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Autore: Crilu_98    14/10/2018    1 recensioni
La fame ed il freddo invernale non sono nemici che l'uomo possa sconfiggere da solo. Ma il prezzo che gli dei chiedono in cambio della salvezza è molto alto: i nati di quella primavera maledetta saranno tutti consacrati a Mamerte, sanguinario e crudele dio della guerra.
Tra di loro, Sattias è il più gracile, il meno abile, per nulla carismatico; tuttavia, quando giunge il momento di partire verso la terra che è stata loro promessa, è lui che il picchio di Mamerte sceglie come guida.
In un viaggio pieno di pericoli, profezie ed incontri inaspettati, Sattias dovrà ricorrere a tutta la sua astuzia per tenere al sicuro le persone che ama: perché nel loro mondo ci sono poche certezze, ma una di queste è che gli dei non ripongono mai la loro fiducia nell'uomo sbagliato.
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Sattias non ricordava come avesse ritrovato Manlios ed Etrilia: era più probabile che fossero stati loro a seguire le sue tracce e ad accamparsi dove lui era crollato addormentato per la stanchezza. 
Comunque si stropicciò gli occhi per svegliarsi del tutto, tirandosi a sedere e stringendo d'istinto la spada che aveva al fianco quando vide un'ombra torreggiare accanto a lui: ma era solo Manlios, che gli sorrise amichevolmente. 
"Allora, mio re, come stai quest'oggi?" 
Le sue parole cerimoniose erano un tentativo di strappargli una risata, ma erano anche prive di scherno e piene di fiducia: Sattias non gli sarebbe mai stato abbastanza grato per la testardaggine con cui chiudeva gli occhi di fronte alle sue mancanze. 
"Meglio…" borbottò lui, guardandosi intorno. Vide che Etrilia, poco più in là, trafficava con le sue erbe sopra ad un piccolo focolare. 
"Sabidia?" 
Manlios storse le labbra come se avesse ingoiato una bacca velenosa: 
"Ha raccolto le sue cose con furia, gridando che sei un idiota ed un ingrato… E poi è corsa via, dietro ad Hostius e agli altri. Mi dispiace, amico, non sono riuscito a fermarla…" 
Sattias si strinse nelle spalle, sollevato: 
"Non fa niente, ha fatto la scelta più saggia. Avevo solo paura che si fosse persa nella foresta, sai, non è abituata come noi…"
Si interruppe, cercando le parole più adatte ad esprimere i suoi pensieri senza risultare offensivo: 
"Immagino che se vi ordinassi di andarvene non obbedireste, vero?" 
Gli occhi scurissimi di Manlios brillarono bellicosi, ma prima che potesse replicare la voce pacata e profonda di Etrilia li interruppe: 
"Perché dovremmo andare via, Sattias? Mamerte ha scelto te, è nostro dovere seguirti, per il nostro stesso bene…" 
"Mamerte ha anche inviato un segno infausto per farci capire che aveva cambiato idea!" 
Etrilia gli rivolse un sorriso enigmatico, apparendo ancora più inquietante del solito, dato che un paio di denti le erano caduti a causa delle piante sacre che masticava in continuazione. 
"Vieni, avvicinati." 
Sattias lanciò un'occhiata incuriosita all'amico, ma quando Manlios si limitò a stringersi nelle spalle si alzò e si avvicinò alla ragazza: gli bastò dare un'occhiata sopra la sua spalla per capire da dove provenisse l'odore nauseabondo che aveva invaso la piccola radura in cui si erano accampati. 
Davanti alla giovane sacerdotessa c'era il cadavere del picchio verde, con il ventre squarciato e le viscere ordinatamente disposte secondo uno schema noto solo ad Etrilia: Sattias sapeva che esistevano diverse pratiche con cui si poteva prevedere il futuro e che uno di essi consisteva proprio nel leggere gli intestini degli animali sacrificati. 
