali sul luogo di lavoro. Gli sei già affezionato, così come a Simon, questo è di per sé un problema, perché in caso di pericolo so che rischieresti il doppio per salvarli, ne hai già dato prova. Quindi il mio consiglio, come Comandante della Polizia, è di parlare con lui, spiegargli la situazione e dirgli che sei disposto a dargli la tua amicizia ma che non potrà esser nulla di più finché lui sarà al servizio del Dipartimento o sarete nella stessa squadra.>> iniziò serio.
<< E come padre?>> chiese invece Alec.
<< Come padre ti direi che sì, forse non è adatto a te, ma che per dirlo con certezza bisognerebbe “provare”. Dovete ugualmente parlare e chiarire il concetto, devi spiegargli cosa ti trattiene e cosa comporterebbe un vostro avvicinamento. Ti direi di essere felice o per lo meno di provare ad esserlo ma che se sei convinto che non faccia per te… >>
Alec espirò pesantemente, una smorfia a deformargli il viso. << Perché deve essere così complicato?>>
<< Perché è amore.>> gli rispose l'uomo con semplicità, sorridendogli comprensivo.
Il figlio lo fulminò. << Non ci provare papà.>>
<< Non ho detto nulla che non sia verità.>>
<< Non buttarla sull'amore, colpo di fulmine e simile per- >>
<< Cosa ti è piaciuto di lui?>> gli chiese a bruciapelo.
Alec si bloccò la lingua stretta tra i denti e le sopracciglia crucciate.
Ripensò a tutto ciò che sapeva di Magnus, tutto ciò che avevano condiviso e alla fine non poté che rispondergli sinceramente, come sempre nella sua vita.
<< Mi ha ricordato quando avevo diciassette anni, voi non sapevate nulla ma i ragazzi sì e quando uscivamo mi sentivo libero di fare e dire tutto ciò che volevo. Ma non è proprio così, con lui spesso le parole le devi dosare e anche bene.>>
<< Ma ti ha fatto prendere una boccata d'aria. >> si riavvicinò al tavolo e vi poggiò i gomiti spora. << Per ora non possiamo dire o fare nulla, finché non parlerete seriamente. Dopo che l'avrete fatto ti giuro che ascoltò tutto ciò che vorrai dirmi e ti darò il consiglio più imparziale che potrò mai darti.>> poi gli sorrise, con quello stesso sorriso storto che gli aveva passato una vita fa. << Ora finisci di mangiare, ti si sarà freddata la zuppa, non era la tua preferita?>>
Malgrado avesse dovuto riaffrontare quel discorso, malgrado fosse andato lì per parlare di tutt'altro, Alec restituì a suo padre l'immagine speculare del suo sorriso e annuì.
<< Lo sai che è la mia preferita.>>
<< Sì, certo che lo so.>>

 

 

 

 

 

Alla fine era riuscito a dire a suo padre anche ciò che stava per iniziare a lavoro. Ovviamente, perché altrimenti non sarebbe potuto essere, Robert già sapeva qualcosa, del fatto che questa Operazione fosse sotto mano di Antidroga e Omicidi e come Alec si era interrogato ancora sul motivo per cui non fosse stata coinvolta l'OCCB, suo padre aveva definitivamente e con brutale schiettezza messo a fuoco la situazione: Si trattava della ricerca di reti criminali in cui sicuramente anche poliziotti ed ex poliziotti, consenzienti o inconsapevoli, avevano preso parte e l'OCCB era stata a suo tempo non solo la sezione di suo padre stesso, ma anche quella di Valentine. Gli Affari Interni si domandavano ancora se ci fossero “adepti” dell'ex Vice Commissario e se fosse saggio metter loro a disposizione un'opportunità del genere.
Non era un segreto per nessuno che la Crimine Organizzato vantasse il più alto numero di infiltrati degli AI, così come molti sospettavano che Valentine avesse influenzato un po' troppe persone.
Quella di cui si fidavano di meno, ad esempio, era la stessa che ora se ne stava poggiata alla ringhiera delle scale del suo condomino, a fumare come una ciminiera.
Alto e lungo, magro da far paura, la sua figura spiccava per tetra presenza, il cappotto lungo lo faceva somigliare ad un becchino e in modo del tutto sciocco Alec si disse che almeno non era solo lui a sembrarlo quando indossava una palandrana nera.
Attorno al collo e sulle spalle pendeva mollemente una sciarpa grigia, dello stesso colore fumoso delle spire della sua sigaretta.
I capelli bianchi erano però più corti di come li ricordava, rasati corti sulla nuca, con un unico ciuffo più lungo che gli copriva gli occhi e che il giovane scacciava via con gesti secchi del capo. Con quel taglio sembrava ancora più magro ed emaciato di quanto non fosse mai stato, pallido come un fantasma, come i suoi capelli, come la neve ed il celo che prometteva bufera.
Le guance scavate, le labbra fini e screpolate, parevano quasi bianche, mentre l'unica nota di colore era data dalle iridi verde bosco e le profonde occhiaie violacee che vi stavano sotto.
A terra, vicino alle sue scarpe scure, c'erano già quattro sigarette ma Alec non dubitava che anche quelle sull'asfalto lì di fronte, mischiate alla fanghiglia e alla sporcizia delle strada, potessero esser sue.
Gli si avvicinò ad agio, studiandolo da lontano e pensando a come da tutta quella storia fosse, ironicamente, uscito fuori peggio il biondo rispetto a lui. Non se ne sarebbe dovuto stupire ed in fatti non lo fece.

