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Autore: Adeia Di Elferas    15/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Sì, manderà anche Teodoli e Ambrone, su questo non ho dubbi.” stava dicendo uno dei clienti del Novacula a un altro, che ancora attendeva il suo turno per sbarbarsi.

“Ma diteci, Bernardi – fece l'altro, guardando il barbiere – è vero che a Milano ci andrà anche Pino Numai, il figlio di Luffo?”

“Così dicono.” fece Andrea, circospetto, cercando di non lasciare intendere quanto poco sapesse.

Aveva inteso, tramite qualche chiacchiera a mezza bocca, che il giorno prima alla rocca dovesse essere successo qualcosa di grosso. C'era stata una riunione straordinaria a cui erano stati chiamati a partecipare quasi tutti gli uomini della cerchia di collaboratori e Consiglieri più vicini alla Contessa, e dopo quell'incontro pareva che fossero cambiati alcuni equilibri.

Però, e il Novacula di questo non si dava pace, lui sapeva davvero pochissimi dettagli e anche del viaggio a Milano di Cesare Riario sapeva solo lo stretto indispensabile.

“Certo che ci andrà.” a parlare era stato il Capitano Golfarelli entrando nella barberia: “E non potrebbe non andarci, non dopo ieri, almeno.”

Bernardi ribolliva dalla voglia di sapere, ma soffriva troppo nel vedere gli sguardi divertiti dei forlivesi, quando faceva domande in merito alla condotta della Sforza. Si era ammantato per troppi anni dell'orgoglio che derivava dal suo potersi definire 'amico della Tigre', e ora, quando la gente si accorgeva che il barbiere-storico non era più così al corrente della vita alla rocca, ognuno pareva sentirsi nel diritto di dileggiarlo.

Leone Cobelli, che aveva anche rischiato la vita, sparlando della Leonessa, ormai pareva l'unico a essere sempre al passo coi pettegolezzi. Era odioso. Stava tornando a vantarsi quasi quanto aveva fatto qualche decennio addietro, quando, ancora giovane, era finito per puro caso sotto l'ala di papa Paolo II, che si era messo in testa di fare di lui un grande artista. Se non altro, si consolava Bernardi, quel papa aveva tirato le cuoia molto prima che quel testone di Cobelli riuscisse a combinare qualcosa di buono, altrimenti avrebbe finito per riempirsi di vanagloria fino a scoppiare.

“Il Capitano ha ragione.” convenne quindi Andrea, con un sorriso abbastanza credibile, mentre passava lo straccio sul mento ormai liscio del suo cliente.

Sbarbato anche il secondo, sommerso da chiacchiere inutili sul tempo – si prevedeva un inverno ancora lungo e un'estate dal caldo infernale – e ancora impaziente di sapere di più, quando rimase da solo con Golfarelli, il Novacula non riuscì più a trattenersi.

Mentre cominciava a rifare il filo al rasoio, nell'attesa che il suo cliente si sedesse al posto giusto, Bernardi chiese, a voce molto bassa, come se fosse in imbarazzo a mostrarsi tanto disinformato: “Io in realtà non so cosa sia successo di preciso, ieri, alla rocca. Se poteste dirmelo voi, vi sbarberei per tutto il mese senza volere in cambio una moneta.”

Il Capitano parve pensarci su a lungo, mentre gli occhi un po' incavati scrutavano la figura del barbiere. In tutta onestà, era sempre stato convinto che quell'uomo, più di chiunque altro a Forlì, conoscesse i veri segreti della Contessa. Evidentemente le voci che giravano erano un tantino esagerate.

“Ci ha radunati tutti a Ravaldino.” spiegò Golfarelli, con un soffio, nel ricordare la tensione che anche lui aveva provato il giorno prima: “E poi, dopo aver chiesto come mai nessuno la stesse mettendo a parte degli spostamenti di Dionigi Naldi, si è lasciata andare ad almeno mezz'ora di bestemmie e improperi di ogni tipo.”

Il Novacula, soprappensiero, continuava a rifare il filo al rasoio, mentre il suo cliente stringeva un po' gli occhi, come se ripensare a quella fila di imprecazioni gli desse ancora una brutta sensazione.

