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Autore: Adeia Di Elferas    15/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare si lasciò cadere sul divanetto imbottito che aveva messo lui stesso davanti al camino. Era stata una giornata insopportabile e pensare che nei giorni a venire sarebbe stato intrappolato in altre questioni ufficiali lo stava facendo uscire di testa.

Si passò lentamente una mano sulla guancia. In quel momento le cicatrice dovute al mal francese non erano troppo evidenti, anche se spesso e volentieri il solo pensiero di averle in volto lo faceva quasi impazzire.

La barba cresceva più rada, dove la pelle era rovinata e quindi, nei momenti peggiori, non poteva nemmeno fare affidamento su quella per mascherare il disastro.

“Che altro c'è?!” chiese, senza nemmeno voltarsi, quando sentì qualcuno entrare nella stanza.

Il suo servo personale gli chiese con tono mesto se per caso volesse del vino, o qualcosa da mangiare.

“No, no...” ribatté il Borja, senza premurarsi di usare il francese per rispondere: “Mangerò a tavola come tutti gli altri. Con la giornata che mi hanno fatto passare, lasciarmi mangiare come un cristiano è un loro dovere. Anche se preferirei mille volte la cucina di Roma a quella di questi barbari...”

Il servo non capì granché di quello che gli era stato detto, anche se colse il messaggio principale, ovvero che il suo signore avrebbe cenato assieme a tutti gli altri.

Rimasto di nuovo solo, il figlio del papa si abbandonò completamente sul divanetto, inspirando un po' a fatica l'aria che gli pareva viziata e polverosa. Avrebbe tanto voluto aprire una delle enormi finestre che davano sul parco, ma fuori stava nevicando e si congelava: sarebbe stata una pessima idea.

Si cavò gli stivali con un paio di colpi secchi e poi, le gambe accavallante, si mise a ripensare a quello che era successo quel giorno. Dall'alba al tramonto, gli uomini di Luigi XII non avevano fatto altro che continuare a chiedergli se Alessandro VI avesse realmente accettato la richiesta del re e se i documenti per l'annullamento del matrimonio con Giovanna di Valois fossero veramente in viaggio.

Cesare, a furia di rispondere di sì a tutti e di profondersi in rassicurazioni, aveva finito per arrivare a sera stremato, intrattabile e con una peculiare idiosincrasia per il francese.

Sapeva bene che i timori del re erano fondati, visto il pasticcio che era stato fatto alle seconde nozze di Anna di Bretagna, risposatasi prima di aver ottenuto l'annullamento e perciò dichiarata bigama... Ma quella volta era stato Innocenzo VIII a combinare il guaio. Il papa, adesso, era un Borja, e i Borja certi errori non li facevano.

Pensare ai matrimoni gli stava dando un vago senso di nausea. Non tanto per il suo. Aveva accettato con un certo fatalismo l'idea di prendere moglie – per altro senza essere lui a sceglierla – e quindi quello lo impensieriva poco. Era il matrimonio di sua sorella Lucrecia a dargli sui nervi.

Le lettere che arrivavano da Roma la dipingevano come la sposa più felice e raggiante della terra, e Cesare, in fondo, sarebbe anche stato contento di saperla così entusiasta, o, almeno, avrebbe dovuto esserlo.

E, invece, pensarla tra le braccia di Alfonso d'Aragona, nel suo letto, mentre i loro respiri di fondevano, come i loro corpi, lo faceva quasi uscire di senno.

Infastidito dalle immagini che si era quasi imposto da solo, si alzò di scatto dal divano, cominciando a camminare, scalzo e nervoso, davanti al camino.

Sua sorella ancora non aveva concepito figli. Lui sperava che non ne concepisse mai più. Sarebbe stata una scusa più che valida per annullare il suo matrimonio con l'Aragona e, se fosse davvero divenuta sterile, avrebbero potuto sfruttare l'assenza di prole per cancellarne un altro e un altro ancora...

“Mio signore.” il suo valletto era entrato nel salotto con piede tanto felpato che il Borja quasi gridò di spavento, nel trovarselo davanti.

