Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Elizabeth_Tempest    15/10/2018    1 recensioni
Epoca franchista: il regime ed il clero si rendono complici del rapimento e dell'adozione illegale di migliaia di bambini. Storie che intrecciano genitori biologici e adottivi, figli e nipoti in un intricato intreccio familiare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Novecento/Dittature
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Hijos perdidos
 

 
La cella era buia, talmente buia che Aurken non avrebbe potuto dire se era notte o giorno, ma probabilmente era solo un’impressione, un gioco dei suoi occhi o il netto rifiuto del sole di entrare in quel posto.
Non era sicura di quante persone fossero lì con lei… sicuramente erano più di quelle che la stanza era stata progettata per contenere, perché nemmeno nelle più rosee fantasie del progettista era possibile che avesse immaginato di ficcare così tanti esseri umani in così poco spazio.
Non era nemmeno sicura che fossero le stesse con cui era entrata qualche settimana prima; probabilmente non lo erano i bambini, di quello era certissima.
C’era una specie di strano andamento periodico con loro: all’inizio, piangevano. Terribilmente, tutto il tempo. Nelle prime ore o nei primi giorni era per paura.
In quelli seguenti per la fame e la sete.
Poi prendevano due strade diverse: alcuni iniziavano ad emettere semplici mugolii, destinati a scomparire velocemente. Altri continuavano a strillare, ma non ininterrottamente: erano più scoppi di impotenza e rabbia, gli ultimi rimasugli di una qualche voglia di normalità, come se persino i più piccoli si rendessero conto che non solo qualcosa non andava, ma che quel qualcosa era completamente innaturale.
Alla fine potevano succedere solo due cose: o la smettevano anche di lamentarsi sporadicamente oppure comparivano poliziotti, uomini distinti in borghese e preti, la porta della cella si apriva, scoppiava una specie di stanca ressa e poi la porta si richiudeva.
Aurken a quel punto perdeva totalmente interesse nella vicenda ed il mondo esterno tornava ad essere avvolto da una spessa coltre di nebbia.
Di tanto in tanto provava a parlare con la sua vicina –era sempre la stessa?- o a contare le persone nella cella o a calcolare che giorno forse, ma poi perdeva interesse.
Non era mai stata una persona particolarmente emotiva o espansiva, non aveva mai cercato con particolare attenzione il contatto umano e, esattamente come sua madre, aveva maniere spicciole e tendeva a ridurre le chiacchiere al minimo indispensabile, che poi era il motivo per cui Agosti l’aveva sposata.
Non era stato amore, non era stato né un colpo di fulmine né una di quelle storie romantiche che si accendono piano piano, per poi trasformarsi in un incendio estivo: ad unirli c’era la stima reciproca e gli ideali che l’avevano accompagnata, mano nella mano, nella cella; aveva seguito il consiglio della madre –“meglio un uomo solido, con la testa ben piantata dove deve stare e pochi grilli”- e le simpatie di suo padre per scegliere il compagno della sua vita e non lo rimpiangeva.
Con Agosti era stata bene, non invidiava le storie d’amore da favola delle sue amiche, né la differenza di età le aveva mai particolarmente dato fastidio; ad essere sinceri, era tutto valore in più: una persona educata, con tanta esperienza alle spalle che poteva sostenere con lei quelle conversazioni che altri uomini trovavano sconvenienti se pensate da una ragazza.
Non avevano mai cercato un figlio, consideravano i loro ideali e la loro lotta come l’unico, degno erede delle loro esistenze e per diversi anni non era stato un problema: non sentiva il vuoto che le altre donne le avevano predetto, non sentiva l’istintiva necessità di asciugare moccio e tirare guance paffute.
Poi aveva scoperto di essere incinta e nemmeno quello le era parso un vero problema: era un bambino, in qualche modo se la sarebbero cavata.
Lo pensava ancora. O, per lo meno, ci sperava.
In qualche modo lei e il bambino se la sarebbero cavata, lì dentro.
Ce l’avrebbero fatta.
Forse.
 
