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Autore: swimmila    12/10/2018    6 recensioni
Bui, saranno i tempi.
In cui un assassino fallirà il suo lavoro. Quando lo sguardo servile scuoterà le viscere del suo signore e un’ancella gli giulebberà ostinata il piloro.
Bui, saranno quei tempi. In cui una moglie si sfila da sola il marito dal dito.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Un rituale nascosto

Un chiacchiericcio sommesso. Una danza in parole che in punta di piedi rimbalza compita da bargigliuto sussiego a contegnoso piacere. Un fluire pacato di suoni ammorzati in velluto cremisi e in ori setosi. Farisaiche movenze ammantate di sobrio e irrigidite d’assisa.

Un trotto tranquillo. Una guida guardinga. La carrozza sussurra sul viale sterrato. Il canale scivola, come immobile nastro tirato.

Un percorso studiato. Una scelta snodata fra siepi compatte e un naviglio sodale. Un’attesa acquattata, un ruggito che attende impaziente il segnale.

Azzurra, la luce del sole. Bambagia, l’umore del cielo. Di altri il futuro, in ovattate parole. Di loro la morte, nella follia criminale.

Immobile, l’aria candita. Trainato, l’immobilismo in carrozza. Una foglia di insania nel vento della rivoluzione. Una mano innalzata. E a cassetta due figure accasciate.

Il trotto tranquillo. Ad un’insaputa deriva. Un proseguire cieco, sul cammino intrapreso. Una furia inconsulta e un balzo preciso.

Uno scatto imprevisto, un’intrusione improvvisa a fermare il volteggio. Un ghigno satanico riflesso nel vetro. Una gibigiana di fuoco. E nel vetro di nuovo il vuoto.

Un salto fulmineo, un segaligno boccone nelle acque propizie. A scorrere sangue, fra dita istintive. A bucare l’oscuro, con lo sguardo sgranato.

Un categorico nome, un futuro avvertito. Una qualunquistica mira, nella tramestata follia dell’agito.

§§§§§§

Il Generale Jarjayes giaceva irruente nel suo letto, attorniato da un corteggio di variegati affetti. Il dottore gli aveva fasciato ferite e favella ed era ormai prossimo al congedo. L’anziana governante inumidiva con stille di consolazione la batista merlettata del fazzoletto. André si muoveva solerte e impeccabile fra premura padronale e amore parentale. L’agitazione che gli sfarfallava nello stomaco, invece, era abituato a intabarrarla in una prossemica liturgia agli altri sconosciuta.

Quando aveva visto il Generale entrare sanguinolento a palazzo Jarjayes, sorretto per le braccia da puntelli in livrea, il suo respiro si era perso nella sincope e nei pensieri aveva trovato Oscar. In una frazione di secondo se l’era figurato morto, il Generale. In un brivido di orrore aveva immaginato Oscar condannata alla tantalizzante croce del rimorso per non essere stata presente nel momento del bisogno dell’uomo più determinante della sua vita. Questo, André, aveva pensato, mentre le nocche si contraevano a pugno e le unghie gli entravano nella carne. Mentre con voce artatamente pacata e appena percettibile impartiva lo stesso messaggio a galoppini diversi: uno per il Comandante della caserma dei soldati della Guardia Metropolitana, a Parigi; l’altro per la dama di compagnia di Sua Maestà la regina, a Versailles. Mentre il suo viso perfetto diventava vetroso per non sciogliersi di ansia; la mascella contratta graffiava l’aria; l’addome muscoloso si stazzonava di angoscia. Era rientrato prima di Oscar, quel pomeriggio, sospinto fuori dalla caserma da un turno di riposo. Avrebbe preferito aspettarla e tornare a casa insieme. Avrebbe voluto affrontare un nuovo tormentoso tramonto con lei silenziosa al suo fianco, spina lancinante di amore e dolore, mentre dalle froge dei cavalli usciva vapore di intima intesa. Invece era da solo ad impartire gli ordini affinché il Generale fosse condotto nel letto. Il dottore fosse mandato a chiamare. La servitù si sperticasse operosa a preparare acqua pulita e bende nettate. Era rimasto solo. Mentre le costole gli dolevano ancora per il pestaggio subito in caserma e il cuore sputava sangue raggrumato in una fricassea di raccapriccio e disperazione. Mentre indossava i paramenti del suo rituale tenuto agli altri nascosto.