"Come mai le sarà venuta quest'idea?" si chiese, ma preferì non porre quella domanda ad alta voce. Le risposte di Etrilia, quando si riusciva a dar loro un senso, recavano sempre con loro un vago accenno di minaccia. 
"Cosa dicono?" domandò invece, mentre l'ansia gli chiudeva lo stomaco. Etrilia sfiorò le viscere con le lunghe dita, corrugando la fronte: 
"C'è una valle, oltre le montagne, che ci aspetta. E' benedetta, con molte prede e alberi rigogliosi… Per questo Mamerte l'ha scelta per il suo popolo!" 
"Sì, va bene, ma come ci arriviamo? E come facciamo a capire che il viaggio è terminato?" 
La ragazza scacciò le sue domande con un gesto seccato del capo: 
"Oh, Sattias, per essere così intelligente a volte dici cose proprio sciocche! Ci arriveremo perché dobbiamo arrivarci, è semplice!”
“E’ assurdo!” 
“E capiremo quando sarà il momento di fermarci, fidati di me…"
"Quindi il picchio non era un presagio infausto?" 
"Sì e no. Era un avvertimento, perché Mamerte non concede nulla senza avere qualcosa in cambio…" 
"Lo so bene!" pensò Sattias, digrignando i denti "La mia vita ti è stata già consacrata, non ti basta questo? Cos'altro vuoi da me, dio del tuono e della guerra?"
Etrilia, nel frattempo, aveva iniziato a tremare: 
"Tre prove!" pigolò, quasi spaventata "Tre prove dovrai affrontare, da solo, senza aiuti esterni. Se le supererai Mamerte ci garantirà un futuro sereno e una discendenza numerosa quante sono le stelle nel cielo!" 
"E se fallisco?" 
Ma di nuovo, le parole che gli affiorarono alle labbra furono altre: 
"Quali sono le prove?" 
"Devi bagnarti nel sangue di Diana, poi in quello di Ikiperu e infine in quello di Mamerte stesso. Le viscere non dicono altro, mi dispiace." 
Ma Sattias non la stava già più ascoltando: 
"Diana, dea della caccia, signora delle belve… Ikiperu, dea del matrimonio e del focolare domestico… E Mamerte, sempre lui, tre volte maledetto sia il suo nome! Come posso misurarmi con tre divinità? Sono solo un uomo e neanche uno dei migliori…" 
Tuttavia, per quanto disprezzasse Mamerte, sapere che il dio non aveva cambiato idea sulla sua scelta lo rincuorò e gli fece tornare il buonumore. Perciò afferrò con sicurezza lo stendardo, raccolse la corona di bronzo dal cespuglio in cui l'aveva lanciata la sera prima e sorrise ai suoi amici: 
"Sbrigatevi, la strada è lunga da qui alla cima delle montagne! E poi dovremo riscendere dall'altro lato!" 
Manlios pareva perplesso: 
"E gli altri? Dovremmo cercarli, avvertirli…" 
Etrilia gli poggiò una mano sul capo con affetto: 
"Abbi fede, amore mio. Li ritroveremo quando sarà il momento, non prima. Il fato degli uomini è in mano agli dei, lo sai!" 
"No" pensò Sattias con un guizzo d'orgoglio "Io sceglierò il mio destino, io e nessun altro. Gli dei hanno interferito fin troppo con la mia esistenza." 

Il daino procedeva a grandi balzi sul terreno sconnesso, voltando il capo di tanto in tanto per captare il pericolo; ma Hiccia sapeva bene come tenersi sottovento per nascondere il suo odore alle prede, perciò procedette con cautela, serrando la presa sul suo arco, mentre il daino riprendeva la sua corsa. 
Lo inseguiva già da diverse ore e si era allontanata parecchio dal punto in cui gli altri si erano accampati; tuttavia non si era mai tirata indietro davanti ad una sfida – era ciò che più le piaceva della caccia – e quel daino giovane, pieno di energia e voglia di correre, le risultava in qualche modo familiare. 