Eusko Gudariak gara*
Euskadi askatzeko,
gerturik daukagu odola
bere aldez emateko.

 
Il letto era scomodo, la camicia da notte un pochino grattava. Un pochino tanto, si corresse mentalmente e aveva un male atroce ovunque, persino a parti del corpo che non credeva di possedere.
Ma era comunque meglio della cella e lì c’era della luce, che le feriva sì gli occhi ora abituati all’eterna penombra, ma che le dava anche un minimo di conforto.
Le suore non le erano mai piaciute, le erano sempre sembrate la grottesca caricatura di una donna, incattivite dal desiderio di quello che non avrebbero mai potuto avere, per ristrettezza di mezzi o per desiderio dei parenti; sua madre le aveva sempre rimproverato di essere fin troppo pronta alle critiche e di non lasciar mai agli altri il tempo di mostrarle il loro vero carattere.
Ora avrebbe potuto finalmente urlare in faccia a quella donna taciturna e severa che aveva sempre avuto ragione.
Chissà come stava sua madre… Si era finalmente fatta cucire il vestito nuovo che voleva tanto?
Il filo dei pensieri venne spezzato da una fitta tremenda. Il mondo divenne completamente bianco, lo stomaco le si rivoltò, ogni singola fibra del suo corpo si ribellò.
-Tiratelo fuori! Ora!
Una delle monache probabilmente la rimbrottò, mentre le altre due controllavano sotto la sua camicia da notte, borbottando tra loro.
Ad ogni fitta la realtà si sgretolava.
Si rimescolava.
Tornava assieme, caotica.
Si sgretolava di nuovo.
Era normale soffrire così?
Dalla faccia della sorella-levatrice, non ne era particolarmente certa.
Peccato.
Le piaceva essere certa delle cose.
Chissà se poi sua madre era andata dalla sarta…
 
Quatro pasos quiero acordarme**
Quatro pasos ya sé
Tu me quisiste, yo te quise
Cinco pasos ya sin perderme
Tanto me alejé
Cinco pasos y te perdoné

 
La donna in nero entrò nell’ufficio della superiora, un luogo spartano, freddo, ingombro di pesanti mobili di legno scuro, di incartamenti sulle spese del convento e sulle suore che erano andate e venute in quel luogo, di Bibbie e agiografie e poco altro. Un enorme Cristo in croce scrutava con severità gli astanti, mentre una Madonna di gesso sembrava quasi tentare di addolcire con il proprio viso sereno l’austerità del figlio morente.
La monaca si fece da parte, lasciando entrare una coppia ben vestita a braccetto; lui aveva forse una cinquantina di anni, i capelli color topo mostravano i segni di una calvizie incipiente e gli occhiali continuavano a scivolargli lungo il naso per via del sudore. Indossava un bel completo scuro, un cappotto dello stesso colore e delle scarpe di cuoio lucide e la postura un poco ingobbita lasciava pensare ad un funzionario o un impiegato.
Lei era decisamente più bella del marito: nonostante fosse sulla quarantina –più sui quarantacinque, in realtà-, la pelle candida di qualcuno che non aveva mai lavorato in vita sua appena rigata da qualche ruga, era luminosa e contrastava nettamente con l’abito verde scuro ed il cappotto che indossava. Gli occhi erano chiari, vivi e fremevano, impazienti per qualcosa.
La coppia si sedette e, a convenevoli svolti, la madre superiora passò ad argomenti seri.
-Confido che la signora abbia preso tutti gli accorgimenti del caso.
La donna sorrise e gli occhi le si riempirono di un malcelato orgoglio. –Certo. Abbiamo detto che siamo in città, sa, per via dell’età…
-Una mossa saggia. Nostro Signore non tollera la menzogna, ma sicuramente comprenderà ciò che è fatto a fin di bene, come in questo caso particolare. Come vi ho scritto, abbiamo ciò che avete chiesto.
A questo punto l’uomo si sporse istintivamente verso di lei, in attesa.
-Dicevo… abbiamo un caso particolare. Una bambina.
La donna curata andò in visibilio, mentre il marito ci mise un po’ di più a raggiungere la stessa estasi, passando prima per lo stupore e la delusione. –Una bambina.
-Sana e robusta, nata due giorni fa.- aggiunse la madre superiora –Chiaramente è una povera orfana, come preventivato, ma chiaramente nessuno ha bisogno di sapere delle disgrazie di questa povera creatura che il Buon Dio ci ha affidato.
-Chiaramente.- dissero in coro marito e moglie.
Ma non ebbero il coraggio di guardare il Cristo in croce quando si congedarono.
 