“Vi giuro che la metà delle cose che ha detto non so nemmeno che significhino.” proseguì, dopo un istante, schiarendosi la voce: “Fatto sta che subito dopo ha dato ordine a tutti di riferirle immediatamente qualsiasi novità dal fronte e non solo. Ha annunciato che si costruirà una cittadella fortificata attorno al Paradiso. Vuole che i lavori siano finiti entro l'anno, anzi, in realtà ha detto entro metà anno, anche se ritengo questa tempistica un'utopia. E poi ha elencato gli uomini che dovranno scortare suo figlio Cesare a Milano.”

“Tra cui Pino Numai.” concluse Andrea, smettendo finalmente di affilare la lama, ormai tagliente quanto quella di un boia.

“Sì.” annuì Golfarelli, con uno sguardo significativo: “Una punizione sottile, ma dura, non trovate?”

“Non capisco.” ammise il barbiere, aggrottando la fronte.

“Luffo Numai aspetta da anni di ritagliare un posto per suo figlio nel governo della Contessa. E magari di cedergli addirittura il suo. Essere il Consigliere privilegiato di una donna come lei non è da tutti.” spiegò Golfarelli, allargando un po' le braccia: “E invece lei spedirà Pino a Milano, come l'ultima delle dame da compagnia, proprio quando suo padre stava per decidersi a proporlo come suo prossimo successore in veste di uomo di fiducia. Praticamente un modo per punire Luffo per averle taciuto la storia di Naldi. Non credo che per Pino ci sarà mai una possibilità concreta, in questo governo, e chissà quando farà ritorno a Forlì...”

Capita la situazione, il Novacula si fece un po' più scuro in volto, e poi convenne: “Non credo che sarà facile, per lui, risollevarsi dopo questo episodio...”

 

Caterina stava aspettando Giovanni Corradini. L'aveva fatto chiamare già da due giorni, ma siccome il Capitano era in distaccamento sul versante cesenate, tempo che l'ordine era passato da Piero Landriani a Forlimpopoli e dà lì al diretto interessato, era passato un po'.

Da quando Ottaviano Manfredi le aveva riferito di Dionigi Naldi, la Tigre aveva fatto del suo meglio per tornare a essere il più possibile presente, ricacciando in fondo all'anima la voglia di evasione che la prendeva di continuo. Si era detta che, se proprio non fosse riuscita a resistere a un'uscita nei boschi, se la sarebbe concessa, ma non per più di una notte e mezza mattinata. E, quando scendeva la sera, usava Ottaviano Manfredi per scaricare la tensione, cacciandolo, poi, non appena voleva mettersi a dormire.

Aveva già deciso chi mandare con Cesare a Milano e aspettava solo che tutto fosse pronto, prima di far uscire una volta per tutte suo figlio di casa propria.

Stava anche cominciando a rivalutare la situazione di Ottaviano. L'Oliva non le aveva nascosto come si rumoreggiasse in giro circa la sua politica matrimoniale pressoché assente, e Caterina avrebbe tanto voluto zittire chi la tacciava di essere incapace di tessere alleanze sfruttando i propri figli.

In un mondo giusto, si diceva, nessuno gliene avrebbe fatto una colpa, anzi, l'avrebbero lodata per la sua scelta. Tuttavia, per l'amore che nutriva verso Ottaviano, si era trovata a pensare che forse un matrimonio combinato sarebbe stato per lui l'unica salvezza.

Aveva controllato le spese, la sera prima, e aveva notato come vi fosse un ammanco fisso, da qualche mese. Una cifra trascurabile, ma che l'aveva insospettita. Aveva chiesto delucidazioni a Cesare Feo e questi le aveva riferito che si trattava dell'appannaggio che Ottaviano versava alla ragazza che aveva partorito sua figlia a Imola.

Caterina aveva voluto sapere il nome della piccola, ma poi, dopo un solo momento di esitazione, durante il quale il castellano le aveva spiegato che il Riario aveva deciso di occuparsene in quel modo per far fede a una promessa fatta a Giovanni Medici – o, almeno, così gli aveva detto – si era riscossa e aveva decretato: “Se ha promesso di occuparsene, allora lo faccia coi suoi soldi, non con i miei. Ditegli che da oggi gli proibisco di usare il mio denaro per mantenere sua figlia. Ha a disposizione una rendita mensile sufficiente a coprire le spese per la bambina e per quella povera ragazza che ha dovuto partorirla. Io non c'entro nulla, con i suoi disastri.”