"Niente presagi, né terre sconosciute da scoprire!" pensò, scostandosi i ricci dalla fronte "Solo io e lui, il vento e la foresta, come dev'essere."
Hiccia adorava anche le emozioni semplici, come la gioia selvaggia che traeva dal centrare il bersaglio; diffidava, invece, da quel leggero senso di colpa che la perseguitava da quando aveva abbandonato Sattias, Manlios ed Etrilia. 
"E' solo perché sono abituata ad averli intorno!" si disse per giustificarsi "Non perché sento la loro mancanza. Non ho bisogno di nessuno, io!" 
Quando riportò la sua attenzione sul sentiero si maledisse: il daino era scomparso con un balzo dietro una roccia ed aveva già iniziato a discendere sull'altro versante. 
Hiccia esitò giusto un istante, soppesando le strade che le si aprivano davanti: poteva rinunciare ad una preda per la prima volta da quando aveva preso in mano un arco e tornare dagli altri; oppure poteva seguire il daino oltre il margine del bosco, dove l'altopiano brullo ed aperto non gli avrebbe offerto alcun riparo contro le sue frecce. 
"Chi potrebbe mai rifiutare un bersaglio così facile?" pensò con un sorriso astuto, pregustando già la morbida carde dell'animale sotto i denti.
Perciò scattò fuori dal cespuglio in cui era acquattata con un fruscio di foglie ed iniziò a correre lungo la china della collina, tenendo il torace piegato sulle ginocchia per evitare la corrente della brezza che spirava verso Nord. La freccia era già incoccata e la punta sfiorava ad ogni passo la decorazione in osso che Hiccia stessa aveva aggiunto all'impugnatura dell'arco. 
Quando arrivò sulla cima spazzata dal vento e guardò in giù, però, il suo cuore mancò un battito: il daino era immobile e spaventato quanto lei, paralizzato sul sentiero a una decina di passi di distanza. 
Entrambe le creature avevano lo sguardo fisso sui resti fumanti del villaggio in rovina e sui cadaveri insanguinati riversi nell'erba; la ragazza era convinta che molti di più erano accasciati tra le capanne che ancora bruciavano. 
Cautamente strisciò verso il corpo più vicino, un uomo dalla barba grigia a cui avevano trapassato la schiena: Hiccia osservò la ferita, turbata, chiedendosi quanto dovesse essere affilata la spada del nemico per produrre un taglio così netto e pulito attraverso la carne e le ossa. 
"Il popolo delle capre!" si disse, osservando i vestiti di lana grezza che indossava e le decorazioni d'osso tra i capelli. 
I Sabini non vedevano di buon'occhio il popolo delle capre, gente che viaggiava verso le montagne d'estate e verso le valli d'inverno; non cacciavano e rifuggivano la guerra, accontentandosi di quello che ricavavano dai loro greggi. Le capre che guidavano erano più preziose dell'oro per quello strano popolo e anche il loro dio aveva una barba sottile e corna ricurve. 
"Non mi stupirei se le montassero anche, quelle stupide bestie!" aveva detto una volta Aia con malcelato disprezzo. 
Tuttavia, nonostante il popolo delle capre fosse bizzarro e disprezzato per la sua codardia, nessuno meritava di morire in quel modo, pensò. 
Alzò lo sguardo verso le capanne di frasche, momentaneo rifugio dei pastori, alla ricerca delle capre: il daino era fuggito da un pezzo e lei non voleva tornare al campo a mani vuote. 
"Non se ne vede neanche una… Dove sono andate?" si domandò, sempre più nervosa. Non si era accorta dell'innaturale silenzio sceso sulla scena e rotto solo dal crepitio degli ultimi fuochi. 
"Mah… Le avrà prese la tribù che li ha uccisi… Non c'è più nulla qui, per me."
