Dal capitolo precedente:
"«È
questo che voleva testare,
Keller? Voleva vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e
uscì dalla stanza, senza
voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata."
GIORNO 21.
Aida
si avvicinò al letto con un
misto di eccitazione e preoccupazione dipinto sul volto.
La sera prima Margaret aveva raccontato a Ben del desiderio della
piccola di
vedere la mamma e la mattina seguente il poliziotto aveva raggiunto in
ospedale
la madre di Andrea per metterla al corrente.
Helen si era mostrata molto preoccupata, aveva detto che avrebbe
preferito che
la bambina vedesse la mamma una volta sveglia. Non riusciva per nulla
al mondo
ad accettare che, probabilmente, quel momento non sarebbe mai
più arrivato.
Alla fine, però, aveva detto che andava bene, che avrebbe
potuto vederla.
Helen si fidava di quel giovane poliziotto. Lo aveva visto in poche
occasioni,
ma sapeva quanto fosse legato a Semir e anche ad Aida. Andrea le
raccontava
spesso di lui, della sua chitarra e dei giochi che si inventava ogni
volta per
far divertire le bambine. Così, alla fine, aveva deciso di
seguire il suo
consiglio.
Ben era allora entrato nella stanza con Aida, che non appena aveva
saputo di
poter finalmente vedere la mamma, si era aperta in un grande sorriso.
Ora però, accanto a quel letto, vicino a quei macchinari
ingombranti che non
tacevano mai, aveva un po’ di timore.
Guardò la mamma distesa, immobile e pallida, poi volse lo
sguardo
sull’ispettore alle sue spalle.
«Zio Ben, ma le posso parlare?».
«Certo che puoi, principessa. Vuoi che esca?».
La bambina scosse il capo, poi tornò a guardare Andrea e le
sfiorò una mano con
la sua manina sottile.
«Ciao mamma, sono io. Secondo me mi puoi sentire, non
è vero?».
Fece una pausa, avvicinandosi di più al viso della mamma e
appoggiandosi sul
letto con i gomiti.
«I medici mi hanno detto che tu dormi e che dorme anche
papà. Poi Ben mi ha
detto di Lily... ma non ti devi preoccupare, mamma, perché
Ben mi ha detto
anche che adesso lei sta bene.».
Ben, alle sue spalle, ebbe un sussulto. Sorrise, guardando con
tenerezza la sua
piccola principessa. Come poteva una bambina di appena nove anni farsi
carico
di una situazione del genere e provare anche a tranquillizzare sua
madre, senza
nemmeno perdere il sorriso?
Ancora una volta, l’immagine di Semir che si era preoccupato
per lui fin dal
primo giorno che lo aveva conosciuto gli attraversò la mente.
Più la guardava, più gli sembrava evidente che la
bambina fosse in tutto e per
tutto l’esatta copia del padre.
«Io non mi sono fatta nemmeno un graffio.»
continuò Aida, come se davvero sua
mamma potesse interagire con lei «Quell’uomo e
quella donna sono stati cattivi
con noi, però adesso è passato. Papà
mi ha sempre detto che sono una bambina
forte... però mamma, anche tu devi esserlo. Non puoi dormire
così tanto...
svegliati!».
La bambina si fermò, come aspettandosi una qualche reazione
da parte di quel
corpo disteso, che ovviamente, però, non arrivò.
«Dai, mamma... dovresti svegliarti. La nonna piange, ha paura
che tu non ti
svegli più. Io però non ho paura,
perché secondo me tu ti sveglierai. Ti va
bene se passo domani e ti parlo ancora un po’?».
Fece un’altra pausa prima di continuare.
«Va bene, allora ci vediamo domani.» concluse poi.
Si sporse per dare un bacio sulla guancia ad Andrea, poi si
voltò verso Ben per
dirigersi verso l’uscita.
«Zio Ben, ma che cosa fai? Piangi?».
L’ispettore le sorrise, passandosi fugacemente una mano sugli
occhi.
«Io? Ma no principessa, è solo un po’ di
polvere. Hai finito? Ti riporto dalla
nonna?».
Aida annuì, soddisfatta.
Lo prese per mano e uscirono insieme dalla stanza.
Ben
si diresse ancora una volta
verso la stanza numero 201.
