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Autore: Adeia Di Elferas    19/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Simone finì di leggere il messaggio che lo ragguagliava sui fatti del fronte e poi si appoggiò contro lo schienale della sedia, le mani giunte davanti al viso e lo sguardo vitreo.

Mettendoli alla fame e incalzandoli, Paolo Vitelli era riuscito a cacciare Bartolomeo d'Alviano dai monti della Verna e Carlo Orsini da Montalone. Si trattava di un ottimo traguardo, perché così facendo i veneziani non solo venivano rallentati, ma non avevano più accesso alla Toscana in modo abbastanza diretto da poter foraggiare il proprio esercito con il grano di Firenze.

Tuttavia, quello che aveva fatto scendere un blocco di ghiaccio nello stomaco di Ridolfi era stato l'inciso che aveva seguito i fatti nudi e crudi.

Si suggeriva, infatti, non senza malignità, che Paolo Vitelli avesse lasciato scappare l'Orsini con troppa facilità, senza tentare in alcun modo di catturarlo.

Se per l'Alviano si diceva che era già stata un'impresa notevole riuscire a costringerlo alla fuga, con il di lui nipote la questione era molto diversa. Pareva che perfino Gaspare Sanseverino si fosse preso la briga di enunciare pubblicamente i suoi sospetti, tacciando il Vitelli di essere a rilento e inspiegabilmente morbido coi veneziani.

Simone fece un respiro profondo, passandosi una mano sulla fronte e trovandola sudata. Era quasi sera, e fuori stava scendendo una nebbia abbastanza fitta. Se fosse nevicato, almeno, quella coltre di umidità sarebbe rimasta al suolo, e invece da un paio di giorni non cadeva nemmeno un fiocco, facendo di Imola una facile preda per quel denso gelo, tanto fitto da penetrare vestiti e ossa.

“Gliela porto io.” sentì la voce di Lucrezia dire, da dietro la porta, e, subito dopo, la donna entrò, portando in mano una lettera.

Lo sguardo della Feo si posò prima sulla scrivania coperta di carte e poi, con maggior preoccupazione, sul volto scuro del marito.

Non si faceva la barba da giorni e anche i capelli erano diventati una selva di nodi. Le intemperie e l'umidità, poi, non avevano fatto altro che peggiorare la situazione e il risultato era che Ridolfi sembrava più un mendicante che non il Governatore di una città importante come Imola.

“Hai ancora addosso la corazzina?” chiese Lucrezia, avvicinandoglisi e posando il messaggio sopra a tutti gli altri.

L'uomo abbassò lo sguardo, rendendosi conto solo in quel momento di non essersi tolto nemmeno il giubbetto di cuoio borchiato, che ricadeva pesante a listelli sulle ginocchia.

Da un po' aveva la tangibile sensazione di essere odiato, e non più solo dai soldati reclutati con la forza, ma anche da tutti i cittadini, donne e bambini compresi. Quando passava per le strade, vedeva benissimo come lo guardavano e non gli sfuggivano certi commenti detti a mezza bocca, che lo accusavano di essere il cagnaccio della Tigre, molto più interessato ad abbaiare ordini e mordere poveri cristiani, piuttosto che curarsi davvero dei bisogni della città.

E così, un po' per eccesso di prudenza e un po' per scaramanzia, si era abituato a girare sempre armato e possibilmente coperto da un po' di ferro.

Aveva anche smesso di andare nei postriboli in cui era ben noto cliente, per paura di poter essere accoltellato mentre era nudo.

“Sono... Sono solo un po' distratto.” si schermì, allungando poi l'occhio verso la nuova lettera, ignorando Lucrezia che, per cercare di tranquillizzarlo, gli accarezzava lentamente la guancia coperta di barba ispida e rossiccia: “E quello?” chiese, afferrando il messaggio.

La Feo gli disse che era appena arrivato da Forlì, ma che non sapeva dirgli di più.

Simone lesse d'un fiato le parole della sua signora, ma, arrivato alla fine, dovette ricominciare da capo. Più lo rileggeva, più non capiva se quello era un testo che portava con sé una punizione o una promozione.

Lucrezia, in silenzio, si era messa a leggiucchiare da sopra la sua spalla e, quando capì che la Sforza aveva deciso di richiamare a Forlì Simone per farne il nuovo Governatore cittadino, lasciando Imola a un certo Corradini, le si gelò il sangue nelle vene.

“Rifiuta.” gli disse subito, fredda, allontanandosi di un paio di passi, come se la lettera stessa potesse veicolare chissà che cataclisma.

“Come posso rifiutare? È un ordine!” ribatté Ridolfi, mettendosi poi una mano davanti alle labbra, senza capire l'agitazione della moglie, ma lasciandosene comunque contagiare.

“Inventati una storia... Dille... Dille che devi aiutarmi con i nostri affari e che ti dimetti da Governatore di Imola e quindi non puoi accettare nemmeno di essere Governatore di Forlì.” fu l'inconsistente suggerimento della Feo.

Simone si morse le nocche della mano e poi, alzandosi di scatto, decretò: “Devo accettare. Andrò a Forlì come mi è stato scritto di fare. Se tu non mi vorrai seguire...”

Lasciando a metà la frase, le dedicò un lungo sguardo. Lucrezia avrebbe tanto voluto dirgli che lo avrebbe seguito ovunque. In quel momento, però, lo smarrimento negli occhi del marito era tanto profondo da renderlo un vero estraneo per lei. Ne ebbe paura.

Così, rimanendo dov'era, la donna disse solo: “Non posso lasciare i nostri campi senza una guida, lo sai benissimo anche tu. Soprattutto adesso che siamo in guerra.”