¿Cómo pude imaginarme***
Que tenía algo que darte?
Y yo en mi madurez y tú
En tu plena juventud
Los años no perdonan

 
I primi mesi erano stati un inferno: Rosario non faceva che piangere, ogni motivo era buono. Aveva fame, aveva freddo, aveva caldo, aveva male, aveva… aveva sempre qualcosa.
Encarna aveva perso il conto delle notti insonni, delle crisi di pianto, dei terribili momenti in cui avrebbe voluto tenerle la testolina pelata sott’acqua e farla stare zitta; non era il sogno che si era aspettata, non era il coronamento delle sue ambizioni, ma poi la vedeva sorridere oppure la osservava dormire ed il suo cuore si riempiva di un amore terrificante, potente, impossibile.
Ogni paura scompariva, il timore che non averla portata in grembo la rendesse una madre incapace lasciava il posto alla consapevolezza di essere l’unica madre che avrebbe mai avuto e di poterle dare tutto.
Erano lei e Rosario contro il mondo, nemmeno Antonio poteva capire cosa ci fosse tra loro due: lui era lì, sullo sfondo, una comparsa nel racconto epico che stavano scrivendo assieme.
I primi anni erano stati complicati: Rosario era una monella e una chiacchierona.
Curiosa, indomabile, eternamente impegnata a cacciarsi nei guai o a formulare domande impossibili; non c’era no che tenesse, non c’era sculacciata che la fermasse, quando si ficcava qualcosa nella sua testolina bionda e riccia, non la si poteva tener ferma.
Antonio aveva finalmente iniziato ad apprezzare quella creaturina egocentrica, impegnativa, bisognosa e a riempire la sua mente di nozioni e storie, ma non era paragonabile a quello che c’era tra di loro: Encarna e Rosario, sempre assieme, sempre complici.
Complici quando Encarna le faceva mettere per gioco le sue perle, complici quando mangiavano un dolcetto di nascosto, persino complici quando Rosario fingeva di dimenticare le parole delle preghiere per dilatare all’infinito il momento della buonanotte.
Quello che era stato prima del convento era scomparso, dimenticato e davanti ai complimenti per la bellezza e la vivacità di sua figlia, la donna non faceva che gonfiarsi di orgoglio.
Sua figlia, solamente sua, persino Antonio era superfluo in quel quadretto.
L’aveva desiderata, aveva pregato per lei e Dio gliel’aveva data. Era palese che prima del convento non ci fosse nulla da ricordare e col tempo Encarna aveva quasi dimenticato… solo di notte la consapevolezza della menzogna tornava di prepotenza alla sua mente, facendola svegliare di soprassalto, straziandole il cuore e le carni.
L’altra era in agguato nei suoi incubi, col viso della Madonna di gesso del convento, pronta a ricordarle l’ovvio, pronta a minacciarla di rovinarle l’esistenza.
Encarna la combatteva, le urlava che Rosario era sua, che le somiglia persino, che era stata la miglior madre possibile, che non aveva nessun diritto di rovinarle la vita. Non poteva tornare, non era la sua vita!
-Non puoi mentire per sempre.- era la risposta che l’attendeva ogni volta.
No, non avrebbe potuto.
 