<< Buona sera.>> disse con il suo consueto tono di voce monocorde, senza alzar la voce per farsi sentire meglio.
L'altro si girò di scatto, il viso affilato fu scosso da un brivido e poi quella sua classica, fastidiosa e spiacevole smorfia gli piegò i lineamenti. Un ghigno beffardo mostrò i denti leggermente ingialliti dal fumo.
<< Lightwood, te la sei presa comoda, credevo di doverti aspettare qui tutta la notte.>>
La voce di Jonathan invece era più rauca e forte, come se si stesse sforzando di replicare il modo in cui aveva sempre parlato.
Alec aveva la vaga sensazione che dalla morte di suo padre il ragazzo avesse perso quella sua smodata voglia di dar fiato alla bocca.
<< Sono stato dal medico e poi dai miei, sai com'è quando torni a casa.>> rimase sul vago, non specificò che avesse solo incontrato Robert, non voleva in alcun modo rincarare la dose.
<< Lo strizzacervelli?>> chiese quello con una punta di disgusto.
Fu il turno di Alec di sogghignare. << Sì, lo stesso che ha in cura te.>> lo sottolineò quello, perché se doveva sentirsi dare del pazzo avrebbe fatto in modo che l'altro si ricordasse che erano sulla stessa barca.
Jonathan parve rendersene perfettamente conto e fece un'altra smorfia. << Lawson è una spina nel fianco, non so perché ci torno.>>
<< Perché è bravo.>> disse solo lui.
Il biondo prese una boccata dalla sigaretta e annuì. << Purtroppo non posso dissentire.>>
<< Ti ci trovi bene?>>
<< Come ci si troverebbe chiunque con uno che fa più domande del dovuto su cose private e a cui non hai la minima voglia di pensare. Sì, diciamo di sì.>> borbottò.
<< Ma non credo tu sia qui per ringraziarmi per averti consigliato un buono psichiatra.>> disse pacato Alec cercando le chiavi di casa nelle tasche del giaccone.
Non vide l'espressione di Jonathan ma poté immaginarla dal tono della sua voce. << Non chiamarlo così in pubblico, dì solo “dottore”.>>
<< Ti ripeto che non c'è alcun motivo di tenerlo nascosto, lo sappiamo tutti che sei uno psicopatico.>>
<< E tu cosa saresti allora?>> gli chiese con sfida soffiandogli il fumo in faccia.
Alec si strinse nelle spalle. << Un sociopatico psicolabile con manie di sacrificio e un problema da stress post traumatico.>> gli rispose franco, ridendo interiormente della faccia sconcertata dell'altro, << O almeno così dicono.>> si difese infine alzando le mani in segno di resa.
<< E tu non hai problemi ad ammetterlo?>> indagò cauto.
<< Chi mi conosce sa che non sono pericoloso, chi invece non mi conosce e ha a che fare con me la prima volta si comporta sempre in modo educato, cerca di non contraddirmi e di non farmi arrabbiare. Direi che va a mio vantaggio.>>
<< Forse dovrei cominciare a dirlo in giro anche io.>> fece all'ora Jonathan.
<< Mh, non so se ti conviene, a te crederebbero tutto, mi spiace.>>
Gli diede una pacca sulla spalla e poi salì i gradini che l'avrebbero portato all'entrata. Inserì la chiave e si girò verso di lui.