Il suo pensiero si stava spostando su Faenza, e sulla richiesta che era stata inoltrata anche quel giorno, per convincerla a mandare Bianca da Astorre, quando finalmente si palesò Corradini.

“Sedetevi.” ordinò Caterina, appena l'uomo l'ebbe salutata con un inchino.

Si trovavano nello studiolo del castellano e la Contessa aveva indicato al castellano uno sgabello, che aveva messo davanti alla scrivania, in modo da poterlo fronteggiare meglio.

L'uomo, un po' rigido, eseguì l'ordine e poi si mise a fissarla. Non capiva il motivo di una convocazione tanto repentina. Mentre tornava verso Forlì, si era chiesto se non fosse per qualche sua mancanza di cui non si era accorto, ma dopo un approfondito esame di coscienza, era giunto a conclusione che dovesse invece trattarsi di qualche richiesta particolare, magari una missione complicata, o una spedizione presso qualche corte ostile.

“Tra tutti i Capitani al mio servizio – cominciò a dire la Sforza, prendendo fiato – so che voi siete tra i pochi che oltre a essere pratichi d'armi, lo sono anche con le questioni amministrative.”

Non sapendo dove la cosa sarebbe andata a parare, Corradini annuì lentamente, senza sbilanciarsi troppo.

“Ho in animo di chiamare a Forlì Simone Ridolfi.” fece Caterina, tenendo per sé il vero motivo di quella scelta: “Da troppo tempo questa città non ha un Governatore e in tempo di guerra è irresponsabile, da parte mia, credere di poter sbrigare tutto quanto da sola.”

Il Capitano annuì di nuovo, iniziando a intuire quale potesse essere la richiesta che la donna stava per avanzare.

“Imola, però, rimarrebbe scoperta e io ho bisogno di un uomo solido a difenderla. Non sappiamo cosa ci aspetta, e dunque non voglio che sia un pallido amministratore a reggere il nostro avamposto settentrionale.” continuò la Leonessa: “Perché se i Bentivoglio dovessero decidere di attaccarci, sappiamo entrambi che è da Imola che lo farebbero.”

Corradini annuì ancora, questa volta con maggior decisione.

“Ve la sentite di essere il nuovo Governatore di Imola?” chiese allora la Contessa, appoggiando i palmi delle mani alla scrivania.

Il soldato, che ancora portava addosso pezzi di armatura e la propria spada, si guardò, in un tacito commento a quella domanda.

Caterina fu sul punto di credere che l'uomo avrebbe rifiutato, magari mettendo avanti la propria limitata esperienza come diplomatico e amministratore, o la propria pochezza nel calcolo e nella stesura delle lettere, ma il Capitano rispose, abbastanza in fretta: “Se credete che io sia la persona giusta, allora la sono. Accetto, mia signora.”

“Vi avevo affidato mio marito Giovanni in guerra – sussurrò la Tigre, mentre gli stringeva la mano per siglare l'accordo – e credetemi che non l'avrei fatto, se non mi fossi fidata di voi. E ora vi affido Imola. Non deludetemi.”

“Non lo farò, lo giutro.” promise il Capitano, deglutendo, e cominciando a chiedersi se con quel giuramento non si fosse appena messo un cappio al collo, che, al momento giusto, si sarebbe stretto, arrivando magari a strozzarlo.

 

“Che altro c'è?!” gracchiò il Moro, fermandosi tanto di scatto che per poco Calco, che lo seguiva strettamente, non gli finì addosso.

“Mio signore, avete dimenticato di là questa...” fece il cancelliere, porgendogli la lettera appena arrivata da Forlì.

Nel sentire le novità giunte dalla Francia, il Duca di Milano aveva completamente dimenticato la missiva della nipote. Tanto, aveva pensato, altro non poteva essere che il solito elenco di lamentele e di ipocriti tentativi di indurlo a perorare la sua causa presso i Bentivoglio di Bologna.

Strappandolo di mano a Calco, Ludovico afferrò il messaggio e gli disse, ancora rabbioso: “E ora non venite più a rompermi l'anima, per oggi. E sapete che vi dico?! Che se ne ho voglia, domani prendo i falconi e vado a caccia a Vigevano!”

