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Autore: Adeia Di Elferas    19/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E dunque, padre, non siete felice per me?” chiese Lucrecia, guardando il volto del papa, che, in quella luce soffusa le pareva così diverso dal solito da spaventarla quasi.

Alessandro VI sapeva di doverlo essere. Un figlio dall'Aragona era quello che tutti si erano auspicati fin dall'inizio. Un modo tangibile di legare Napoli ai Borja, molto più di quanto non avesse fatto il matrimonio tra Joffré e Sancha.

Tuttavia il brillare degli occhi di sua figlia, una luce limpida, quasi innocente, e il suo entusiasmo nel parlare del marito – agli occhi di Rodrigo nulla più di un ragazzino la cui unica fortuna era avere un bel viso e capelli folti – gli stavano conficcando una spina nel cuore.

Era sempre stato lui, l'uomo più importante nella vita di Lucrecia. Ora che Alfonso le stava per dare un figlio, quegli equilibri si erano spostati. O forse, ammise con se stesso, mesto, erano cambiati il giorno stesso in cui lei aveva visto il suo futuro sposo.

Il papa chiuse un momento gli occhi. La giovane Borja poté notare con maggior distinzione le pesanti occhiaie che li cerchiavano e le rughe che, a partire dal centro della fronte, si diramavano sulla sua pelle. Era vecchio. Rodrigo Borja, l'uomo che aveva avuto nelle mani la forza di stringere a sé il mondo intero, si stava trasformando in un vecchio.

“Sono molto felice per te.” mentì Alessandro VI, e, mentre riapriva le palpebre, qualcosa nel suo sguardo era cambiato: “Hai fatto quello che andava fatto.”

Lucrecia rimase spiazzata da quell'affermazione. Lei amava Alfonso, moltissimo. Più lo conosceva, più tempo passavano assieme, e più avrebbe voluto sentirsi sua e di nessun altro. Con Cesare lontano, poi, le sembrava di tornare a respirare.

“Tuo fratello tornerà presto dalla Francia.” proseguì il papa, con un tono molto meno accorato, le grandi mani che tornavano a gesticolare come al solito: “Tempo che si sposi e che il re gli affidi l'esercito.”

“L'esercito..?” quella mezza domanda scivolò fuori dalle labbra della giovane prima che potesse ragionarci sopra.

Il padre, nel vederla tanto confusa, sollevò appena l'angolo della bocca e commentò: “Non pensare a queste cose. Pensa al figlio che porti in pancia. Con questo bambino, possiamo finalmente contare sull'appoggio incondizionato di Napoli. Sempre che sia un maschio...”

Un po' sconfitta da quel colloquio con il genitore, che a tratti le era parso più un amante geloso e respinto che non un padre felice di vedere la figlia appagata e innamorata, Lucrecia fece una breve reverenza e, appena prima di uscire, soggiunse: “Tutto quello che ho fatto nella mia vita, padre, l'ho fatto solo per voi.”

“Lo so, lo so...” ribatté stancamente Alessandro VI, una mano a sorreggergli il capo, mentre si abbandonava con i gomiti sulla scrivania e fissava la figlia con espressione neutra.

Uscendo, la Borja si imbatté nel Cardinale Raffaele Sansoni Riario che, dopo averla salutata con un ampio inchino, andò subito dal papa.

“Si può sapere che volete ancora da me?!” lo attaccò subito il Santo Padre: “Ho ceduto alle vostre richieste e ho mandato i documenti a vostra cugina! Ora lasciatemi in pace!”

Raffaele, che era andato solo per ringraziare una volta di più il Borja, si ammutolì e, abbassando la testa, mormorò una scusa e fece per andarsene.

Tuttavia, appena prima che il porporato uscisse, Rodrigo si tolse la soddisfazione di dire: “Dopo quel Cesare, anche tutti gli altri Riario dovranno andarsene, uno dopo l'altro.”

“Come, scusate..?” chiese il Cardinale, spalancando gli occhi, convinto di aver sentito male.

“Dico solo che le vie del Signore sono infinite.” rispose Alessandro VI, con un sorriso serafico che a Raffaele ricordò moltissimo il giovane Borja, quello che, sotto i cannoni puntati da Caterina arroccata a Castel Sant'Angelo, aveva convinto l'intero Vaticano a non cedere alle sue minacce e a costringerla alla resa.