Era teso come la corda di un arco e quell'apparizione inattesa lo aveva portato a far scattare la mano verso il pugnale che portava al fianco: “Che accidenti vuoi?!” sbottò, cercando di calmarsi, per non risultare ridicolo.

“Mi è stato chiesto di sollecitarvi a raggiungere gli altri, mio signore.” spiegò il giovane, chinando il capo, sperando di non doversi subire l'ennesima sfuriata per colpe non sue.

Il figlio del papa fece un paio di respiri profondi. La tentazione di disertare la cena e ritirarsi subito in camera era forte. Però aveva promesso a suo padre che non lo avrebbe deluso e quindi doveva fare del suo meglio per apparire più mansueto e conciliante di quanto non fosse in realtà.

“Va bene, va bene, adesso arrivo.” soffiò, passandosi una mano tra i capelli castani, lasciati un po' più lunghi del solito, nella speranza che pure loro, ricadendo di quando in quando sul viso, aiutassero a mascherare i segni del mal francese: “Aiutami a rimettermi gli stivali.”

Il valletto, che nei confronti del suo padrone nutriva una non immotivata paura, piuttosto che un ossequioso rispetto, si affrettò a chinarglisi accanto, mentre Cesare si sedeva di nuovo sul divano.

Il ragazzo gli infilò il primo stivale e poi, mentre iniziava a calzargli il secondo, avvertì con un brivido la mano dalle lunghe dita del Borja sfiorargli la fronte e poi, mentre sollevava lo sguardo, il contorno del viso.

I tratti aggraziati e gentili di quel giovane avevano sempre un certo effetto, sul suo signore, e anche quella volta parevano averlo catturato.

“Questa sera fatti trovare nella mia stanza, dopo il banchetto.” gli disse, una volta che ebbe di nuovo ai piedi gli stivali e si fu alzato.

Il valletto deglutì, forse troppo rumorosamente, perché finì per attirare l'attenzione di Cesare.

Questi, posando su di lui gli occhi felini, fece una breve risata gutturale e concluse: “Non preoccuparti. Sarò gentile con te. E porterò anche una ragazza. Non ho intenzione di sfinire il mio servo, visto che bada ai miei abiti. Sappiamo bene che questi francesi pensano solo all'apparenza.”

Il giovane chinò di nuovo la testa, senza trovare altre parole da dire e così il Borja abbozzò un cenno di saluto e, sistemandosi un po' meglio il giubbetto, uscì dal salotto, diretto a quella si preannunciava una lunghissima e noiosissima cena.

 

Il dottore tornò a sedersi davanti a lei, mentre la Tigre si lasciava ricadere addosso la vestaglia: “Mi pare che respiriate bene. Al momento non mi sembra che ci dobbiamo impensierire per le complicanze del vostro male. Probabile che la tosse di questa mattina sia dovuta al freddo. Siamo in gennaio, dopotutto, e la neve non smette un attimo di cadere. Di questo passo, finiranno a tossire perfino i muri di questa rocca. Davvero, state tranquilla. Il vostro male, in questo caso, non c'entra proprio nulla.”

Il suo male, come lo chiamava lui, altro non era che la malaria che a intervalli irregolari tornava a visitarla.

Siccome quel giorno si sentiva molto acciaccata e stanca, e al risveglio aveva anche fatto qualche colpo di tosse, aveva subito chiesto il parere del suo medico, in modo da evitare di essere di nuovo colta impreparata da un eccesso di febbri improvviso.

Non poteva permettersi, in quel momento, di lasciare la macchina della Stato senza una guida. Se fossero state davvero avvisaglie di qualche malattia seria, voleva avere il tempo e il modo di delegare con cognizione di causa a chi le pareva, senza affidarsi al caso.

Sentirsi dire che la malaria non c'entrava con il suo stato le tolse un macigno del cuore, permettendole, almeno per un po', di rilassarsi di nuovo.

“E per quell'altra questione..?” chiese poi la donna, seria, fingendosi intenta a sistemare meglio le pieghe della veste.