Il cancelliere si immobilizzò e, guardando il suo padrone allontanarsi sotto la luce malferma delle torce borbottò: “Andate pure a caccia. Non è solo la mia, la fossa che scaverete, facendo così...”

Il Moro aveva sentito molto bene le parole di Calco, che riecheggiavano nel corridoio freddo e deserto, ma fece finta di nulla. La tensione stava avendo la meglio perfino sulla rabbia.

Arrivò nella sua camera. Vi trovò la Crivelli, che lo aspettava immersa nella lettura di un libro. Si era del tutto scordato di averle chiesto di anticiparlo in stanza.

Quando Lucrezia chiese: “Che hai, Ludovico? Ti vedo agitato...” la sua reazione arrivò prima che potesse controllarsi.

Afferrandola per un braccio, con un atteggiamento manesco, che, nei confronti delle donne, non era mai stato nelle sue corde, l'alzò di peso dall'ottomana su cui era adagiata, e, mentre la Crivelli lasciava cadere in terra il libro che aveva tra le mani, le gridò: “Fila via! Sparisci! Non ho tempo per queste idiozie! Levati di torno! Fila!”

Spaventata – soprattutto perché in tanti anni lo Sforza non aveva mai osato sfoggiare un simile atteggiamento con lei – la donna corse alla porta e, senza nemmeno fiatare, sparì.

Ludovico si morse le labbra sottili e poi si passò la grande mano tra i capelli. Notò un movimento, con la coda dell'occhio, e, grazie ai suoi nervi a fior di pelle, si spaventò subito, scattando in piedi, in posizione di difesa, per poi rendersi conto che ciò che aveva scorto era solo il proprio riflesso nello specchio.

Lasciandosi risedere con un tonfo sull'ottomana su cui prima stava Lucrezia, il Duca fece un respiro profondo e, gettata la lettera della nipote in un angolo, si prese la testa tra le mani.

Le notizie che era arrivate dalla Francia, per lui, erano una tragedia. Era stato cieco e sordo, ma alla fine aveva capito cosa si stava apparecchiando ai suoi danni.

Luigi XII, quel 7 gennaio, aveva riconosciuto le libertà ai bretoni, come era stato richiesto dalla vedova di Carlo VIII. Non solo. La cosa più grave era che, nel corso della medesima cerimonia, aveva apertamente avanzato le proprie pretese su Milano, dicendo in modo chiaro e impossibile da fraintendere che avrebbe presto fatto il necessario per prendersi quel che era suo.

Il suo matrimonio a Nantes, poi, proprio con Anna di Bretagna, aveva segnato un'alleanza che il Moro aveva sempre cercato di ignorare.

Per potersi sposare con Anna, Luigi aveva chiesto la cancellazione del suo primo matrimonio con Giovanna di Valois al papa. Accettando di favorirlo in quel modo, Alessandro VI aveva di certo chiesto in cambio qualcosa di grosso, e la presenza di suo figlio Cesare alla corte francese ne era la dimostrazione più tangibile.

Ludovico avrebbe voluto mettersi a piangere, e forse ce l'avrebbe fatta, se non fosse stato tanto spaventato. Aveva cercato di non pensarci e di chiudere gli occhi, ma sapeva che Milano non lo supportava. Temeva che le sue truppe gli si ribellassero e che la popolazione remasse contro di lui.

Se solo Beatrice fosse stata ancora viva, lei avrebbe saputo che fare, ne era certo. Con lei al suo fianco, non si sarebbe mai trovato in una situazione tanto disperata.

Si batté due volte il palmo della mano contro la fronte, come se quel gesto infantile potesse davvero togliergli quel senso di nausea che provava nel pensare al futuro.

Non riusciva a essere lucido e gli pareva che il mondo gli potesse crollare addosso da un momento all'altro. Sentiva l'intestino protestare e l'addome contrarsi. Come quando era ragazzino, il suo corpo stava reagendo portandolo quasi al vomito da un lato e alla ricerca di un vaso da notte dall'altro.

Non voleva cedere alle proprie debolezze. Sapeva che era tutta una questione di testa. Respirò a fondo, provando a convincersi del fatto che, se non altro, Luigi non avrebbe agito immediatamente.