 

Seguendo il consiglio che le era stato dato da alcuni esperti in Diritto, Caterina aveva scritto una lettera al cognato Lorenzo, accettando in modo formale la tutela del figlio, richiedendo in modo insistente la propria parte di eredità e l'assicurazione che nessuno dei suoi averi sarebbe mai stato portato via con un colpo di mano, ma che sarebbe sempre rimasto ai suoi eredi.

Non era certa che quel messaggio potesse servire a qualcosa, ma le preoccupanti notizie che arrivavano dal fronte – dove l'esercito di parte fiorentina era sempre più spezzettato e più intento a seguire lotte interne che non a combattere contro i veneziani – e quelle giunte d'Oltralpe la stavano portando a cercare soldi ovunque potesse trovarli.

Voleva potenziare la propria difesa, in modo da poter far fronte a qualsiasi battaglia e ritardare il momento della disfatta, nel caso non fosse stato comunque possibile la vittoria. E, se fosse davvero successo il peggio, voleva avere le sostanze necessarie per assicurare ai propri figli un futuro.

Tuttavia, l'assenza di una risposta soddisfacente da parte del Popolano e l'apparente insensibilità di Firenze alle sue richieste di rimettere ordine nell'esercito, la portarono, quel 18 gennaio, a sfogare la propria frustrazione per lettera.

Se avesse potuto avere nelle mani i soldati di Firenze, ne era certa, avrebbe vinto quella guerra nel giro di una settimana. Invece la Signoria stava usando le proprie risorse in modo sconclusionato, se non addirittura controproducente.

E la cosa che, forse, la infastidiva più di ogni altra, non era nemmeno l'atteggiamento ostile del Medici, né le difficoltà che continuava ad avanzare all'idea di farle finalmente avere ciò che le spettava come vedova di Giovanni, ma le insistenze e le pretese continue a cui la sottoponeva la Signoria, per mezzo del suo ambasciatore Pazzi. E quando era lei, avendo una visione d'insieme che evidentemente mancava ai fiorentino, a proporre qualche manovra – come il suo recente suggerimento di levare a forza dei possedimenti al Conte di Sogliano – non le veniva nemmeno data risposta.

Sapeva che se fosse stata un uomo, non si sarebbero permessi di trattarla a quel modo. Tuttavia non poteva pretendere di cambiare la mentalità dell'Umanità da sola. Si sarebbe accontentata di vedersi tenere in considerazione solo per via del suo esercito e delle sue armi, o anche solo del nome che le aveva dato suo padre.

E invece da quelli che avrebbero dovuto essere suoi alleati non le giungevano che ordini perentori e dannosi, tanto per lei quanto per la causa, a cui doveva spesso sottostare, prima di vedersi marciare contro perfino Firenze.

Così, quel giorno, disertando per una volta il cantiere della cittadella – che stava proseguendo a una velocità impressionante – la donna si ritirò nella stanza del figlio Giovannino, portando con sé il necessario per scrivere e, fatta uscire la balia, si mise all'opera.

Il piccolo dormiva beato, dopo aver mangiato un po', e così la Contessa ebbe il modo di ragionare un po', prima di decidersi a esporre in modo chiaro quello che pensava a Francesco Fortunati.

Forse non era l'interlocutore giusto, ma trovava che quell'uomo avesse le sue stesse vedute in molti campi e sperava, scrivendo a lui, di essere finalmente capita. Se Giovanni fosse stato ancora vivo, sarebbe stato lui il suo confidente, ma mancando lui, alla rocca non c'era nessuno con cui confrontarsi davvero su quei temi.

Per prima cosa, nella lettera alluse al mancato assegnamento di Alfonso Strozzi, uomo degno di rispetto e gran guerriero, che Firenze le aveva promesso, salvo poi negarglielo subito il giorno appresso. Poi si lasciò andare a una considerazione personale, dicendo che non si doveva pensare per nessun motivo che lei fosse disposta ancora a ubbidire, tanto meno a quelle condizioni.

Poi si imbarcò anche a discutere della questione di Achille Tiberti, dicendo che, se non fosse stato per l'abnegazione cieca che quell'uomo nutriva per lei malgrado tutto, il trattamento che Firenze aveva riservato al cesenate sarebbe stato più che sufficiente a farlo scappare.