<< Se non sei qui per ringraziarmi o per parlare dei nostri disturbi, presumo che tu sia qui per l'Operazione Congiunta.>>
Jonathan s'irrigidì all'istante, gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con veemenza sotto la scarpa.
<< Sono il tuo agente di collegamento con l'OCCB. Inizialmente non potevo credere che mi avessero affidato un caso del genere, ma poi mi hanno detto chi era il referente principale, che era tutto in mano a te e ho pensato che forse fossi stato tu stesso a chiedere di me.>> stava facendo un enorme sforzo nel dire quelle cose, a provare a ringraziarlo in un certo suo modo contorto, ma ci stava riuscendo e Alec non aveva la minima intenzione di rendergli il tutto più difficile.
<< L'operazione è mia, sì. Ho trovato il cadavere che ha fatto partire il tutto, ma non sono stato io a chiedere di te.>> lo vide serrare la mascella e si sbrigò a continuare. << Non ne ho avuto occasione e tempo, il Capo Blackthorn mi ha consegnato la tua cartella dicendomi che sapeva che se non ti avesse assegnato da subito a questo caso sarei stato io a richiedere il tuo aiuto.>> lo guardò dritto negli occhi, rimanendo serio come la situazione chiedeva. << Questa è una grande opportunità per entrambi. Per riabilitare i nostri nomi seppur in modo diverso.>>
Un verso sprezzante lasciò quelle labbra fini. << Non dire cazzate, tu non hai niente da riabilitare.>>
<< Ti ricordo che sono Tenente a ventisette anni. La gente ti guarda e vede tuo padre, la gente guarda me e vede il mio, solo che in te vedono i suoi errori, in me vedono un raccomandato. Abbiamo entrambi qualcosa da riabilitare.>> sentenziò duramente.
Jonathan lo guardò con una scintilla pericolosa nello sguardo. << Mamma mi ha proposto di cambiare cognome, di prendere il suo.>>
Forse un'altra persona non avrebbe capito il perché di quella rabbia serbata in una sola occhiata, specie se abbinata ad una frase del genere, ma in un qualche modo assurdo e ad Alec oscuro, lui lo capiva con la stessa semplice e immediata facilità con cui i pazzi si capivano a vicenda.

 

Forse perché se vivi nel buio poi riconoscerai sempre chiunque vi abbia vissuto a sua volta.
 

<< Tu cosa gli hai detto?>>
<< Di no ovviamente. >> sputò fuori sempre più arrabbiato. << Non ho intenzione di rinnegare ciò che sono stato fino ad ora. Non ho più tre anni, non andrò a nascondermi dietro la gonna di mia madre perché il mondo è cattivo con me e mi giudica, non sono un fottuto ragazzino e soprattutto, io non sono mio padre.>>
Quell'ultima frase fu detta con orgoglio e convinzione, ma anche con consapevolezza, con un peso invisibile che Alec sentì anche su di sé, così come sentì quell'ingombrante sentimento gonfiargli il petto.
L'aveva ascoltato, allora.
Alexander annuì con un solo cenno deciso del capo, gli occhi blu dritti e fieri in quelli verdi e ardenti di Jonathan.
<< Bene, allora vuoi rimanere qui al freddo o preferisci salire a prendere un caffè e sentire ciò che ho da dirti sul caso, Morgenstern?>>
Il ghigno di Jonathan era inquietante come quello di suo padre, ma su di lui Alec sarebbe stato pronto a scommettere anche in quel momento.
<< Puoi giurarci, Lightwood.>>

 

Fin da quando era piccolo Alec aveva imparato a tendere le mani verso i suoi fratelli, per consolarli, per tranquillizzarli o farli ridere, per invogliarli ad andare verso di lui o per riprenderli al volto quando cadevano.
L'aveva continuato a fare per tutta la vita, non solo con loro ma anche con gli amici che erano venuti dopo e nessuno aveva mai scansato quella mano.
In quell'infernale anno passato aveva teso il braccio anche verso il giovane uomo davanti a lui e seppur aveva dovuto attendere tanto con l'arto sospeso nel vuoto, alla fine ne era valsa la pena.
Perché per un motivo e in un modo a lui sconosciuto, Alec ispirava fiducia, protezione, giustizia e nessuno riusciva mai a rifiutare un po' di luce che, paradossalmente, Alec stesso non aveva mai usato per rischiarare il suo cammino.
Ma come ogni Lightwood lui era un faro nel buio, un'opportunità, ed ora che Jonathan aveva accettato il suo aiuto, gli si era affidato, ora che aveva stretto la sua mano, Alexander non l'avrebbe più lasciata.

