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Autore: reggina    12/10/2018    3 recensioni
Una malattia che ha cambiato la vita di Philip.
Adesso è un sopravvissuto: una garanzia che, anche se gli è scampato, la leucemia non se la scorderà più.
Prima di ricevere la medaglia di guarito però dovrà capire che Superman non esiste. Mentre cerca di ricostruirsi dovrà accettare le sue fragilità, le sue insicurezze, il suo essere..."umano".
Sequel de: "Sulla collina rosa"
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Yoshiko Fujisawa/Jenny
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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L’avventura in Nazionale di Philip era ricominciata da dove si era interrotta due anni prima: in quell’Hotel sulla Statale tra Hiroshima e Fukuyama, su un anonima strada lontana da tutto e da tutti.

Durante il viaggio in treno Tom non era stato inopportuno, rispettando i suoi tempi e rivelandosi quell’amico con cui si può anche stare in silenzio senza che la situazione diventi artificiosa.

Per evitare di essere coinvolto in una conversazione non gradita Philip si era perso nei suoi pensieri con pollice e indice premuti sulle palpebre.


Ritrovarli quasi tutti era stato come fare un tuffo nel passato. Erano eroi giovani, belli, spensierati...

Erano gli stessi con cui era salito sull’aereo per Parigi, a undici anni, forse senza nemmeno sapere il nome esatto della destinazione. Però intanto si erano divertiti, e non poco.

Prima di partire si erano conosciuti meglio e, al ritorno, non avevano potuto fare più a meno l’uno dell’altro.

Erano passati quattro anni dal miracolo sportivo che li aveva consacrati come generazione d’oro e dietro quella grande pagina di sport c’era semplicemente la voglia di stare insieme.

Philip conosceva ogni loro minima mimica facciale, ogni fisima.

Il ghigno di sfida che accompagnava le sfide a pingpong tra Benji e Mark.

I gemelli Derrick, Clifford e Sandy: i magnifici quattro della consolle, impegnati a fare prove tecniche alla play station.

Bruce lo scaramantico, che indossava sempre la stessa tuta tanto da dormire con quella. E, quando se la toglieva per allenarsi, gliene facevano di tutti i colori…

Philip aveva dovuto costringere i suoi piedi a compiere quei decisivi dieci passi che lo separavano dall’entrare nel vivo di queste scene e decisiva era stata la pacca d’incoraggiamento di Tom.


Non poteva cancellare con un colpo di spugna il male di quei mesi di lontananza ma l’affetto degli amici lo aveva travolto e si era sentito subito parte integrante di quel gruppo.

Con la loro presenza avevano confermato il sentimento che li legava, oltre che dargli tanta energia.

Freddy Marshall era rimasto in disparte a godersi l’affiatamento di quel gruppo fantastico.

C’era un episodio avvenuto nella clinica, lontano da occhi indiscreti, che Philip non avrebbe mai dimenticato.

Poco dopo il trapianto era andato in scena il dialogo più importante della sua carriera sportiva.

Marshall gli aveva fatto visita e al posto dei fiori si era presentato con un ottimo incentivo per spronarlo.

“Callaghan, come stai?”

“Insomma Mister!”

“Ti porto al Mondiale !”

Così secco, dritto al cuore. Quattro parole che gli avevano guarito l’anima.

Nei momenti di difficoltà le sentiva rimbombare nelle orecchie e accelerava.


Erano appena entrati in campo per il riscaldamento dopo una convocazione nella sala-riunioni, un tempio di filmati e immagini dei prossimi avversari su cui il mister chiedeva di prestare la massima attenzione.

A Philip tremavano i polsi e appena aveva messo piede sul rettangolo verde aveva sentito piccoli brividi di emozione e di responsabilità.

Prima di cominciare gli esercizi Mark lo aveva intercettato e, con un cenno del capo, lo aveva invitato a seguirlo sui gradoni dove avrebbero potuto parlare tranquillamente.

Calcolata la distanza che lo soddisfaceva dal resto del gruppo, Lenders si era tolto la fascia da Capitano dal braccio e l’aveva porta al compagno di squadra.

“Questa è tua, in assenza di Hutton, no?!”

Diretto, senza preamboli o mezze misure. Niente chiaroscuri.

In fondo era semplice e facile sarebbe dovuta essere anche la risposta.

Callaghan esitava, come se a quel pezzo di stoffa potesse affibbiare solo verbi al passato.

Quel pezzo di stoffa poteva dire tanto, tutto. Poggiato sul braccio cambiava il modo di vedere le cose, il modo di stare in campo.

Trasformava e modellava. Lo faceva diventare qualcosa di diverso.

Migliore.

Ma se prima era leggero adesso ne sentiva tutta la pesantezza.

Mark si era ben impresso in mente i suoi gesti e i suoi occhi

“La vita non dà garanzie. Accettane i rischi e le sfide!”

Era sbottato infine con i suoi modi rudi ma sinceri.

E allora Philip aveva accettato di essere investito di quel compito dal quale non poteva scappare. Di essere trascinatore e leone.

Di correre al doppio della velocità, di sudare, di lottare su ogni pallone e tirare fuori energie che credeva di non avere più.


Era tornato dai compagni con una marcia in più ma quando, durante il riscaldamento, tutti gli occhi si erano puntati su di lui si era sentito frugare nell’anima.

Qualsiasi cosa facesse sapeva che qualcuno lo stava guardando.

Fastidioso.

Si era dovuto concentrare al meglio per evitare errori ma, prima di rientrare negli spogliatoi, avvertiva ancora uno sguardo indugiare su di lui.

“Avanti Bruce, dillo che non sarò mai all’altezza di Holly! Non sono un campione, non sono un fuoriclasse…”

Le labbra del difensore si erano increspate in un mezzo sorriso e non aveva avuto bisogno di parole per smentirlo. Philip che era sempre stato la spina nel fianco dei vari Holly, Mark e chicchessia…Con tanto carisma da stringere tutta la squadra attorno a sé.

“Capitano. Mio capitano!”

Il ragazzo di Nankatsu aveva parafrasato quella battuta immortale, emettendo un suono simile ad uno squittio per smorzare la tensione di quel primo allenamento ed era sgattaiolato verso gli spogliatoi senza sentire il sussurro di ringraziamento di Philip.

Ora più che mai era convinto di voler dimostrare a sé stesso, al Mister, ai compagni, al mondo intero che non c’era altro posto su cui quella fascia dovesse trovarsi se non sul suo braccio.

E da lì non si sarebbe mossa per molto tempo perché lui era il miglior padrone possibile.

   
 
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