Quando si rialzò, riponendo la freccia nella faretra che portava legata in vita, capì di aver commesso un errore: grida rauche che parlavano una lingua sconosciuta si alzarono dal villaggio. 
Si girò e si trovò davanti una scena spaventosa: all'inizio le parvero mostri con diverse decine di arti, ma man mano che si avvicinavano Hiccia comprese che si trattava di uomini sulla schiena di cavalli imponenti, molto più grandi e veloci di quelli che aveva visto una volta che era scesa a valle durante una battuta di caccia. Le bestie procedevano al galoppo, apparentemente senza sforzo nonostante le armature scintillanti che coprivano i guerrieri dal capo alle ginocchia: la giovane, abituata alle corazze di cuoio duro dei suoi compagni, per un istante ne fu abbagliata. 
Poi, con qualche istante di ritardo, afferrò una freccia e la scagliò con precisione contro il più vicino dei guerrieri: se fosse stata una normale freccia con la punta d'osso si sarebbe spezzata, ma Hiccia andava molto fiera delle punte in bronzo che affilava con cura e devozione e che potevano penetrare anche il legno senza scalfirsi mai. 
Perciò fu con orrore e sorpresa che osservò la freccia scivolare sull'armatura dell'uomo e cadere a terra, per poi essere frantumata dagli zoccoli del cavallo: quando il guerriero balzò a terra per avventarsi su di lei, vide che la corazza non aveva riportato alcun danno. 
Lo scontro la buttò a terra e le tolse il fiato: l'armatura era fredda e dura sotto il suo tocco. 
"Questi sono dei… Non possono essere uomini!" pensò terrorizzata "Perché nessun uomo può aver creato questa… Questa…" 
Ma quando incrociò lo sguardo scuro ed assassino del suo avversario, Hiccia capì di avere di fronte un suo simile e chiamato a raccolta tutto il suo coraggio sfilò dallo stivale il suo piccolo coltello di bronzo e lo conficcò nell'unico lembo di pelle lasciato scoperto dall'armatura, un sottile spazio tra il mento e la clavicola: la lama scivolò con facilità attraverso la carne e il sangue schizzò fuori all'istante, bagnandole la faccia. 
L'uomo cadde all'indietro con gli occhi sgranati, tentando di fermare la vita che zampillava fuori dalla sua gola, ma quando il suo capo toccò terra era già morto; Hiccia, ansante, senza quasi riflettere si lanciò a recuperare l'arco che era caduto poco distante e scoccò una, due, tre frecce contro i nemici che ora l'avevano raggiunta e stavano disegnando uno stretto cerchio attorno a lei. 
Non lanciavano più grida di guerra e il silenzio minaccioso sceso dopo la morte del loro compagno l'atterriva; una delle frecce trovò un punto debole nella feritoia di un elmo e l'uomo urlò per il dolore, tentando di estrarre la freccia dall'occhio in cui si era conficcata. 
Un altro la caricò ed Hiccia evitò per un soffio di essere calpestata dal cavallo schiumante: i rumori le giungevano attutiti sopra il battito del suo stesso cuore, ma non appena si accorse della lama che stava calando sulla sua testa alzò l'arco sopra di lei in un ultimo, patetico tentativo di difesa. 
La spada spaccò l'impugnatura in osso, tagliò a metà il legno e sarebbe sprofondata nel petto della ragazza se il braccio che la brandiva non fosse stato colpito da una freccia scoccata da lontano. 
Il guerriero perse l'equilibrio e cadde: prima che potesse rimettersi in piedi una seconda freccia centrò il collo della sua cavalcatura e questa, resa pazza dal terrore e dalla ferita, finì per calpestarlo. Hiccia strisciò via, lontano dai suoi zoccoli insanguinati, stringendo con una mano i resti del suo arco e con l'altra il pugnale, guardandosi attorno alla ricerca del suo salvatore. 