Se fosse stato bravo, avrebbe potuto giocarsela ad armi pari, o quasi. Doveva scomodare l'Imperatore, fare leva su Firenze. Doveva richiamare presto Giovanni da Casale, l'unico, tra i suoi comandanti, che capisse qualcosa. Doveva farsi spiegare in modo approfondito quale fosse la reale posizione della Signoria nei suoi confronti e, nel caso fosse negativa, come recuperare la fiducia e la stima di Firenze. Doveva sfruttare tutto ciò che poteva. Perfino sua nipote, per quanto gli paresse inutile.

Afferrò la lettera che aveva accantonato e la lesse, deciso a usarne le richieste contenute a suo favore. Doveva cominciare a ingraziarsela. Non si poteva mai sapere. Avrebbe avuto bisogno di chiunque. Di chiunque.

Il tenore del messaggio, però, era molto diverso da quel che si era aspettato. Caterina gli notificava, in modo anche abbastanza succinto, il prossimo arrivo di Cesare Riario a Milano, 'per prendere congedo' così aveva scritto, prima che diventasse un pezzo grosso di Santa Madre Chiesa.

Ludovico si massaggiò il mento. Se quel Cesare Riario fosse andato in seno al Vaticano, forse anche lui sarebbe potuto tornare utile. L'avrebbe trattato come un principe, ecco cos'avrebbe fatto.

Ripiegò con cura la lettera. Aveva le gambe ancora molli e gli sembrava di avere la febbre. Senza svestirsi, si coricò a letto e, mettendosi a pregare, cercò di addormentarsi: con l'alba che sarebbe giunta nel giro di poche ore, si stava per aprire per un lui una lunghissima sequela di giornate interminabili. Voleva arrivarvi riposato. O, almeno, provarci.

 

I lavori per la cittadella che avrebbe dovuto proteggere, come in un cerchio difensivo aggiuntivo, non solo il Paradiso, ma la stessa rocca di Ravaldino, era cominciati il giorno stesso in cui Caterina ne aveva dato ordine.

Costruttori da tutto lo Stato erano stati chiamati a progettare la costruzione e la Contessa aveva presenziato di persona a tutti i sopralluoghi.

Quella mattina, però, la sua attenzione era stata dirottata verso la partenza di suo figlio Cesare. Il seguito che lei stessa aveva composto – una ventina di uomini esperti d'armi, tra cui spiccavano Pino Numai, Giorgio Teodoli e Simone Ambrone – stava già aspettando nel cortile della rocca.

Era appena passata da loro, per ricordare le sue ultime disposizioni, e poi era tornata nei suoi alloggi, ancora indecisa se dare il suo saluto privato al figlio, oltre a quello ufficiale.

Non vedeva l'ora di saperlo per strada, tuttavia aveva passato la notte quasi del tutto insonne, a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta.

La partenza di Cesare, alla fine, era qualcosa di molto più importante, per lei, di quanto avesse creduto all'inizio. Aveva perfino temporeggiato, nella questione di Ridolfi, proprio per paura che il distacco con il suo secondogenito la destabilizzasse tanto da renderle difficile occuparsi come avrebbe voluto di Simone.

Sapeva che suo figlio era stato in Duomo, per congedarsi dai suoi maestri e pregare, ma era certa che ormai fosse tornato a Ravaldino. I suoi bagagli, ovviamente, erano già tutti sul carretto che l'avrebbe portato fino a Milano. Caterina gli aveva proposto una carrozza più comoda, ma le sue manie da martire l'avevano portato a rifiutare.

Alla fine, capendo che in realtà un ultimo incontro a quattrocchi le serviva, la Sforza uscì dalla propria camera e andò in cerca di Cesare.

Lo trovò nella sala delle letture. La porta era socchiusa, così la donna cercò di capire cosa stesse dicendo e a chi. Stava parlando con Bianca, ma non si capiva nemmeno una parola. Dopo un po', però, la voce della ragazza si alzò un po' e finalmente anche la Contessa riuscì a discernere qualche frase.

“Ti auguro di fare una buona vita, ma non posso perdonarti.” stava dicendo Bianca, dura: “La colpa che mi hai portato ad avere sul cuore è troppo grande.”

“Ma è stato Ottaviano a...” provò a ribattere il fratello, ma la ragazza non sembrava ammettere repliche.