Il dottore si mosse sulla sedia un po' in imbarazzo. Avendo come paziente la Tigre, ormai si era un po' abituato a discorrere con lei di certe cose, ma, ancora a distanza di anni, un po' lo infastidivano quei discorsi, più degni di una levatrice che non di un medico.

“Ebbene, sapete quanto me che l'unico metodo infallibile per non concepire figli indesiderati sarebbe non giacere con un uomo.” iniziò lui, schiarendosi la voce.

“E voi sapete che io non so controllarmi. Non voglio stare male solo per... Insomma, non sono più capace di stare da sola troppo a lungo. Ci ho anche provato, a un certo punto, ma... È un bisogno che...” Caterina, in difficoltà, smise di guardarsi le pieghe della vestaglia e si alzò, dirigendosi al camino e fissando le fiamme: “Quando stavo con Giacomo, gli altri uomini non li vedevo nemmeno, perché mi sentivo completa con lui. Quando poi ero con Giovanni, gli altri uomini li vedevo, eccome, ma mi bastava lui, perché sapeva sempre come soddisfarmi, senza lasciarmi lo spazio per desiderare davvero un altro uomo. Ma poi sono rimasta sola. Non posso smettere di cercare la compagnia degli uomini, o so che finirei per placare questo vuoto in un altro modo e io non voglio più trovare sollievo ammazzando prigionieri già mezzi morti in una cella umida. Non voglio più essere quella donna.”

Quelle parole ebbero il potere di zittire il medico per un bel po'. La osservava in modo strano, quasi si stesse chiedendo chi fosse davvero la donna che aveva davanti. Quella confessione, sincera, perché l'uomo non aveva dubbi che fosse tale, lo aveva messo davanti a più di un dubbio e a più di una questione morale che, si rese conto con un velo di vergogna, non avrebbe mai voluto affrontare.

Tuttavia, dopo un po', sollevò le sopracciglia, apparentemente giunto a un compromesso accettabile con se stesso, e suggerì: “Forse, allora, mia signora, basterebbe che aveste una relazione stabile con un solo uomo. Qualcuno che vi piaccia e di cui vi fidiate, qualcuno, insomma, con cui poter avere chiari patti e...”

“Lasciate stare, è un consiglio inutile.” lo fece tacere subito Caterina: “È vero che c'è qualcuno che mi piace più di altri, ma...”

Il suo pensiero era corso a Manfredi, e, subito dopo, a Giovanni da Casale. Però, entrambe le volte, si era subito resa conto che nessuno dei due le sarebbe bastato davvero.

“Non pretendo di conoscere i segreti della vostra anima.” fece allora il medico, capendo che la sua paziente non avrebbe accettato altri consigli, ma solo rassicurazioni: “Nessuno potrebbe avanzare una pretesa simile nei confronti di nessuno.”

La Sforza si grattò la tempia e poi, mettendo una mano nell'altra, sospirò. Ciò che più la spaventava era l'incertezza. Aveva rischiato troppo, e troppe volte, negli ultimi tempi. Anche a Natale, quando si era portata in camera un ragazzo di nemmeno diciassette anni...

E, poi, ormai, sentiva che quella questione non era più solo un problema suo. Sua figlia stava prendendo sempre più coraggio ed era certa che prima o poi – se non altro per quando sarebbe stata sposata a Ottaviano Manfredi, che aveva espressamente precisato di non voler crescere per alcun motivo figli di altri – avrebbe avuto bisogno di qualcosa che l'aiutasse a non correre troppi rischi.

“Avete presente la pozione di cui vi ho parlato l'ultima volta?” chiese la donna, la bocca che si seccava un po'.

Il dottore annuì, senza sbilanciarsi né a parole, né con l'espressione del volto.

“Secondo voi funziona?” gli domandò, fissandolo con insistenza, per capire quanto la risposta fosse ragionata e quanto detta solo per tranquillizzarla.

“La state prendendo, in questo periodo?” ribatté lui, facendosi un po' più concentrato.

La Tigre annuì: “Lo sapete che la sto prendendo da un po'. Da quando ho temuto di...”

Il dottore la frenò, non ritenendo necessario rivangare quella vecchia visita e così proseguì nelle sue domande: “E da quando la state prendendo siete mai rimasta incinta?”