Anche gli altri guerrieri tentavano di scovarlo, deviando le frecce con le loro prodigiose armature o con degli scudi rotondi fatti dello stesso metallo sconosciuto. 
"Gli occhi!" urlò Hiccia, alzandosi faticosamente in piedi "Gli occhi e la gola, mira a quelli!" 
Sperò con tutto il cuore che l'arciere nascosto comprendesse la sua lingua ed iniziò a correre verso la china da cui era discesa, ben sapendo che i nemici avrebbero potuto raggiungerla con facilità se non fosse stato per le frecce che continuavano a piovere loro addosso. 
Quando raggiunse la cima della collina si voltò a guardare la scena che si era lasciata alle spalle: quattro dei guerrieri erano a terra, morti, mentre il resto correva veloce verso il villaggio, messo in fuga dalle frecce. 
Crollò a terra, cercando di calmare il tremito che si era impossessato delle sue membra ed accarezzando tra i singhiozzi l'arco spezzato, il suo avere più prezioso, il suo amico più fedele: il danno era irreparabile, lo sapeva. 
"Cosa ci fai ancora qui?" strillò una voce conosciuta alle sue spalle. "Dobbiamo muoverci! O vuoi forse aspettare che tornino con i rinforzi?" 
Hiccia si voltò: Pileius era emerso dalle rocce alla sua sinistra e stringeva ancora in mano l'arco. I lunghi capelli neri erano scivolati fuori dal cordino con cui solitamente li teneva legati e si erano attaccati alla sua fronte sudata: il ragazzo doveva scostarli con la mano per poterla guardare negli occhi. 
"Avrei dovuto immaginarlo!" pensò la ragazza, asciugandosi furtivamente le lacrime. 
"Dopo di me, è il più abile con l'arco!" 
"Da dove sei arrivato?" ringhiò con alterigia, riprendendo a correre verso il folto del bosco. "Mi spiavi?"
Le guance di Pileius divennero rosse come il cielo al tramonto e gli occhi dal colore indefinito ruppero il contatto con i suoi: 
"Certo che no!" protestò con voce incerta "Ho sentito le grida!" 
Ad Hiccia quella debole scusa sembrava proprio una menzogna, ma evitò di rispondere, concentrandosi solo sulla necessità impellente di dover mettere quanta più strada possibile tra loro e i misteriosi nemici. 


Angolo Autrice: 
Ciao! 
Questo è un capitolo chiave per la storia, per vari motivi: uno è sicuramente la nuova profezia di Etrilia, il cui effetto collaterale è esacerbare la rabbia di Sattias nei confronti degli dei; il secondo è la presa di posizione di Sattias stesso, che decide finalmente di essere un re e non un ragazzino spaventato da Mamerte; il terzo motivo, ovviamente, sono i nemici con cui Hiccia e Pileius si scontrano, feroci, spietati e dotati di armi sconosciute. 
Ho anche una piccola precisazione da fare sui nomi delle divinità: le religioni italiche pre-Romane sono tante, per lo più oscure e parzialmente sovrapponibili. Ergo, ho dovuto lavorare di fantasia laddove le fonti mancavano: Diana è una dea latina; Ikiperu è il nome piceno di una dea di origine (forse) orientale, meglio conosciuta nelle Marche come Cupra e poi assimilata dai Romani come Bona Dea; Mamerte, forse l'avrete capito dall'assonanza, è l'antesignano di Marte. Tuttavia questo dio nei pantheon italici occupava una posizione molto importante, più simile a quella di Zeus che a quella di Ares (non a caso, oltre che dio della guerra, è anche dio del tuono e della tempesta). Più in là sentirete i ragazzi invocare il nome di Pico, ovvero il picchio, perché secondo il mito prima di essere un uccello consacrato a Mamerte Pico era un semidio. 
Mi sembra di aver detto tutto! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a presto!

  Crilu 
   
 
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