Un paso me voy para siempre
Un paso fuerte
Un paso hacia adelante

 
Encarna non aveva potuto mentire per sempre.
All’inizio era solo stanca; sempre stanca, terribilmente stanca.
Antonio, esasperato da quella situazione, l’aveva portata dal medico e la diagnosi, terribile, era arrivata come un fulmine a ciel sereno: cancro al seno. Il viaggio di ritorno era stato fatto nel mutismo più totale, mentre colossali nuvole nere si addensavano sopra di loro ed enormi gocce di pioggia rotolavano sulle loro guance gelide.
Erano stati felici.
Non sempre, era chiaro: la sterilità era stata una maledizione e il matrimonio era sempre stato più un’unione di interesse che di amore, ma l’arrivo della bambina aveva reso tutto migliore, aveva aggiustato ciò che si era incrinato anni e anni prima.
Per Encarna, quello era stato un segno: colpita al seno dal male peggiore che si potesse immaginare, colpita proprio a quel seno che non aveva mai potuto donare nutrimento. Era un messaggio della Madonna, la promessa dell’altra che si compiva.
Smise di dormire la notte, terrorizzata da ciò che avrebbe potuto sognare, da quel viso di gesso pronto a deriderla e a minacciare di riprendersi Rosario.
Smise di provare appetito o gioia.
Una coltre grigia e gelida l’avvolse… e alla fine non poté più tacere.
Chiamò Rosario in camera sua e la strinse a sé come quando sua figlia era piccola e non poteva dormire a causa di qualche incubo. Le accarezzò i capelli ricci, le guance umide, la fronte alta e liscia; annusò il suo odore, le baciò i capelli. Era stato tutto suo per diciassette anni, un sogno splendido, bellissimo, ma che aveva rubato ad un’altra donna.
Con la voce rotta, piena di vergogna e rimpianto, glielo disse.
Le disse che era sterile.
Le disse che l’aveva comprata come un volgare capo di bestiame.
Le disse che qualcuno l’aveva rubata per lei a sua madre in cambio di denaro.
Qualcosa si incrinò, si spezzò, andò in frantumi.
Encarna glielo vide negli occhi e desiderò essere già morta; il suo cuore si disintegrò davanti al dolore che aveva provocato e allora, per la prima volta, negli occhi di Rosario non vide più i suoi.
Sua figlia non le assomigliava per niente, era impossibile sbagliarsi.
 
¿Y cuándo volverás?
Je ne reviendrai pas
¿Cuándo volverás?
Je suis si loin déjà
¿Y cuándo volverás?
Un dia o jamás