In silenzio, il Generale lasciava che la competenza serafica del medico attorno alla sua ferita lo rimpannucciasse come una taumaturgica panacea. I pensieri, invece, gli esplodevano nella testa come la canna due volte derisa della pistola che lo aveva colpito di striscio. Aveva escluso di essere lui il vero obiettivo dell’attentato, che la morte del Generale Jarjayes non avrebbe arrecato vantaggio ad alcuna causa; ma i mandanti avevano frettolosamente affidato l’esecuzione a uno scalzacane che non si era preso la briga di mandare a memoria le fattezze della sua vittima, né si era riscattato come tiratore: che il proiettile lo aveva colpito in un punto ben lontano dalla morte. Si reputava un uomo fortunato, il Generale. Per essere ancora miracolosamente vivo. Per non essere ancora sua la testa ascritta nelle cospirazioni politiche che turbavano il Paese. Ma non si sentiva tranquillo. Seppure indossava altre mostrine che quelle del Generale supremo dell’esercito. Seppure era certamente stato scambiato per il Generale Bouillé che gli sedeva accanto. Lo ricordava bene lo sguardo allucinato di quel giovane assassino. Erano occhi, quelli, di chi non sottilizza fra connotati e gradi militari. Quel lampo era la luce esaltata di un millantato giustiziere che pesca nel mazzo di una classe sociale. Gli venne improvvisa la voglia di fumare la pipa, di aspirare fino al fondo dell’anima l’aroma sedativo e inebriante del suo tabacco preferito. Ma tutto quel solenne daffare attorno e su di sé lo aveva precipitato in un desueto abisso di peritanza che lo fece proseguire nel silenzio e nei pensieri.

Ripulita del sangue ingannevole, la ferita si era rivelata in tutta la sua sterile superficialità. André accompagnò il dottore alla porta, facendo ad ogni passo uscire dai polmoni l’aria stagnante che gli si era fermata nel petto. Sentì il Generale impartire imperioso l’ordine di preparargli qualcosa di caldo da bere; udì la propria voce indugiare con suoni sincopati in una impeccabile educazione. Oscar. Le sentiva infuriare sul proprio viso le sferzate di vento che smuoveva sul cavallo lanciato in corsa. Gli echeggiavano nelle orecchie le incitazioni furenti con cui patteggiava con César un galoppo furioso. Gli asciugava la gola l’aria che non le risaliva dal torace. Li sedava nella testa i pensieri che le polarizzavano la mente. Oscar. La sapeva arrivare. La sentiva gridare. La sudava sulla pelle. Gli batteva nel petto. Mentre il suo unico occhio risucchiava una luce che non traduceva in immagini e i suoi passi appaiati risuonavano nell’eco di una pacatezza speciosa. Oscar. Mentre risentiva il tacco dello stivale arrivargli nello stomaco bloccato da due paia di braccia da cui sapeva difendersi. Spappolato in un attimo dalle maramalde parole di sua nonna, che nel cortile della caserma lo aveva lasciato privo di vita. Mentre si ammantava degli ornamenti del suo cerimoniale agli altri sconosciuto.

Il Generale sprofondò nei cuscini e nell’inquietudine. Si era già arrivati a quel punto. Non era bastato quello scalcinato Robin Hood che rubava ai ricchi per distribuire ai poveri, oltre che agli sgherri al soldo di camarille rivoltose; ora bisognava pure temere di uscire per strada, che si stava diventando tutti bersagli mobili di effervescenti follie. Una cosa inaudita. Da Versailles giungeva una mollezza reale che stava rapidamente trascinando il Paese nel caos strisciante. Da palazzo Jarjayes si approntava la difesa di una figlia esposta ad inopinati pericoli dalla derisione degli eventi. Stava giusto parlando di Oscar con il Generale Bouillé, mentre insieme tornavano dalla reggia in carrozza. Mentre quel pazzo aspettava il momento per colpire. Organizzavano il matrimonio con cui il Generale aveva pensato di sottrarre sua figlia ai rischi ormai inaccettabili della vita militare. Alla pazzia del colpo di testa col quale lei aveva vanificato tutti i suoi sforzi e lasciato la Guardia Reale. Una cosa inaudita. Un divellere le radici della loro prestigiosa schiatta a cui lui non aveva potuto che assistere impotente. Un’arma a doppio taglio, quella figlia inedita. Un soldato impeccabile in autonomo pensiero. Inaudito. Aveva bisogno del suo sigaro, il Generale. Che quell’impiccione del medico era ormai andato via.