Dichiarando di sentirsi circondata dai nemici perfino in casa propria, si rivolse a Fortunati in modo ancora più accurato, pregandolo di rivolgersi anche lui a Lorenzo Medici, cercando di far leva su di lui per convincere la Signoria a vederla finalmente come un'alleata e non come una schiava da usare a piacimento e poi bastonare.

'Fatime la excusatione mia cum el Magifìco Laurentio, perchè io non posso più lungamente supportare questi modi poco amorevoli : per lui sum sempre per exponere la facultate, Stati et fieli proprii. Scio non voria postponere lo interesse nostro al com-modo de qualunche altro: né per fare beneficio a la Cita, minare noi. Tutti li nostri soldati sonno stati pagati a peso doro et sino a uno minimo carato. A noi per essere comparsi pegio in ordine de li altri, et per havere facto manco per la conservatione de le cose nostre, è stato interrupto lo assignamento ce fu dato de la Prestanza, né se fa pensiero de satisfarne. Et forse le passione particulare hanno alcuni verso il Mag. Laurentio noceno a le expeditioni nostre. Trovaranno chi li farà meglio che noi, et che li sera più al proposito, et noi ne viviremo più quietamente et non mecteremo le cose nostre in periculo: che multo meglio è a noi starcene a videre, che spendere, immo zettare il nostro et mettere li Stati in ruina.' scrisse, senza quasi mai staccare la punta della penna dal foglio.

Nel sonno, Giovannino fece qualche versetto un po' insofferente e così la madre si alzò un momento, per controllarlo. Vedendolo tornare tranquillo, gli passò lentamente la mano sulla fronte e poi, appena si rese conto di quanto addormentato ricordasse suo padre, tornò subito alla lettera per il piovano di Cascina.

Sapeva che si stava dilungando molto, nella sua lamentela. Molto più di quanto era solita fare, ma voleva che fosse chiaro che stava raggiungendo il limite.

La conoscevano per i suoi silenzi e per i suoi scatti di rabbia. Ebbene, era il caso che si sapesse che, quando si sentiva presa per i fondelli, anche lei sapeva lanciarsi in lunghi discorsi dai toni pacati, ma decisi.

'Et tenite per certo che questa non saranno zancie, né le pigliate per parole: perchè mia natura non è de usarne molte, ma ne vederite li efifecti: et cosi apertamente dirite al Mag. Laurentio aciò per alcuno tempo non se possa dolere che non glielo habbia facto intendere. Et voi non supersederite più là, ma veneritevene subito, perchè i' ho bisogno de vui qua per alcune altre mie cose che importano.'

Non era stata la sua prima idea, quella di mandare Fortunati da suo cognato, ma, più ci pensava, più si rendeva conto che fosse l'unica vera via da percorrere. Forse, parlare con uomo, per di più molto religioso e di cultura, avrebbe potuto avere sul Medici un effetto diverso.

'De li tremillia Ducati, si li haveriti, che non credo, sapite l'ordine ve ho dato. Sollecitate el vostro ritorno sencia indugiare più, che ve expecto cum desiderio, né voglio restiate più là, perchè non è sencia nostro scorno: et non expectiate che ne facia altra replicatione. Bene valete.' concluse, appoggiando finalmente la penna e facendo un sospiro un po' teso.

Voleva rileggerla, per assicurarsi di essere stata sufficiente ferma, senza suonare eccessivamente disperata, ma dopo la prima riga, sentì la porta aprirsi alle sue spalle.

“Non volevo disturbarvi...” sussurrò Bianca, accennando ad andarsene.

“Resta.” la fermò la Sforza: “Anzi, ti leggo questa lettera. Voglio sentire cosa ne pensi.”

La ragazza, volendo approfittare come ogni volta che le era possibile, di quel momento con la madre, annuì subito e si sedette sulla poltrona, in attesa.

Quel giorno era abbastanza stanca e demotivata. Da quando Cesare era partito, Ottaviano era più intrattabile del solito. Anche se la presenza del fratello sembrava irritarlo, negli ultimi tempi, vederlo andar via era stato per lui come un avvertimento. Aveva il terrore che la loro madre lo rimandasse in guerra e così cercava di distrarsi a modo suo.

Giusto quella mattina, per esempio, lui e Bianca avevano litigato perché Ottaviano aveva cercato di infastidire una delle sue amiche della cucina. Per fortuna non c'era riuscito, proprio perché era arrivata nella dispensa la sorella, ma nulla impediva che un episodio simile potesse ripetersi.