 
Il rumore delle chiavi nella toppa ridestò Rosario da quella specie di torpore in cui era sprofondata mentre beveva il suo tè; il tavolo era ancora disseminato di carte e l’orologio della cucina indicava che erano le cinque e mezza.
Probabilmente era Eva, che tornava dal fine settimana con suo padre… ed infatti il rumore di scarpe da tennis praticamente scaraventate sul pavimento dell’ingresso e lo scalpiccio di piedi nudi, seguiti dalla comparsa di una specie di bagliore rosso che le si scaraventò addosso baciandole la guancia confermò la sua ipotesi.
Elementare, Watson.
-Tutto bene?- chiese la ragazzina, sfilandosi il giubbino. Rosario annuì, massaggiandosi il collo.
-E tu?
-Ma’, il solito. Cinema, passeggiata, tutto normale. Papà di saluta.
La donna osservò attentamente la figlia, come si sorprendeva a fare sempre più di frequente nell’ultimo periodo; Eva era alta e priva di forme, ma non per questo priva di grazia… era una grazia particolare, la delicatezza di qualcosa di fragile e prezioso. Non aveva ancora iniziato a truccarsi e quindi la sua pelle abbronzata, ereditata dal padre, risplendeva in tutto il suo splendore.
A parte questo, da Jorge aveva ereditato pochissimo: sua figlia aveva la sua bocca e i suoi occhi chiari, verdastri e una marea di capelli ricci e biondicci… lei li aveva castani, anche se sapeva di averli avuti molto chiari da bambina e si chiese da chi li avessero presi.
Anche sua madre era così? Oppure erano i capelli di suo padre? Si passò istintivamente una mano tra i capelli, evocando l’immagine che si era fatta dei suoi genitori: sua madre, bassa e bionda, coi capelli ricci e suo padre, alto, con tanti capelli e dei gran baffoni.
-Stai ancora cercando?
Eva si intromise nei suoi pensieri e i suoi genitori scomparvero. Annuì e per un po’ il silenzio regnò sovrano.
Il piccolo appartamento madrileno non assomigliava minimamente alla casa borghese in cui era cresciuta e la confusione regnava ovunque ma non le dispiaceva: era sempre stata un po’ hippy e stravagante e quella casa rispecchiava perfettamente la vita folle che amava condurre assieme a sua figlia. Uno dei vari motivi per cui tra lei ed il suo ex non aveva funzionato.
-Mamma… e se non li trovi?
-Potrò dire di averci provato.- rispose Rosario. Le pareva una risposta soddisfacente, anche se un po’ preconfezionata, ma dubitava fortemente che qualcuno avesse scritto un manuale su come comportarsi in casi come il suo e poteva accontentarsi di qualcosa di così poco originale.
-E se li trovi? Cioè, saranno tipo vecchissimi e… be’… magari hanno altri figli…
Bella domanda.
E se li avesse trovati? Non ci aveva mai pensato davvero… forse perché non aveva mai davvero pensato di poterli trovare.
Dopo la rivelazione della sua madre adottiva, Encarna, non aveva iniziato subito le ricerche; un po’, perché era stato qualcosa di troppo grande da digerire, un po’ perché temeva quello che sarebbe potuto succedere. Inoltre sua madre era gravemente malata e nonostante la tremenda rabbia che aveva provato, non era riuscita a chiederle altro né a darle il dispiacere di cercare i suoi veri genitori.
Col tempo aveva scoperto che era una cosa del tutto normale per i figli adottati da piccoli… ammesso che “adottare” fosse il verbo giusto, nel suo caso.
No, lei era stata rapita e venduta. Come si fa con le bestie.
Non c’era stata nessuna forma di dignità o umanità in ciò che avevano fatto, non erano i benefattori di una povera orfana: l’avevano volontariamente sottratta ai suoi genitori per soddisfare il loro egoismo.
I primi anni erano stati di negazione: sua madre era malata, forse delirava o forse aveva messo giù le cose abbondando col melodramma. Non voleva e non poteva accettare di aver vissuto in una crudele bugia; ogni ricordo aveva iniziato a stingersi, ad incrinarsi, a perdere di significato e un terrificante gelo l’aveva avvolta.
Poi erano arrivate la rabbia e la vergogna: era stata comprata come un animale e i suoi veri genitori erano là fuori da qualche parte. Aveva odiato Antonio ed Encarna con tutta sé stessa e aveva lasciato quel ridicolo omuncolo da solo, andandosene quanto più lontano possibile e spergiurando che non avrebbe mai più parlato con lui, ma nemmeno allora aveva pensato di cercare i suoi genitori biologici: in quel dramma esistevano solo lei e la famiglia che l’aveva cresciuta.
Solamente con la gravidanza e la nascita di Eva aveva iniziato a pensare più frequentemente a sua madre, ad immaginarla, a simulare conversazioni con lei, a preparare il discorso che avrebbe voluto farle incontrandola per la prima volta.
Aveva così tante domande da farle, così tante curiosità da soddisfare, così tante cose da dirle.