La porta si spalancò di orripilata irruenza. Apparve, Oscar, trafelata e ansimante, sudata e sconvolta, congelata in un’incredulità che non sapeva ancora se sciogliersi di sollievo o creparsi di dolore. Fu Marie ad indicarle la via. Quella stessa voce che pochi giorni prima aveva fermato il cuore del nipote nel loggiato nel cortile, accordava adesso nuova vita a quello della padrona, la sua bambina.

“La sua vita non è in pericolo, Oscar. Il proiettile non ha causato una ferita molto grave”. Le mani congiunte in deferenza ieratica, un pallido sorriso ad asciugare lacrime disperse in una timida gioia: una dispensatrice di vita e di morte, l’anziana governante.

E fu vita. A fuggire respinta dal respiro ansante di Oscar per tornare affannata nella liberazione di un pianto. Si accasciò a terra, sotto un peso sgravato, a sgorgare sollievo nell’incavo clemente di un palmo pietoso.

Toccò ad André, un morto in vita, allungare silenzioso un passo dietro l’altro. Offrirle l’anima in quella seta protesa. Sporgeva caldo l’amore dal suo sguardo calmo dietro una tempesta. Toccò al suo cuore, un’ostinazione pulsante in uno spirito estinto, raccogliere dolore da un viso affranto.

In ginocchio, Oscar sfogava per terra un’alleggerita paura. Poi. Una sensazione di ombra, un calore diffuso; dapprima un istinto e poi la certezza, nel suo campo visivo. Alzò lo sguardo, a cercare quegli occhi. Ci si tuffò dentro. Annegò di lacrime e di un doloroso tormento. Che dell’amore di André ne aveva ormai bisogno. Le attraversò l’anima, la sua dolcezza infinita adombrata di tristezza. Persino al di qua delle lacrime lo distingueva profondo e paziente e incrollabile l’amore su quel viso di cui non voleva più fare a meno. Che quell’uomo le era entrato nel sangue. Quei pensieri le erano usciti dal cuore. Quell’amore le era rimasto incastrato in gola.

André le stava davanti, in piedi, alla distanza sufficiente a una mano a sfiorare la sua. Nel tratto necessario a un fazzoletto per sciogliersi nel petto. Poche volte aveva visto Oscar singhiozzare a quel modo, senza inibizioni, sotto la sola urgenza della sincerità. Una di queste era stato a causa sua. Ma era passato. Una ferita ormai chiusa. Anche quelle del Generale si sarebbero presto fatte dimenticare. Si erano presi tutti un terribile spavento. Che da quando aveva memoria André non aveva mai visto quell’uomo malato, tantomeno ferito. Da quando aveva memoria, poche volte aveva visto Oscar sconvolta a quel modo. Ne aveva il cuore invaso dell’amore per il padre, André ne era certo. Anche se lei era abituata a tenerlo chiuso, il suo cuore. Agli altri nascosto. Non a lui. Che sapeva aprirglielo senza che lei se ne accorgesse. Come un ladro. Sapeva riempirglielo senza che lei lo sapesse. Come un dono.

Si aggrappò, Oscar, alla ferma pacatezza del viso di André per ricomporre il pianto in un sembiante disteso. Strinse il fazzoletto che lui le tendeva, fra dita mute di riconoscenza e inconfessabili pensieri. Le brillavano gli occhi. Di lacrime copiose e amore sfuggito. Mentre puliva la macchia della morte nella polla del sollievo. Mentre lasciava lo sguardo sul volto dell’uomo che voleva.

“Grazie, André. Ti ringrazio” Mentre dilavava nelle parole un impeto del cuore.
 
   
 
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