Aveva appena lasciato Aida con la mamma di Andrea, ma non aveva alcuna
intenzione di lasciare l’ospedale. Sorrise amaramente,
pensando a come ormai quel
luogo per lui fosse diventato, da cinque giorni a quella parte,
praticamente
una seconda casa. I medici e le infermiere erano stati molto gentili
sia con
lui sia con Helen Schäfer e molto spesso avevano permesso loro
di rimanere
oltre gli orari di visita, viste le situazioni delicate in cui si
trovavano i
pazienti.
Camminando per i bianchi corridoi che ormai conosceva quasi a memoria,
l’ispettore pensò che sarebbe passato da Semir
più tardi.
Prima voleva parlare con Keller.
Abbassò la maniglia della porta cautamente, come aveva fatto
il giorno prima,
anche se questa volta sapeva chi lo avrebbe aspettato
all’interno della stanza.
E Friedrich Keller era lì, perfettamente vigile, questa
volta semi-seduto sul
letto, con la schiena sorretta da due cuscini.
«Jager.» lo apostrofò, vedendolo
«Mi mancheranno le sue visite quando sarò
fuori di qui.».
Ben strinse involontariamente i pugni e serrò la mascella,
mentre prendeva
posto sulla sedia accanto al letto senza nemmeno capirne il motivo.
«Che cosa la porta da me oltre al suo odio nei miei
confronti?».
Il silenzio che ne seguì parve già da solo una
risposta eloquente.
«Perché?» domandò il
poliziotto, semplicemente.
L’uomo alzò un sopracciglio «Credevo
fosse chiaro.».
«Non lo è, invece. Che cosa volevate fare?
Perché avete sparato ad Andrea?».
«Volevo togliergli tutto, Jager.» spiegò
Keller, con un impercettibile sospiro
«Volevo vederlo crollare pezzo per pezzo. Volevo che
soffrisse tanto quanto
avevo sofferto io.».
Ben continuò a tenere le unghie conficcate dentro ai palmi
delle proprie mani.
Ma non disse niente, fu l’evaso a proseguire.
«Volevo che sua moglie morisse davanti ai suoi occhi e che
davanti a lui
morissero anche le sue figlie, una alla volta. E, prima, gli ho fatto
anche
credere di aver ammazzato lei, Jager.».
«Maledetto bastardo.» mormorò il
ragazzo, sicuro che l’altro lo avesse sentito.
Ora capiva perché la prima cosa che gli aveva detto Semir
quando lo aveva
trovato sotto le macerie era stata “credevo fossi
morto”.
«Non dica così, Jager. L’ha voluto
lui.».
«Semir non sapeva che ci fosse la sua famiglia dentro a
quell’auto.» replicò
Ben, ora rosso in volto.
«Non intendevo questo.» fece Keller, con voce
melliflua «Intendo la sua “morte”.
Ho fatto scegliere a Gerkhan chi sacrificare tra lei, Jager, e sua
moglie. È
stato il suo caro collega a scegliere che lei morisse. Così
io ho finto di
prenderlo in parola e poco dopo gli ho comunicato di averla
uccisa.».
L’ispettore rimase in silenzio.
Immaginava quanto Semir avesse sofferto nel prendere una decisione del
genere,
immaginava che fosse stato costretto e che avesse opposto resistenza.
Ma
pensarci, nonostante tutto, gli tolse un po’ il respiro.
«Già, immagino sia difficile da
digerire.» commentò l’uomo, con un certo
compiacimento
dipinto in viso.
Ben vinse ragionevolmente l’impulso di prenderlo a pugni.
«Immagino come lei gli abbia chiesto
di
scegliere.».
Keller sorrise, stringendosi appena nelle spalle.
«Ora come sta Gerkhan?» chiese poi. E lo chiese con
una voce diversa, che poteva
tradire, addirittura, una lieve nota di preoccupazione.
Ben rimase nuovamente in silenzio qualche secondo, prima di riuscire a
rispondere: quell’uomo lo confondeva. Un attimo prima rideva
beffardo parlando
delle sofferenze che aveva provocato e un attimo dopo appariva quasi
preoccupato per la sorte della sua vittima. Prima sembrava criminale,
poi uomo.
Prima carnefice, poi vittima.
«Le interessa davvero, Keller?».
L’uomo annuì, senza aggiungere altro.
«Dopo avergli fatto quello che ha fatto, davvero ha il
coraggio di chiedere
come sta?».
«Se non vuole dirmelo non posso certo obbligarla,
ispettore.».
«Senta...» fece Ben, alzando suo malgrado il tono
della voce «Non c’è un pezzo
del suo corpo che sia tutto intero, sua moglie è in coma e
molto probabilmente
non si sveglierà, sua figlia... Semir non si è
ancora svegliato, ma come pensa
che si sentirà quando lo farà?».