Ma si era rivelato subito un problema: nessuno sapeva e nessuno parlava. Ufficiosamente, sapevano cani e porci, ufficialmente riuscire a cavare un ragno dal buco era impossibile.
Aveva incontrato altri come lei, altri bambini rubati alle loro madri tra gli anni ’40 e ’50. Erano ovunque, venivano da tutta la Spagna e avevano vissuto tutti la sua stessa storia e il suo stesso dolore, ma i documenti non c’erano.
E senza documenti, risalire alle identità delle madri era impossibile.
Allo stesso tempo, anche le madri avevano iniziato a cercare i propri figli: per quelle a cui erano stati tolti già grandi forse poteva essere più facile –Rosario ne dubitava seriamente, in realtà, ma la sua parte romantica sperava sempre in un ricordo che riaffiorava, in una voglia particolare o in altri espedienti da romanzo-, ma la schiera di donne che aveva perso i figli neonati difficilmente avrebbe potuto rintracciarli senza i certificati di nascita.
Si era chiesta molte volte cosa avesse fatto sua madre per incorrere nella punizione franchista, ma ascoltando le storie altrui aveva capito che bastava anche la mera parentela con un “dissidente” per vedersi privare dei propri figli ed il regime era caduto da troppo poco tempo per sperare davvero in un cambiamento.
Molti franchisti non erano mai stati processati, avevano semplicemente cambiato bandiera ed erano rimasti al loro posto; il clero aveva bellamente fatto finta di niente, come se non avessero dato manforte a Franco e i suoi uomini.
Era frustrante. Desolante. Ma non riusciva a mettere da parte i pochi indizi che aveva, non ce la faceva: lo faceva per sé stessa e per Eva, perché avevano il diritto di sapere chi fossero davvero.
Sua figlia rimestò tra le carte, per tirare fuori una foto sgualcita in bianco e nero: una bambina piccola assieme ad una donna dallo sguardo felice e pieno d’orgoglio e un ometto timido ed un po’ imbarazzato dall’obbiettivo. Encarna e Antonio. I suoi genitori.
-Sei arrabbiata con loro?
-Non lo so… forse all’inizio. Forse lo sono ancora… ma… non lo so, sai? Non capivo, all’epoca, non riuscivo a capire come avessero potuto farmi una cosa simile. Portarmi via da mia madre, rapirmi, comprarmi. Mi sono sentita come un cagnolino da appartamento e ti giuro che avrei voluto urlare e picchiarli e rompere tutto.- disse Rosario, abbracciandosi le gambe e raggomitolandosi –Mi avevano mentito, mi avevano fatto del male, non potevo perdonarli. Poi… poi, non lo so, forse sono cresciuta e sono diventata saggia, anche se tuo padre avrebbe da ridire… o forse ho avuto te, ma sono riuscita a capirli un pochino. Ho pensato a quanto terribile fosse per lei non avere figli a quei tempi e a tutte le cose stupide che facevamo assieme e a come urlasse al mondo intero che aveva la figlia migliore del mondo anche quando mi comportavo malissimo e… e ho capito che mi amava davvero, che mi ha dato quello che avrebbe dato ad una figlia completamente sua. Non… non riesco ad odiarla completamente, ma quando provo ad amarla, mi sento spezzata in due, come se non fosse giusto, come se non dovessi amarla per quello che ha fatto. Ma se provo ad odiarla, non ci riesco, perché penso a quanto sono stata felice con lei…
La ragazzina la strinse forte e la donna pensò a quanto grande e forte potesse essere sua figlia a soli quindici anni: seria, pensierosa, pacata, coraggiosa. Non lo aveva preso da lei, anzi, a volte le ricordava da morire sua madre Encarna e spesso si scopriva a pensare a lei con nostalgia, rammaricandosi del fatto che non aveva potuto conoscere quella nipote tanto splendida.
Sarebbe stata orgogliosa di lei, sicuramente e lo sarebbe stata anche l’altra madre, quella che l’aveva messa al mondo, perché Eva era semplicemente splendida.
-La troveremo, mamma. Te lo prometto.
Forse, si disse Rosario. Forse la troveremo, ma allora dovrò capire se una di loro mi ha persa davvero.
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A
Il titolo “Hijos perdidos” è ispirato al titolo del saggio di Tara Zahra “The lost children”; la vicenda narrata è ispirata alla vicenda dei bambini rubati durante il regime franchista (https://en.wikipedia.org/wiki/Lost_children_of_Francoism ), anche se questo specifico racconto si focalizza maggiormente sulle vicissitudini interiori dei protagonisti che su quelle storiche.
Fonti extra: “Il cammino dell’adozione”- A. Olivero Ferraris
* https://it.wikipedia.org/wiki/Eusko_Gudariak
* https://www.youtube.com/watch?v=E3JTcbJGCoc
* https://www.youtube.com/watch?v=BRhpkCdzCq4
 
 
 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Elizabeth_Tempest