“Per ora direi di no.” disse piano la Contessa.

“Pur avendone corso il rischio più di una volta?” insistette l'uomo.

A quella domanda, i ricordi di Caterina si persero nelle notti confuse di quel periodo, finendo per focalizzarsi su Natale e poi su Capodanno, quando lei e Manfredi si erano riconciliati in modo burrascoso, e fece segno di sì.

“E allora è probabile che la vostra pozione funzioni.” concluse il dottore, battendo le mani e alzandosi, suggerendo così di chiudere subito la questione.

“Sì, ma è che... Insomma, vorrei esserne sicura.” riprese la Sforza, e, quando notò un piccolo moto di insofferenza nel medico, soggiunse: “Nel caso servisse a mia figlia.”

A quel punto l'uomo tornò a sedersi, lentamente e, dopo averci pensato su, soppesò: “Posso dirvi questo, mia signora: per quello che sono le mie conoscenze alchemiche e in merito alle erbe curative, il vostro estratto potrebbe davvero essere ottimo per non concepire figli indesiderati e, da quello che mi riferite, non dà nemmeno effetti indesiderati particolari.”

“Nessuno, per il momento, direi.” confermò Caterina.

“Tuttavia, anche per vostra figlia, non posso che dare il consiglio di prestare attenzione e cercare di ragionare, prima di agire, perché quella pozione, per efficace che sia, non è detto che sia infallibile, lo capite anche da sola.” terminò il dottore, questa volta alzandosi con fare deciso e recuperando i suoi pochi strumenti, avviandosi alla porta.

Appena prima che il medico lasciasse la stanza, però, la Leonessa si sentì in dovere di specificare in modo chiaro: “Tutto quello che ci siamo detti oggi è confidenziale.”

“Ovviamente, mia signora.” annuì l'uomo, abbozzando un sorriso: “In tanti anni non avete mai dovuto dubitare della mia discrezione, quindi non dovete farlo nemmeno adesso.”

 

Il padiglione dei comandanti era già abbastanza gremito di uomini, mentre Paolo Vitelli ancora si faceva aspettare. Era previsto, per il giorno seguente o quello dopo al massimo, un nuovo attacco a Montalone, atto a scacciare una volta per tutte Bartolomeo d'Alviano e i suoi, ma i dettagli dell'operazione non erano ancora stati decisi.

Giovanni da Casale era in un angolo defilato, vicino all'uscita del tendone, e teneva le braccia incrociate e lo sguardo basso.

Ludovico il Moro era stato molto chiaro con lui, eppure, anche se era arrivato al campo da pochissimo, Pirovano già era tentato di andarsene. In fondo, da lì, avrebbe potuto raggiungere Forlì anche da solo, senza bisogno di guide. Però, quando il Duca l'avesse saputo...

Stanco di aspettare Vitelli, Giovanni decise di prendere una boccata d'aria. Anche se fuori faceva un gran freddo e stava di nuovo per nevicare, nel padiglione non si respirava più, tanto per il caldo, tanto per il sentore pesante di tutti gli uomini che vi erano radunati.

Camminando sul terreno coperto da neve ghiacciata, Pirovano aggirò il tendone e alla fine, in un punto abbastanza riparato, intravide Paolo Vitelli parlare concitatamente con Gaspare Sanseverino.

Vicino a loro non c'era nessuno e così anche lui, per non attirare l'attenzione, si nascose dietro una delle tende più vicine ai due, cercando di sentire che cosa si stessero dicendo.

“Da che sono qui a Pieve Santo Stefano con voi – stava recriminando il Sanseverino – non abbiamo combinato nulla! Siete immobile come una statua!”

“Abbiamo ricacciato indietro i veneziani, e presto li costringeremo alla resa a Montalone. Lo chiamate nulla?” ribatté Paolo, il viso impassibile, anche se le mani cominciavano a muoversi un po' nervosamente, stringendosi di quando in quando a pugno lungo i fianchi.

“Io so solo che non state agendo con la rapidità che Firenze vi chiede e che, così facendo, non farete che far aumentare i sospetti su di voi.” fece il Fracassa, scuotendo con forza il capo.