Sino alla fine e forse anche po' dopo.


 


 


 

Il piano era vuoto in quel momento ma l'uomo non si era posto il problema di esser visto, in ogni caso non avrebbe dovuto dar spiegazioni a nessuno.
La segretaria di solito andava via alle otto di sera, subito dopo il suo capo e Burning contava proprio su questo: quella donna era l'unica persona dei cui spostamenti si fosse precedentemente accertato, se l'avesse visto lì a consegnare documenti si sarebbe offerta lei stessa di farlo e addio piano.
Avrebbe dovuto prendere per un orecchio Branble e Gash e costringere uno di loro ad intrufolarsi nella stanza, ma il primo era impegnato quella sera ed il secondo avrebbe dato troppo dell'occhio, specie con ciò che c'era in ballo di quei tempi, quando qualcosa di quel calibro era in moto.
Arrivò davanti alla porta giusta e bussò educatamente, nel caso in cui vi fosse qualcuno dentro. Provò ad aprire la porta e la trovò chiusa. Un sorriso sinistro si aprì sul suo volto mentre con non-calanche si metteva la cartella sotto braccio e tirava fuori dalla cover del suo telefono due gancetti uncinati.
Ci mise pochissimo a scassinare la serratura e ancora una volta pensò a quanto fosse ridicolo che non vi fossero telecamere sul piano, che non ce ne fossero proprio in quel corridoio. Ma la verità era che non conveniva a nessuno aver delle testimonianze video o audio di ciò che avveniva lì, sarebbe stato solo un problema, dati sensibili alla portata di tutti.
Entrò con tranquillità nella stanza, la prima regola per non dare dell'occhio, per non esser subito identificati come soggetti sospetti era quella di comportarsi come se si avesse tutto il diritto di star lì, di fare ciò che si stava facendo. Più si era sciolti e convinti, meno la gente si sarebbe ricordata di te, vecchi trucchi del mestiere che avevano sempre funzionato.
L'ufficio era ampio e di giorno sicuramente ben illuminato, era pulito e ordinato ma Burning fece comunque attenzione a non far troppo rumore, non si poteva mai sapere le microspie dove fossero nascoste, se ci fossero effettivamente e soprattutto di chi fossero.
Camminò con leggerezza, come un ballerino sulle punte delle sue scarpe lucide, scivolando con eleganza sul legno levigato.
Osservò la scrivania da lontano, certo che ciò che stava cercando non sarebbe mai stato in un posto tanto banale come un cassetto. No, doveva aver una postazione più sicura, impensabile… o magari estremamente scontata.
Volse il capo verso la libreria e vi si avvicinò come un predatore sulla propria preda, tirando fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e prendendo delicatamente in mano la grande cornice che troneggiava davanti all'enciclopedia di legge, regalo del Sindaco di quasi dieci anni prima.
Entro i bordi metallici un ragazzo di forse diciotto o vent'anni massimo, sorrideva all'obbiettivo. I capelli biondi erano scompigliati ad arte, gli occhi chiari luminosi come solo quelli di un giovane spensierato potevano essere. Voltò la foto e l'aprì con attenzione, sorridendo sinistro quando dietro alla sottile tavola di legno trovò dei fogli ripiegati. Quelli erano solo la prima parte, lo sapeva fin troppo bene.
Rimise la foto al proprio posto, riposizionandola con attenzione, poi guardò le altre e prese quella che raffigurava quello stesso ragazzo, solo cresciuto, in abito elegante, stretto ad una donna dalla folta chioma castane, il sorriso dolce ed emozionato, vestita di bianco e con un enorme bouquet in mano. Anche dietro a quella c'erano altre carte. Così come ve ne erano dietro alla foto del ragazzo in divisa, di una donna austera stretta nella sua di divisa d'alta onorificenza, che stringeva la mano ad un Senatore. Dietro ad ogni foto c'era un pezzo di quel puzle e Burning non poteva credere che fosse tutto così semplice, doveva esserci per forza un inghippo di qualche tipo.
Lo trovò quando si rese conto che tra le pagine numerate ne mancavano alcune risalenti alla seconda metà degli anni ottanta. Ciò significava che il suo proprietario le stesse visionando proprio in quel momento e che il giorno, la settimana, il mese dopo sarebbe tornato a metterle a posto e avrebbe cercato le altre. Quando si sarebbe accorto che mancavano, allora, avrebbe cambiato il nascondiglio degli unici frammenti che gli erano rimasti e avrebbe saputo che altri a sua volta sapevano e che probabilmente il suo gesto aveva appena messo in pericolo tutto il delicato castello di carte che era stato costruito con il tempo.
Probabilmente non avrebbero più visto le pagine degli anni ottanta, non avrebbero scoperto di cosa parlassero, chi vi fosse scritto dentro, ma avere il resto della panoramica valeva la perdita di circa quattro anni.
Rimise anche l'ultima foto al suo posto, quella in cui due ragazzi stavano sull'attenti uno vicino all'altro, infilò tutte le pagine piegate nella cartellina che aveva con sé ed uscì dall'ufficio, richiudendolo con attenzione.
La serratura era intonsa, neanche un graffio a segnare l'infrazione.
Le labbra si tirarono in quello che sarebbe dovuto essere un sorriso di vittoria ma che invece apparve solo come il ghigno appagato di una belva che aveva appena affondato le proprie fauci nel collo della sua preda, storto e pericoloso come quello di un diavolo tentatore che ha visto il suo protetto scivolare nell'oblio.