“Ho la mia parte di colpa, lo ammetto. Io avevo intuito qualcosa e non ho fatto nulla per fermarvi, lo so. Ma tu, tu ancora più di Ottaviano, che anche se eri un ragazzino come noi, facevi grandi discorsi, con la tua aria da moderato e da saggio...” la voce della giovane si spezzò e, quando parlò ancora, fu chiaro che stesse piangendo: “Giacomo Feo lo abbiamo ucciso noi. Tutti e tre, lo vuoi capire? È un peso che non mi lascia mai, nemmeno quando riesco a non pensarci. E questo peso, sulla mia coscienza, ce l'avete messo tu e Ottaviano, assieme. Non solo lui.”

“Perdonami, Bianca.” ribadì Cesare, piatto, ma evidentemente la sorella aveva negato di nuovo, perché egli lasciò perdere una volta per tutte: “Spero che col tempo cambierai idea. Pregherò per te.”

La Riario, dopo quelle parole del fratello, uscì di corsa dalla sala delle letture, un braccio sollevato a nascondere le lacrime e la Contessa ebbe il sospetto che, accecata com'era dal dolore e dalla rabbia per la conversazione appena conclusa, non si fosse nemmeno accorta di lei.

Poco dopo, trafelato, anche Cesare lasciò la sala della letture e si imbatté nella madre. La guardò per un solo istante e poi abbassò la testa, mettendo in mostra la tonsura.

“Volevo incontrarti, prima di lasciarti partire.” disse la Leonessa, la bocca che si seccava un po'.

Ciò che aveva origliato le aveva riportato alla mente il motivo che aveva rotto una volta e per tutte ciò che un tempo c'era stato tra lei e quel figlio. Da bambino, Cesare era stato capace di grandi slanci d'affetto e, per un certo periodo, era stato quasi in grado di farle dimenticare che Girolamo fosse suo padre. Poi, però, aveva cominciato ad allontanarsi e, dopo la congiura ai danni di Giacomo, era divenuto per lei un estraneo, se non addirittura un nemico.

“Pregherò per voi.” promise Cesare, sempre senza guardarla: “Alla fine so che avremo tutti il perdono divino per le nostre colpe, tramite la preghiera e l'espiazione dei nostri peccati.”

“A volte invidio la tua fede.” commentò a denti stretti la Sforza, vedendo come, nel parlare, le dita lunghe e sottili del ragazzo fossero corse al crocifisso che portava al collo.

“L'invidia, come l'ira e la lussuria, è un vizio capit...” cominciò a dire il Riario, risollevando finalmente lo sguardo, ma, nel sentire il suo tono da predicatore, Caterina perse all'istante la pazienza, colpendolo con uno schiaffo in pieno viso.

Tenendosi una mano sul volto, gli occhi che si velavano di lacrime, smascherando, per la prima volta da anni, il dolore che Cesare provava nel non riuscire più a trovare un reale punto di contatto con la madre, il diciottenne riabbassò il capo.

“Non sono qui per una lezione di catechesi!” sbottò la donna, ma poi, con una forza inspiegabile, la rabbia si spense e lasciò il posto al rammarico.

Non avrebbe saputo dire a parole quanto aveva sofferto in quegli anni, e quanto ancora soffriva, nel vedersi incapace di accettare la maggior parte dei propri figli. Ed essere prossima a separarsi da Cesare, probabilmente per sempre, la stava mettendo davanti a quel vuoto che aveva sempre avuto nel cuore.

In uno slancio che fece sobbalzare il ragazzo, la Tigre lo strinse a sé in un forte abbraccio, lasciandolo andare quasi subito, per dirgli, con voce un po' secca: “Se non dovessimo rivederci, sappi che mi spiace.”

“Per cosa..?” chiese il Riario, tanto sconvolto da quel gesto della madre, da non sapere nemmeno come interpretarlo.

“Per tutto.” fece lei e, con un ultimo sguardo, gli voltò le spalle e se ne andò.

Quando, circa un'ora più tardi, la Contessa si mise sui camminamenti della rocca per dare il suo saluto ufficiale al figlio, che partiva con un corteo di venti uomini e qualche carretto, né la sua espressione distante, né quella seriosa del ragazzo avrebbero potuto far intendere ad alcuno quanto entrambi si sentissero sconfitti e amareggiati, per quello che stava succedendo.

 

 

 
   
 
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