“Di che sospetti parlate?” chiese Vitelli, abbassando tanto la voce che Giovanni fece quasi fatica a origliare.

“Del fatto che voi in realtà siate d'accordo con Piero Medici, che lo stiate favorendo, lasciandogli il tempo di organizzarsi... Che al momento giusto passerete al soldo di Venezia e marcerete contro Firenze.” disse Gaspare, fissando il suo comandante con tanta arroganza da riuscire finalmente a farlo esplodere.

“Voi, piuttosto!” gridò Paolo, puntandogli contro l'indice: “Con tutti i soldati che erano al vostro seguito e che sono scappati come dei vili! Cosa dovrei credere io, eh? Che il Duca di Milano sta solo fingendo di aiutarci? Che non paga i vostri uomini al solo scopo di mettere in difficoltà l'esercito di Firenze?”

“I vostri sono commenti faziosi e ingiusti.” fu la reazione di Sanseverino, che pareva essersi pentito dal suo attacco di poco prima.

“Per non parlare di Dionigi Naldi... Credete che non abbia capito che ha lasciato il campo per ordine della Tigre? Credete che sia così stupido da credere che quella donna non sta facendo il gioco di suo zio e non quello di Firenze? E tacciamo di quel Giovanni da Casale che il Duca di Milano ci ha così generosamente rimandato...” proseguì Vitelli, furente, senza accennare minimamente a calmarsi: “Credete che non lo sappia che è solo una spia del Moro e di quella meretrice di sua nipote? Mi fate così stupido? Davvero, Sanseverino?!”

Nel sentirsi chiamare in causa, Pirovano si fece più attento, ma proprio mentre Fracassa stava per dire qualcosa, uno degli attendenti del comandante andò a chiamarlo: “Mio signore, vi stanno aspettando...” e così la discussione finì immediatamente.

Con qualche goccia di sudore gelato che gli scendeva lungo la schiena, Giovanni da Casale tornò con discrezione nel padiglione, ma poi, per tutto il tempo, mentre Vitelli esponeva il suo piano d'attacco, non poté smettere di pensare a quanto ascoltato e la voglia di andarsene dal campo si fece ancora più forte di quanto non fosse prima.

 

Il cortile della rocca di Ravaldino era pieno di soldati. Siccome il tempo si era un po' rimesso, il maestro d'armi aveva deciso di approfittarne per fare un addestramento di gruppo, provando soprattutto le tecniche di assalto combinato e quelle da adottare nelle mischie.

Caterina aveva preso parte solo alla prima fase dell'allenamento, quando, per sgranchirsi un po', tutti quanti avevano fatto un po' di esercizio con la spada, ma poi si era defilata.

Si era messa vicino al muro, appoggiata alla sbarra per i cavalli, e si era messa a osservare. Tra gli uomini c'era anche suo figlio Galeazzo – mentre Bernardino, dopo un primo momento di entusiasmo, era sgusciato via per andare chissà dove – ma la sua attenzione era catturata da tutt'altro.

Aveva cominciato osservando le varie tecniche di lotta dei soldati, ma poi, perdendosi nei suoi pensieri, aveva finito per concentrarsi molto più sui soldati in sé che non su quello che facevano.

Ne aveva anche riconosciuti un paio come suoi amanti occasionali, e da lì, quasi senza accorgersene, era passata a valutarli un po' tutti, appuntandosi mentalmente quali paressero più resistenti e quali avessero caratteristiche fisiche rispondenti a quel che cercava con intransigenza in un uomo, anche se solo per una notte.

“A che stai pensando, Tigre?” Ottaviano Manfredi, con passo un po' ciondolante, era arrivato dalle arcate e aveva subito raggiunto la Sforza.

Indossava abiti abbastanza eleganti, quindi era improbabile che si mescolasse ai soldati per allenarsi un po'. Infatti, nel momento stesso in cui le si mise accanto, appoggiando come lei le braccia al palo dei cavalli, sfiorandole la spalla con la sua, Caterina capì che era lì solo per parlare.