Bernardino sembrava un anima in pena. Non trovava da nessuna parte la sua collocazione. Con i suoi otto anni si sentiva troppo piccolo per stare tutto il giorno in mezzo ai soldati, e troppo grande per giocare come gli altri bambini. Bianca aveva cercato inutilmente di trovare un campo comune con lui, ma appena le sembrava di riuscire ad avvicinarlo, lui diceva o faceva qualcosa che le lasciava intendere di non aver avuto successo. Sotto quel punto di vista, pensava la ragazza, Bernardino era identico alla loro madre.

Sforzino e Galeazzo, invece, sembravano aver preso in modo stoico la partenza di Cesare. Anzi, era difficile capire se ne fossero rammaricati o felici. Se il primo non aveva cambiato di una virgola le sue abitudini, anche il secondo lasciava intendere che la sua vita proseguisse normalmente, malgrado tutta la confusione che lo circondava.

E poi c'era Giovannino, così piccolo e innocente da non poter capire che cosa gli stava capitando attorno.

Quando la Contessa cominciò a leggere, però, la Riario cacciò via tutti i suoi pensieri e si mise in ascolto.

Trovò la sua lettera abbastanza preoccupante. Non per come era scritta, dato che la Tigre era stata capace di moderare abbastanza bene i termini, ma per il suo significato.

“Siamo messi davvero così male?” chiese Bianca, accigliandosi.

“Secondo l'Oliva la Francia si muoverà presto a cercare un'alleanza con Firenze. Capisci che vuol dire, per noi?” domandò di rimando la donna.

“Diventeremmo alleati di un nemico di Milano.” rispose la giovane, la gola che si seccava un po'.

“E in tutto questo, Firenze sembra non capire quanto sia in bilico, la nostra alleanza.” proseguì la Sforza, scuotendo il capo: “Pensano davvero che io volterei così facilmente le spalle al mio sangue?”

“Non lo fareste?” chiese Bianca, decisa a capire quale fosse la reale posizione della madre: “Quel che voglio dire è... Messer Giovanni ha ottenuto per tutti noi la cittadinanza fiorentina. Se dovessimo cercare rifugio, Firenze non potrebbe negarcelo. Non facilmente, comunque. Milano, invece... Il Duca in questi anni è sempre stato di difficile interpretazione, nei nostri confronti.”

“Milano è casa mia.” ribatté Caterina, alzando appena un po' la voce.

“Ormai avete passato più anni fuori da Milano, che nel palazzo di vostro padre.” le ricordò Bianca.

Non era sua intenzione scardinare le certezze di sua madre, tanto meno portarla a litigare. Voleva solo aiutarla a decidere e trovava che metterla in discussione potesse essere il metodo più costruttivo.

La Leonessa, a quella costatazione, schiuse le labbra, ma non fece tempo a ribattere perché la sua attenzione, come quella di sua figlia, venne canalizzata su Giovannino.

Il piccolo si era svegliato e stava balbettando qualcosa, allungando le bracciotte, in cerca di qualcuno che lo prendesse in braccio.

Più rapida della madre, la Riario scattò in piedi e andò a recuperare il fratello. La Contessa la guardò rapita, mentre la ragazza sorrideva e sussurrava parole dolci al bambino. Era sicura che Bianca sarebbe stata un'ottima madre. Quando si lasciava andare a quegli atteggiamenti così dolci e avvolgenti, le ricordava moltissimo sua madre Lucrezia, il modo in cui si occupava di lei quando era piccola...

Poi, però, le tornò in mente anche quello che sua madre Lucrezia aveva permesso che le facessero, e così quel briciolo di trasporto per il passato venne subito spazzato via.

“Sapete che ieri ha detto qualche parola?” fece Bianca, sorridendo verso la madre e sollevando un po' Giovannino, quasi stesse mostrando un esemplare di razza a un mercato di conigli: “La balia dice che sono solo versi che fanno i bambini, ma sono sicura che abbia provato a dire il mio nome.”

“Se ha preso da suo padre – commentò Caterina, con un velo di tristezza – è un bambino molto intelligente.”