Dopotutto, uno dei soprannomi di Burning era proprio quello del demonio.


 


 

 

Aveva staccato tardi quella sera. Di solito la domenica era una giornata in cui c'era meno gente al locale perché il giorno dopo sarebbe ricominciata la settimana e tutti sarebbero tornati al lavoro. Invece quella notte pareva che tutta NY avesse deciso di darsi alla pazza gioia, come un popolo che festeggia gli ultimi attimi di libertà prima del ritorno del tirannico signore.
Magnus c'aveva pensato un bel po', a quello che gli aveva detto, anzi, a quello che non gli aveva detto Raphael, alle voci che giravano, al fatto che Malcom non fosse ancora tornato alla soleggiata città degli angeli e anche a ciò che gli aveva detto Simon.
I demoni del Principe si stavano riunendo, uno dei suoi migliori amici era stato coinvolto nella cosa, l'uomo che l'aveva praticamente cresciuto non accennava a tornare a casa sua non che a Magnus desse fastidio averlo attorno, tutt'altro- ed il suo collega lo informava che avevano ritrovato il cadavere del suo ex tentato assassino, che per altro si collegava a qualcosa di molto più grande di loro.
Se questi non erano tutti segni che il Fato gli stava mandando per fargli capire che presto sarebbe scoppiato il finimondo, Magnus non sapeva proprio cos'altro potesse aspettarsi.
Ultimamente la sua mente era continuamente sotto stress e l'idea di rivedere tanti amici – e non – persi nel corso del tempo lo eccitava e disorientava allo stesso tempo.
La cosa più preoccupante era che ignorava il suo ruolo in tutto ciò, sempre che suo padre avesse pensato ad un ruolo per lui o invece, come suo solito, lo avesse riposto nel ripiano più alto della cristalleria per far sì che nessuno lo toccasse. Anche quella era un'opzione, ma ormai Magnus aveva quasi trent'anni e non voleva più fare la bella statuina che prende polvere nell'attesa che il suo proprietario decida di metterla alla portata e alla vista di tutti.
Era un uomo e sarebbe sceso in campo come tutti gli altri suoi fratelli. Solo che se un tempo era stato sicuro che avrebbe vestito la nera armatura ora si ritrovava a pensare che forse qualche parte di essa sarebbe stata chiara, se non tutta grigia.
Poco da fare, si disse sorridendo beffardo, quella mandria di pazzi che era la famiglia Lightwood -e lui se ne intendeva di pazzi quindi poteva dirlo con cognizione di causa- l'aveva irrimediabilmente corrotto.
Si poteva dire “corrotto” quando si passava dal male al bene?
Probabilmente no, ma non gli interessava, il verbo “corrompere” era uno dei suoi preferiti.
E a proposito di corruzione, si sarebbe dovuto procurare una scatola formato gigante di pasticcini per l'indomani e magari presentarsi alle sei di mattina davanti la porta di qualcuno per obbligarlo a parlare lì su due piedi e non rimandare la cosa.
Stava giusto pensando di chiedere ad uno dei suoi di recapitare una lista con tutti i gusti che voleva alla pasticceria, quando notò qualcosa di strano vicino alla sua macchina.
Le semibuio del parcheggio coperto la sua Cadillac scintillava come una gemma nel suo nero cofanetto di velluto. Proprio sulla lucida lastra del cofano stava seduta elegantemente una donna, le gambe lunghe erano velate di nero, gli stivaletti poggiavano con delicatezza sul metallo verniciato e cerato. Teneva le mani poggiate all'indietro, il gonfio pellicciotto bianco la faceva sembrare una diva del passato e lasciava intuire il fisico curvilineo che il giacchetto nascondeva. Teneva gli occhi chiusi, in equilibrio sul nasino perfetto un paio d'occhiali tondi dalle lenti blu, il collo da cigno coperto dalle morbide onde dei suoi capelli biondi.
Sembrava si stesse godendo una musica che solo lei sentiva, qualcosa di estremamente bello che le rievocava ricordi cari.
Anche se non l'avesse riconosciuta a prima vista, il profumo che si era spanso per l'ambiente grande e vuoto, come feromoni ipnotici, che gli arrivava sottile, quasi fosse un miraggio, un'illusione, non l'avrebbe mai tratto in inganno.
Il sangue gli si gelò nelle vene, la sua mente andò in blackout e tutti i suoi centri nervosi si spensero. Per poi riaccendersi di rinnovata foga, rabbia, rancore, dubbio e paura.
Forse era davvero l'odore tossico della sua pelle quello che avvertiva, forse era quello che l'aveva ingannato anni addietro e per conseguenza il suo corpo reagiva come quello di un animale, rilasciando l'acido olezzo del disprezzo e della furia, compagno del sapore bilico che gli invase la bocca.
Mosse qualche altro passo e la donna si accorse di lui.
Voltò il capo vero Magnus e lo fissò da dietro le lenti colorate, la luce assente nel parcheggio rendeva impossibile vedere davvero le sue iridi nascoste da quei cerchi blu ma lui sapeva che fossero azzurri e cangianti, freddi come il ghiaccio e limpidi come il cielo a primavera.