“Non pensavo a nulla di importante.” fece lei, riscuotendosi un po' e guardandolo: “Che c'è?”

Manfredi sporse un po' in fuori le labbra e poi si lasciò andare a una mezza risata: “Lo so a che stavi pensando. Quando fai quell'espressione ti si legge in faccia che stai cercando una nuova preda... Come se non ti bastassi io.”

La Contessa fu sul punto di mandarlo all'inferno e ordinargli di andarsene e lasciarla in pace, ma l'uomo non aveva finito.

“Guarda là... Tale madre...” stava indicando con lo sguardo il loggiato.

A una delle finestre era affacciata Bianca che, con un interesse abbastanza manifesto, stava guardando i soldati, affiancata da una serva. Da come si scambiavano qualche parola di quando in quando coprendosi la bocca, anche la Leonessa capì bene cosa intendesse Ottaviano.

“Non permetterti mai più di parlare in questo modo di mia figlia.” sussurrò lei, rimettendosi a fissare i soldati.

Non voleva che Bianca si accorgesse di essere stata notata e, per questo, scappasse. Voleva essere il più possibile tollerante con lei e, di rimando, desiderava che lei la percepisse tale.

Anche se, doveva ammetterlo, ripensarla stretta a quel ragazzo con cui l'aveva vista a Natale, le metteva ansia. Non tanto per come quel giovane la stava toccando, né per il modo in cui la stessa Bianca stava rispondendo. Caterina si fidava di lei e sapeva che se si era avvicinata così a un uomo, l'aveva fatto perché si sentiva pronta a farlo e basta.

Però, se avesse cominciato ad avere incontri di un certo tipo, pur sorvolando sui pettegolezzi che avrebbero potuto sorgere, il rischio che si mettesse in qualche guaio cresceva. Se mai fosse rimasta incinta per errore...

“Hai saputo di Dionigi Naldi?” chiese Manfredi, cambiando improvvisamente tono e avvicinandolesi un po' di più, in modo che potesse sentirlo, malgrado il tono basso.

Nella confusione dei soldati che continuavano a lottare, corretti a tratti dal maestro d'armi e dal Capitano Mongardini, la Sforza si voltò di scatto verso il suo amante e chiese: “Cos'è successo?”

“Ha lasciato il Casentino. A quanto pare il ritardo nella paga stava rendendo gli uomini che Firenze gli aveva affidato troppo irrequieti. Ha portato con sé solo i tuoi soldati e si sta muovendo verso Arezzo.” spiegò il faentino, la fronte corrugata per la preoccupazione: “Se posso dire la mia, non credo che riuscirà a entrare in città con il pugno di fanti che si ritrova.”

La Tigre si passò una mano sulla fronte. Non si era ancora rimessa del tutto dalla febbricola dei giorni precedenti e quella notizia la stava facendo sudare freddo.

“Non lo sapevi, vero?” fece Ottaviano, gli occhietti azzurri che cercavano invano quelli verdi della Sforza, che, nel cercare di ragionare, si erano piantati a terra.

“No, non lo sapevo.” rispose: “Ma tu come fai a saperlo? Perché tu lo sapevi e io no?”

“Ho sentito Rossetti che ne parlava con Francesco Numai.” spiegò Manfredi, schiarendosi appena la voce, mentre una serie di urla si sollevavano dai soldati, in risposta a un ottimo colpo di Galeazzo, che aveva mandato gambe all'aria un uomo che aveva il doppio dei suoi anni e il triplo dei suoi chili.

“Perché nessuno me l'ha detto?” fece Caterina, più a se stessa che non all'uomo che aveva accanto.

“Dovresti chiederlo direttamente ai tuoi quadri di comando, Tigre. Non a me.” ribatté Ottaviano, vedendola giustamente preoccupata: “Ma da quello che ho capito... Ecco, da Natale ti hanno vista tutti molto distante. Passare intere giornate nei boschi da sola va bene, ma non in tempo di guerra.”

La Sforza si maledisse per quella sua leggerezza. Sapeva bene quando Manfredi avesse ragione e la infastidiva il fatto che ci fosse voluto il suo mezzo rimprovero per farle capire che stava sbagliando.