La Riario sorrise, dando poi un bacio al fratello, prima di lasciarlo sul tappeto. Il piccolo fece ancora qualche suono poco articolato e poi, gattonando, arrivò fino al giocattolo più vicino – il cavaliere di legno ragalatogli da Galeazzo – e si mise a giocare.

“Dovreste scrivere anche al Duca di Milano.” propose Bianca, tornando seria: “Fategli presente che Firenze vi sta mancando di rispetto. E, di conseguenza, sta mancando di rispetto anche lui, in quanto Sforza. Pungetelo sull'orgoglio. Se vi somiglia, abboccherà.”

“E cosa otterremo da lui, se abboccasse?” chiese la Tigre, guardando la figlia sotto una luce un po' nuova.

Sapeva che era una ragazza sveglia, se n'era sempre accorta, ma la sicurezza con cui aveva dato quel consiglio, la mostrava molto più addentro alla questione politica di quanto non lasciasse a vedere.

“Potrebbe farci una proposta migliore di quella fiorentina. Soprattutto adesso che Cesare è a Milano e che la Francia preme per conquistare il Ducato.” rispose Bianca: “Persi per persi, meglio non lasciare nulla di intentato, visto che di Firenze non ci fidiamo.”

Caterina annuì in silenzio e poi si mise subito a scrivere a suo zio. Iniziò la lettera con questioni varie, finendo per lamentarsi dei fiorentini, ma in toni molto più marcati di quanto non si fosse permessa di fare con Fortunati.

Dopo aver sottolineato come le paghe accordate dalla Signoria ai suoi Capitani fossero la metà di quelle che – sapeva per certo – venivano corrisposte a tutti gli altri, aggiunse: 'Ho exborsato circa tria millia ducati deli mej in bisogni suoi de qua; adimandandone la restitu tiene, non me è dato se non parole. Como me habiano scornata in la conducta de messer Achylle in farmelo mandare a Fiorenza, et tractare non luy, ma me da bestia, la Ex. V. lo ha inteso per altre mie. Si lo ho meritato quella il scia. Si pensassino che io non me resentesse serriano in grandissimo errore. Priego la Ex. V. a volerli tenere sollicitati a renderme denarj ho spexo per loro de qua.'

Anche questa volta, con in sottofondo Giovannino che giocava con il suo cavaliere, imbastendo una sorta di dialogo immaginario fatto di sbuffi e monosillabi, la Sforza rilesse il tutto a Bianca per avere il suo parere e quando la figlia si disse soddisfatta del risultato, Caterina firmò e chiuse il messaggio.

“Ah, senti...” fece la donna, mentre si alzava per andare a spedire le due missive: “Castagnino mi ha scritto ancora.”

Il viso di Bianca perse sensibilmente colore, mentre i suoi occhi blu scuro si mettevano a indugiare irrequieti sul fratello più piccolo: “E che vi ha scritto?”

“Vuole che tu vada a Faenza entro la fine di questo mese.” disse la Contessa.

La Riario parve spaventata, più dal tono mesto della madre che dal contenuto – prevedibile – della lettera: “E..?” la incalzò, per capire quale sarebbe stato infine il suo destino.

“E non ti ci mando, lo sai benissimo.” la rassicurò a quel punto la Tigre, andando alla porta: “Te l'ho detto solo affinché tu lo sappia.”

“Quindi resto ufficialmente impegnata con Ottaviano Manfredi?” chiede la ragazza, per essere certa che i piani non fossero cambiati senza che venisse messa al corrente.

Caterina annuì appena e poi soggiunse, mentre già apriva la porta: “Vedrai che in qualche modo riusciremo a risolvere tutto.”

Bianca fece un sorriso stanco e triste e convenne: “Come dite voi, madre.”

 

“Ma non è normale, quel ragazzo – ecco cosa Cesare aveva sentito dire da Ludovico Sforza, mentre ritornava al suo alloggio – passa tutto il suo tempo in chiesa e andrà a tre o quattro Messe al giorno... E se non sta coi preti, è sempre lì a leggere le Scritture!”

L'uomo che era con il Duca – Calco, se il Riario aveva ben capito – aveva ribattuto dicendo che una fervente fede non era certo un difetto da criticare, ma una virtù da imitare. Il Moro, però, era parso di tutt'altro avviso ed era andato avanti a lamentarsene, arrivando anche a dubitare ad alta voce che quel ragazzo potesse essere realmente figlio di sua nipote.