«A pezzi.» rispose Friedrich, con fermezza
«Totalmente a pezzi, distrutto,
esattamente come mi sono sentito io. Ma concluda la frase. Sua
figlia...?».
Il poliziotto scosse lievemente il capo.
Non ci riusciva, non lo aveva ancora mai detto ad alta voce, a parte
quando
aveva dovuto spiegarlo ad Aida.
Keller corrugò la fronte davanti al silenzio del suo
interlocutore.
«Non abbiamo toccato le bambine.» disse, in un
sussurro «Ho fermato Kate prima
che lo facesse.».
Ben continuò a tacere, e negli occhi dell’uomo
semi-seduto si dipinse qualcosa
di molto simile alla paura. E al senso di colpa.
«Jager... mi risponda.».
«È morta.» sillabò il
ragazzo, finalmente «Sua figlia, la più piccola,
è
morta.».
Rimase stranamente impassibile mentre pronunciava quelle parole,
studiando la
reazione di Keller. Una reazione che non si sarebbe mai aspettato.
L’uomo sbiancò, e parve cominciare a tremare
all’istante.
«Io... io l’avevo risparmiata.»
balbettò, in un filo di voce.
«È successo per il crollo
dell’edificio.» continuò Ben, con voce
piatta e
ferma.
«Oddio... oddio...» cominciò a mormorare
Friedrich «No... non l’avrei fatto...
non sarei arrivato a uccidere due bambine a sangue freddo... non sarei
arrivato
a farlo... Kate sì, ma io... io no... io no...».
«Sta provando a scaricare su qualcun altro la colpa,
Keller?» fece Ben, con
stizza.
Ma l’uomo non lo stava ascoltando.
Keller continuava a farfugliare tra sé parole senza senso.
Fino a quando accadde l’imprevedibile: l’evaso
roteò gli occhi all’indietro e
reclinò la testa su un lato.
Ben rimase per un secondo interdetto, immobile e sorpreso, ma poi
schiacciò con
forza il pulsante per le emergenze, catapultandosi un attimo dopo fuori
dalla
porta.
Poi, mentre le infermiere entravano nella stanza per assistere
Friedrich
Keller, lui si sedette nel corridoio e scoppiò in lacrime.
Non
seppe quanti minuti
passarono.
Un’infermiera corpulenta gli disse che lo avevano ripreso,
che il paziente si
era sentito male ma che ora stava meglio e doveva riposare. Ma Ben non
prestò
alcuna attenzione alle sue parole.
Fece per alzarsi, asciugandosi gli occhi, quando una figura sottile in
camice
bianco gli si parò davanti.
Lisa
Crawford aveva iniziato da
soli due mesi la specialistica di medicina in anestesia e rianimazione.
Adorava l’ambiente ospedaliero e fin da bambina aveva sognato
di poter
diventare un medico, ma fin dal primo giorno si era trovata davanti a
una
realtà che era ben diversa rispetto a quella che si era
limitata fino a quel
momento a sognare o a vedere nei film. Adesso che aveva ventisei anni e
una
laurea in Medicina nel cassetto, era arrivato il momento di capire
quanto la
realtà fosse molto più complessa dei sogni, molto
più dura.
Seguendo i medici da una parte all’altra
dell’ospedale, aveva capito nel giro
di pochi giorni quante responsabilità avessero i dottori che
lavoravano in
determinati reparti e quanto le situazioni dei pazienti fossero
delicate e
ciascuna diversa da tutte le altre.
Per le successive due settimane sarebbe stata assegnata al reparto di
terapia
intensiva. L’idea la eccitava e affascinava, ma al tempo
stesso le incuteva un
po’ di paura.
I pazienti in quel reparto spesso non erano in buone condizioni, i
familiari
erano disperati e facevano migliaia di domande ed era necessaria
un’attenzione
enorme a qualsiasi particolare.
Il primo caso che le era capitato tra le mani appena entrata in quel
reparto,
riguardava un ispettore della polizia autostradale di Colonia.
Lisa aveva seguito tramite i notiziari alla televisione il caso di
quell’evaso
che aveva rapito un’intera famiglia e il fatto che in quel
momento vittime e
carnefice si trovassero tutti in quell’ospedale, insieme a
lei, l’aveva in
qualche modo colpita.