 

Erano stati il suo cielo di primavera, quando la brezza fredda dell'inverno ancora ti sfiora ma la natura rinasce forte e vigorosa nell'eterno ciclo della vita.
 

Le labbra carnose e perfette della donna si piegarono in un sorriso che Magnus, con orrore, si rese condo di non saper più interpretare e se aveva perso questa sua dote significava che già partiva svantaggiato.

<< Bon soirée, Magnus. Ti trovo bene.>> disse con la sua voce da sirena. Il suo nome pronunciato da quella bocca era ancora la bugia più bella che potesse sentire.
La guardò con attenzione e cercò di individuare qualche punto debole, qualcosa con cui avrebbe potuto attaccarla se ce ne fosse stato bisogno. Ma ancora una volta, Camille si dimostrava un'inscalfibile regina di ghiaccio.
<< Tranquillo, non voglio saltarti alla gola. Sono vestita di bianco.>> gli sorrise divertita e Magnus tentennò: l'aveva notato, era stato impossibile per lui non accorgersene, per di più quelle parole… era il loro segnale universale, era il loro “non sono qui per ferirti”, perché il bianco è puro e gli abiti bianchi si sporcano con una facilità disarmante.
Era stata una battuta che per tutta la loro relazione aveva significato una conferma, un'affermazione, che in pochi capivano. Hai qualche affare?” le chiedeva lui, e lei gli faceva l'occhiolino e rispondeva “Sono vestita di bianco, mon cher.” e così Magnus sapeva che non sarebbe andata a rischiare la vita, che per quella volta sarebbe tornata con le mani immacolate come il suo vestito.
Camille non era lì per combattere, per ferire. Era lì per parlare con lui.
<< Non sapevo fossi tornata.>> si risolse comunque a dire, senza volergli dare la vittoria di quella sua affermazione.
Camille continuò a sorridere. << Non si saluta più? Dove sono finite le tue buon maniere?>>
<< Fare conversazione in un parcheggio desolato con una come te non è qualcosa che ti spinge ad usare le buone maniere.>> le rinfacciò.
Ma ancora una volta la donna indicò il suo pellicciotto. << Cos'altro vuoi come prova che non cercherò di ucciderti?>>
<< Potresti sempre prendermi un rene.>>
<< Mi sporcherei così.>>
Quel piccolo botta e risposta lo lasciò stremato, la contrazione rigida dei suoi muscoli lo stava affaticando più di quanto non facesse quella luce sfarfallante con i suoi occhi.
<< Perché sei qui?>> si arrese a chiederle.
Camille scivolò giù dal cofano come acqua sulla cera, fluida ed elegante, cadendo in piedi sui tacchi in raso come un gatto sulle zampe morbide.
<< Non è che abbia avuto poi molta scelta. Fosse per me sarei rimasta a Parigi, ma qualcuno mi ha fatto recapitare un regalo e non ho potuto far a meno di venir qui per ringraziarlo di persona.>>
Si muoveva anche come un felino, un felino fatto di cristallina acqua di fonte e se Magnus era rimasto imbambolato a fissarla camminare o se il suo cervello avesse captato qualcosa e stesse lavorando per capire cosa fosse il regalo di cui parlava, tutto s'arrestò quando la donna scostò di poco i lembi della pelliccia e lasciò intravedere sul vestito di broccato bianco e argento un grande e scintillante pendente rosso.