“La Tigre di Forlì, quella belva assetata di sangue e amanti che è Caterina, non può avere partorito un simile chierico!” aveva esclamato, mettendosi poi a ridere.

Cesare aveva preso allora una strada più lunga, ma più solitaria, arrivando nella sua camera senza dover imbattersi in Ludovico.

Il giorno stesso del suo arrivo gli era stato chiaro quanto il Duca fosse rimasto deluso da lui. Dopo averlo salutato con calorosità, il milanese l'aveva osservato un momento, storcendo appena il naso davanti ai suoi abiti mesti e scuri e alla sua tonsura, ma poi aveva cercato di riparare con qualche battuta che, a suo dire, avrebbe rotto il ghiaccio.

“Vi vedo molto magro!” aveva riso il Moro: “Forse mia nipote non vi dà da mangiare?”

“Seguo dei digiuni, come ogni buon cristiano dovrebbe fare.” era stata la risposta, appena sussurrata, di Cesare.

Ludovico era rimasto molto contraddetto da quelle parole, tuttavia aveva ritentato: “Bene, bene, ma qui dovrete mangiare come un re. E se vorrete, ho già fatto cercare per voi qualche bella giovane, così stanotte potrete assaggiare il gusto vero di Milano...”

“Mi spiace, ma non posso accettare una simile proposta. Sono un uomo di Chiesa, e come tale ho fatto voto di castità.” tanto il Riario era stato lapidario – per quanto impreciso, dato che i voti per il momento li aveva presi solo nella sua testa – quando il Duca pareva essersi arrabbiato per la sua indisponenza.

“Strano.” aveva detto, piccatissimo, facendogli intanto strada nel palazzo: “Un giovane di vent'anni come voi dovrebbe...”

“Ne ho diciotto.” l'aveva corretto Cesare e quella era stata la battuta finale del loro dialogo, perché da quel momento lo Sforza, per non perdere le staffe con un ospite che si era giurato di trattare con i quanti di velluto, aveva appioppato il figlio della nipote a Ermes fino all'ora di cena.

Chiusosi in stanza, ripensando ancora al primo incontro con il Duca di Milano, il giovane prese tra le mani il rosario e si perse per quasi una mezz'ora in preghiera, prima di sedersi sul letto e mettersi a fissare l'orizzonte.

Lo zio di sua madre era stato molto accogliente, con lui, da che era arrivato. E anche nei confronti del suo seguito era apparso cordiale e disponibile.

Però Cesare non sopportava l'aspetto mondano della corte di Milano, tanto meno il modo di vivere confuso del Duca. Era lì da pochi giorni, eppure già lo aveva visto in compagnia di svariate donne, senza contare della sontuosità scandalosa dei banchetti che aveva dato in suo onore.

Aveva rifiutato, il più delle volte, lasciando a Pino Numai e agli altri i divertimenti, ma lo infastidiva comunque, vedere tutto quello spreco inutile e offensivo. I preti del Duomo e quelli di Santo Stefano – chiesa in cui si era recato soprattutto in memoria di suo nonno, che sapeva essere morto proprio lì – gli avevano parlato diffusamente della miseria che lambiva i milanesi più poveri e quindi per lui vedere il signore di quella terra ingozzarsi come un maiale, per poi correre a piangere a Santa Maria delle Grazie invocando l'aiuto di sua moglie e non di Dio, era sufficiente a farlo sentire esule tra gli esuli.

Il patto iniziale era quello di rimanere fin dopo Carnevale, ma il Riario cominciava a chiedersi se fosse il caso, o se fosse meglio spostarsi da Milano.

Teodoli gli aveva fatto sapere che in quei giorni sarebbe arrivato al Bosco Tommaso Feo. La sua tenuta non era lontanissima da Milano e, forse, facendo leva sulla reciproca insofferenza che animava Ludovico e lo stesso Cesare, il figlio della Tigre sarebbe riuscito a sganciarsi dal parente, per occuparsi di una questione che gli premeva in modo particolare.

Non voleva intraprendere la via della Chiesa senza aver almeno provato a chiedere ammenda per il passato. Sapeva che nemmeno mille confessioni al papa in persona sarebbero valse come qualche parola con i diretti interessati, e la presenza di Tommaso gli sembrava quasi una mano tesa da Dio per permettergli di mondarsi l'anima, per quanto possibile.

 
   
 
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