Quando il dottor Schneider le aveva consegnato la cartella clinica di
Semir
Gerkhan e le aveva detto di eseguire controlli ogni due ore e di
avvisarlo in
caso ci fosse stato anche solo un minimo cambiamento nelle sue
condizioni, lei
ne era stata felice, ma anche intimorita.
Sentiva che una parte di responsabilità su quel paziente
adesso sarebbe stata
anche sua e, dal momento che aveva saputo che cosa fosse successo alla
sua
famiglia, aveva il terrore di poter in qualche modo creare altri danni
anche
solo con il proprio respiro.
Ora si trovava lì, davanti a quell’ispettore che
avrà avuto una decina d’anni
in più di lei e che sembrava completamente disperato, e non
aveva idea di come
approcciare un discorso.
Controllare i parametri di un uomo addormentato era relativamente
semplice, ma
parlare con i parenti dei malati o con i conoscenti stretti degli
stessi non lo
era affatto. E nessuno glielo aveva mai insegnato, avrebbe dovuto
cavarsela da
sola.
«Lei
è l’ispettore Jager?» esordì
la ragazza, attorcigliandosi timidamente una ciocca di capelli biondi
attorno
all’indice della mano destra.
Ben annuì, corrugando la fronte.
Quella ragazza avrà avuto più o meno venticinque
anni, il poliziotto immaginò
che si trattasse di una specializzanda. Era carina, esile, il viso
allungato e
coperto di lentiggini, ornato dai folti capelli biondi raccolti
disordinatamente con una pinza.
«Sì... sono io.».
«Io sono Lisa, Lisa Crawford. Il dottor Schneider mi ha detto
di venirla a
chiamare... si tratta dell’ispettore Gerkhan. Si è
svegliato.».
Ben
seguì la ragazza a passi
svelti, percorrendo quel corridoio di cui ormai conosceva a memoria
ogni
piastrella senza riuscire a togliersi dalla mente l’immagine
di Keller che
roteava gli occhi e perdeva conoscenza.
Quando raggiunse la porta della stanza di Semir, la giovane
specializzanda si
fermò e lui fece altrettanto, notando Chris Schneider che
usciva dalla stanza,
chiudendosi la porta alle spalle.
«Allora?» domandò Ben, agitato,
accostandosi al medico «Davvero si è svegliato?
Come sta? Posso vederlo?».
«Ben, eccoti.» lo accolse il medico, con un mezzo
sorriso «Dunque... si è
svegliato, ma...».
«Ma? Chris, ti prego, dimmi che sta bene...».
«Non puoi entrare ora, Ben.».
All’ispettore gelò il sangue nelle vene.
Immaginò volesse dire che qualcosa non
andava e sentì il cuore cominciare a battergli nel petto
all’impazzata «Cosa...
che cosa...?».
«L’ho dovuto sedare.» spiegò
il dottor Schneider, sedendosi su un sedile di
plastica nel corridoio antistante la porta chiusa della stanza e
invitando con
lo sguardo Ben a fare altrettanto.
La ragazza, intanto, stava in disparte ad ascoltare.
«Si è appena svegliato e tu lo hai sedato?
Perché?».
«Era molto agitato, Ben, davvero troppo agitato.»
spiegò il medico, con calma
«Ha cominciato a chiedere di sua moglie, delle bambine, di
te, ma era davvero
troppo agitato e avrebbe rischiato di farsi del male, ho dovuto
sedarlo.
Dovrebbe dormire fino a domani mattina e spero che il risveglio a quel
punto
sia un po’ più tranquillo.».
«Okay...» mormorò il poliziotto,
valutando la gravità di ogni singola parola
pronunciata dal dottore «Ma come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani
mattina. Per ora posso dirti che il
fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato
è sicuramente un
buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.»
cominciò il medico, guardandolo fisso negli
occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la
dose di sedativo
che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di
domani mattina. Vai
a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno
di te. Quindi dammi
retta, Ben...».
Contro ogni aspettativa, il giovane poliziotto si limitò ad
annuire.
Era così stanco...
«Se ci sono novità, però, mi
chiami?».
«Certo, abbiamo fatto un patto.» rispose Schneider,
con un sorriso.
Ben annuì, ricambiando il sorriso.
«Grazie, Chris... grazie davvero.».
N.d.A.
E forse, dico forse, finalmente
accade qualcosa di positivo. Intanto conosciamo un altro personaggio...
Grazie Mary, grazie Reb e grazie a tutti voi che state leggendo, a
presto!
Sophie