Stava per dirgli qualcosa, quando vide arrivare con passo svelto Cesare Feo, con in mano una lettera.

“Diretta a voi, mia signora, da mio nipote Tommaso.” disse lui, porgendogliela.

La Contessa lo guardò per un lungo momento, indecisa se approfondire immediatamente il discorso riguardante la mancata comunicazione dei movimenti di Naldi, ma poi preferì leggere il messaggio, visto chi era il mittente.

Lesse in fretta, sorpresa di vedere Tommaso Feo rivolgersi direttamente a lui, dopo così tanto tempo e dopo tutto quello che era intercorso tra loro.

Era una lettera abbastanza breve, ma precisa. La metteva in guardia su Simone Ridolfi, dicendole che si stava dimostrando troppo morbido. Non metteva in pratica la pena prevista per i disertori e, per sfuggire forse al freddo, o chissà per che altro motivo, passava sempre più tempo a palazzo, uscendo sempre più di rado. In realtà Tommaso suggeriva con un velo di malignità che il fiorentino stesse al riparo per paura di attentati alla sua vita.

Concludeva avvisando Caterina della sua prossima partenza alla volta del Bosco, al fine di curare per un po' i propri affari, dato che, di fatto, non ricopriva più alcun ruolo ufficiale nel suo governo, e le suggeriva di riguardarsi e di pensare a quanto lui aveva scritto.

La donna ripiegò il foglio e sospirò. Se suo cognato si era deciso a scriverle, il motivo doveva essere più serio di quanto non apparisse nelle sue parole.

Per un istante si sentì del tutto soverchiata dalla situazione che la circondava. Non bastava il silenzio sospetto riguardo Naldi, ci mancava solo un Governatore che non faceva il suo mestiere.

“Tutto bene, Tigre?” chiese Manfredi, vedendo il viso della sua amante accendersi di un rosso abbastanza intenso, che prometteva una pronta esplosione di rabbia.

“Devo... Devo fare una cosa.” disse Caterina, controllando a stento la voce.

Mentre lasciava il cortile d'addestramento, nell'indifferenza di tutti i soldati, eccezion fatta che per Galeazzo, che era sempre attentissimo alla presenza o all'assenza della madre, la Sforza accelerò sempre di più il passo. Era furiosa. Non solo con chi la circondava, ma anche con se stessa.

Era quasi arrivata nella sua stanza, la lettera di Tommaso stretta nella mano, ormai del tutto accartocciata, quando si accorse di alcune voci che uscivano dalla stanza di Giovannino.

Riconoscendo quella di Bernardino, la donna virò bruscamente, entrando in camera all'improvviso, giusto in tempo per sentire Cesare ribattere al fratellastro: “Tuo padre era solo un pezzente!”

Con in sottofondo Giovannino che piangeva, insofferente alla tensione che lo circondava, la Tigre lasciò cadere in terra la lettera di Tommaso e si avventò sul figlio più grande, che, colto di sorpresa, benché fosse più alto di lei, si lasciò sopraffare in fretta.

“Ti ho detto più di una volta che non devi per nessun motivo permetterti di dire certe cose, tanto meno a tuo fratello!” gridò la Contessa, dando sfogo non solo alla rabbia che provava verso Cesare, ma anche alla paura che le stava mettendo il sentirsi così sola in mezzo a uomini che sembravano intenzionati a non seguire appieno i suoi ordini.

Il ragazzo avrebbe ribattuto volentieri con qualche parola al veleno, ma sua madre gli stava stringendo una mano al collo con tanta forza da impedirgli quasi di respirare, figurarsi di parlare.

Giovannino continuava a piangere da solo, nella sua culla, mentre Bernardino, che da un lato era sollevato di essere stato soccorso dalla Leonessa, dall'altro la fissava intimorito, come se vederla agire in modo tanto ferale con uno dei suoi figli la mettesse in una luce diversa.

Rendendosi finalmente conto del colorito innaturale che stava prendendo il volto scarno di Cesare, Caterina lasciò la presa di colpo. Mentre il figlio ritornava a respirare con grandi colpi di tosse, la donna fece un cenno a Bernardino, per dirgli di allontanarsi.