Contro la sua volontà Magnus fece un salto indietro, improvvisamente conscio del fatto che quel regalo fosse di suo padre, che l'aveva cercata in Francia per portare anche a lei la chiamata, per richiamarla all'ordine e farla tornare trai membri del Clan. Ma più di tutto, conscio del nome di quella gemma e della sua sanguinosa storia.
Non voleva neanche immaginare in che modo Camille l'avesse trovato, ma se ricordava bene quella leggenda e la ricordava eccome visto che era stato lui a ricercare proprio quella pietra- significava che la donna l'aveva tirato fuori dal cuore di un angelo.

O da quello di una persona.

<< Anche tu hai ricevuto la chiamata.>> non era una domanda ma Camille annuì ugualmente.
<< Tu no, invece. Dico bene?>> replicò calma e melliflua come solo lei poteva essere. Se fosse rimasto a sentirla parlare ancora un po' avrebbe usato la sua malia su di lui e l'avrebbe convinto a far di tutto.
Purtroppo non si sarebbe potuto sottrarre presto a quel canto melodioso.
Per sua fortuna quella notte Camille aveva tutt'altro in mente.
<< Cosa ne sai?>>
<< Non si mette il cristallo in mezzo alle lame, Magnus.>> c'era una nota di stanchezza nella sua voce, come se le desse fastidio ripetere sempre le stesse cose.
Cose che in effetti, a suo tempo, avevano ripetuto sino alla nausea.
<< Cosa sta succedendo?>> le domandò. << Perché anche te?>>
<< Perché quando i Principi decidono di metter il punto al proprio regno richiamano tutti i loro servi e coloro che hanno gravitato attorno alla loro corte. Richiamano gli amici ed i conoscenti e mettono al sicuro tesori e progenie. Non è quello che tuo padre ha sempre fatto?>>
<< A modo suo.>> concesse tirandosi leggermente indietro con la schiena quando la donna gli si fermò davanti.
<< Cosa vuoi da me, Camille? Non abbiamo più niente da dirci.>> si decise in fine a dirle con tono duro e fermo.
Ma lei sorrise, le labbra rosee si tesero scoprendo le file candide e appuntite delle zanne di un predatore veterano, di un vampiro che sa come stillare anche la più infinitesimale goccia di sangue dalla sua vittima senza però ucciderla, tenendola per sempre nel limbo tra vita e la morte.
<< Oh, Magnus, è qui che ti sbagli.>> voltò il capo verso le grandi aperture del parcheggio, da dove si potevano ammirare i palazzi ed il cielo in cui solo un fino spicchio di luna risplendeva tremulo. << La notte è lunga e noi abbiamo tanto di cui parlare. È ora di mettere un punto a questa storia, non credi?>>

 

Il vento cominciò a tirare ad alta quota, le nuvole bianche coprirono la luna, oscurando l'ultimo frammento di luce di quel cielo nero come inchiostro.
Quando anche il più piccolo raggio dell'astro minore veniva celato e la città cadeva nelle tenebre i Figli della Notte uscivano dalle loro cripte per rendere omaggio al buio e finalmente per tornare a vivere.

 

 

 

 










   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: The Custodian ofthe Doors