Il bambino uscì subito dalla stanza, di corsa, e così, rimasta sola con il suo secondogenito e il suo ultimo figlio – troppo piccolo per capire di preciso che stesse succedendo – la Sforza fece un paio di respiri pesante e poi dichiarò: “Scriverò oggi stesso a tuo zio. Non mi importa se da Roma non è ancora arrivata una bolla papale. Io qui non ti voglio più. Se ti vedessi in questa rocca ancora a lungo finirei per ammazzarti e non voglio farlo. Sono riuscita a non ucciderti quando hai fatto ammazzare mio marito, devo riuscirci anche adesso. Partirai per Milano appena avrò composto il tuo accompagnamento.”

Cesare, una mano ancora alla gola e gli occhi pieni di lacrime per la sensazione di soffocamento che gli aveva fatto credere di essere davvero vicino alla morte, non ebbe nemmeno la forza di annuire.

“Adesso vattene! E fai tornare subito qui una balia!” gridò la donna, dandogli uno spintone per mandarlo verso la porta.

Mentre il Riario barcollava verso l'uscita, la Tigre prese tra le braccia Giovannino, che, al solo contatto con il calore della madre, si calmò subito.

Quando una balia, trafelata, arrivò sulla porta, Caterina la fissò, senza espressione, e le chiese: “Vi pago per curare mio figlio o per fare i vostri comodi?”

La giovane abbassò lo sguardo, le mani l'una nell'altra, un nodo di panico alla gola. Non sapeva dire cosa fosse successo, ma il viso sconvolto di messer Cesare, che le aveva chiesto con voce roca di tornare subito dal fratello, l'aveva messa in guardia. Temeva, ora, di dover pagare con la vita per qualcosa che nemmeno capiva fino in fondo.

“La sicurezza di mio figlio è l'unica cosa che mi interessi davvero.” proseguì la Leonessa, sfiorando ila fronte di Giovannino con un bacio: “E non permetterò che corra dei pericoli per colpa di chi lo dovrebbe controllare.”

“Ma messer Cesare è suo fratello, io credevo...” provò disperatamente a difendersi la balia, che non aveva visto nulla di male alla richiesta del Riario di restare un po' da solo con il piccolo: “E poi c'era anche messer Bernardino... Io pensavo che...”

“Non ti pago per pensare, ma per fare quello che ti dico.” rimarcò la Sforza, rimettendo il figlio nel suo lettuccio: “Commetti un altro errore, e ti rivendo al lenone che ho pagato per liberarti da quel bordello.”

La giovane si lasciò sfuggire qualche lacrima, di sollievo per la mancanza di una punizione immediata, ma anche di paura all'idea di cosa stesse rischiando: “Non succederà mai più.” riuscì a promettere, con voce strozzata.

“Lo spero per te.” commentò fredda Caterina, raccogliendo da terra la lettera di Tommaso, e poi uscì dalla stanza e raggiungendo in fine la sua camera.

Preso il necessario per scrivere, accantonando per un momento gli affari di Stato, di cui si sarebbe occupata come la Tigre che tutti la credevano, cominciò una lettera per Ludovico Sforza.

Al contrario di come faceva di solito, non ne approfittò per parlare anche di guerra o per scagionarsi di nuovo – come per esempio aveva fatto nella lettera scritta giusto la sera prima – in merito all'assalto al seguito di Annibale Bentivoglio. Scrisse solo, semplicemente, che avrebbe mandato Cesare a milano per qualche giorno, giusto in tempo per festeggiare là il Carnevale.

Non si trattava di una richiesta, ma di una semplice comunicazione. Che suo zio la prendesse come voleva. Anche se avesse trattato l'ospite con sufficienza, alla Sforza non interessava.

Avrebbe dato qualche giorno di vantaggio alla lettera, per permettere al Duca di prepararsi ad accogliere Cesare, e poi avrebbe spedito suo figlio a Milano, con la nascosta speranza – e se ne vergognava solo in parte – di non rivederlo mai più.

 
   
 
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