Il Governatore si sforzò di sorridere, ma riuscì a mala pena a stirare un po' le labbra, mentre ribatteva, andando a passo svelto all'uscio: “Hai ancora qualche giorno per pensarci. Se vorrai seguirmi, ne sarò felice. Se non lo vorrai fare, allora sappi che non abbiamo altro a che spartire. E stanotte voglio dormire da solo. Ho molte cose a cui pensare e tanti dettagli da decidere, prima della partenza...”

Lucrezia lo lasciò andare, e solo quando rimase da sola nello studio, osò mettersi al posto di Simone alla scrivania. Prese il messaggio della Sforza e lo rilesse con calma. Era certa che c'entrasse Tommaso, in quella faccenda. Non sapeva dire né in che modo né perché, ma era sicura che fosse un pericolo e basta.

Giunse le mani dinnanzi a sé, come in preghiera, e cercò di capire cosa dovesse fare. Doveva seguire suo marito, anche con il rischio di finire in mezzo a una qualche vendetta privata della Sforza e magari rimetterci la vita, o doveva ritirarsi in campagna e fare quello che aveva sempre fatto da che era nata, ovvero cavarsela usando le proprie forze e la propria astuzia?

Asciugandosi una lacrima con la manica dell'abito di lana cotta, la Feo giunse alle sue conclusioni e, con la morte nel cuore – perché entrambe le soluzioni avevano dei risvolti negativi, per lei – si alzò e uscì dallo studio. Attraversò lentamente il palazzo, indugiando su alcuni dei punti che amava di più, ben sapendo che, in un modo o nell'altro, nel giro di pochi giorni avrebbe dovuto lasciare quella meravigliosa dimora per sempre, che le piacesse o meno.

Passò davanti alla camera di suo marito. Fu tentata di bussare e parlargli subito, per dirgli quello che aveva deciso di fare. Poi, con la mano già a mezz'aria, desistette e passò oltre.

 

“No, è inutile che me lo chiedi. Ho deciso così e basta. Non dovevi cercare di uccidermi, se ci tenevi così tanto a dormire accanto a me.” disse Caterina, sollevando una mano per allontanare Manfredi, che, sornione, aveva cercato di accoccolarsi accanto a lei, sperando che, cullata dal suo calore, gli permettesse di restare, almeno per quella notte.

La seconda metà di gennaio si stava dimostrando di una rigidità impressionante e bastava uscire dal raggio del camino per sentirsi gelare fin dentro l'anima. Cosa c'era di più bello, si diceva Ottaviano, se non restare abbracciati e addormentarsi così?

“Come vuoi, Tigre...” soffiò rimettendosi a sedere sul letto, la pelle ancora umida di sudore che a contatto con l'aria accapponava.

La donna si rigirò sotto le coperte, che lasciavano scoperte solo le spalle, e si mise a guardarlo, mentre si rivestiva. Il suo fisico giovane e asciutto sembrava chiamarla a sé, ma sapeva di non dover cedere. Da quando lui aveva cercato di pugnarla nel sonno, la Contessa aveva decretato che mai più l'avrebbe lasciato riposare assieme a lei. Sapeva che, se avesse voluto, avrebbe potuto provare ad attentare alla sua vita in mille altri modi, ma intanto voleva eliminare quell'eventualità.

Il faentino si era chinato a raccogliere il camicione bianco e, mentre lo infilava, chiese: “Tornerai mai a fidarti di me?”

La Leonessa guardò altrove e cambiò argomento: “Ho scritto a mio zio, per pregarlo di aiutarmi ad accelerare le pratiche per dichiararti legittimo signore di Faenza. Ho spiegato chiaramente quanto sarebbe importante, anche per Milano, che la tua città non cadesse definitivamente in mano dei veneziani...” sospirò e si mise prona, il viso tanto affondato nel cuscino che Ottaviano faticò a capire la seconda parte del discorso: “Ma non so quanto mi ascolterà. In fondo è anche lui un usurpatore e quindi potrebbe trovare indelicata la mia proposta di ritenere illegittimo l'erede di Galeotto.”

Manfredi avrebbe voluto mettersi a discutere della questione in modo più approfondito, ma era stanco. Aveva passato una giornata infernale, un po' a tirare di spada e un po' ad arrovellarsi assieme alla Sforza sulle sorti della guerra e ora, dopo aver saziato un'amante vorace come la Tigre, voleva solo dormire.

“Ne parliamo domani, va bene?” soffiò, infilandosi anche il giubbone e le scarpe.

Caterina annuì, sollevando il volto dal guanciale e poi gli disse: “Passa una buona notte.”

“Quello che ne resta...” scherzò lui, alludendo al fatto che, ormai, l'alba non fosse più tanto lontana.

L'uomo si gettò ancora un momento sul letto, stringendola a sé e baciandola, quasi tentato di riprendere subito a combattere sotto le lenzuola, ma poi, quando lei gli diede un secondo bacio, più leggero e veloce, sulla fronte, capì che era davvero il momento di salutarsi.

Uscito dalla stanza, fece un paio di passi nel corridoio, ma si fermò quando nella penombra vide il profilo di Bianca Riario. Ormai la conosceva bene. E l'avrebbe riconosciuta anche con meno luce, dato che era l'unica donna, in quella rocca, a vestire tanto bene, a parte la Contessa. L'unica, insomma, che non indossasse abiti da serva.

Non era sola. Stava discutendo a bassa voce con quello che sembrava un soldato e, quando i due si accorsero di Ottaviano, la ragazza fece un cenno al suo interlocutore, e, dandogli visibilmente un bacio sulle labbra, lo fece correre via.

“Nessuno dorme mai, qui a Ravaldino?” domandò il faentino, a voce bassa, per paura che la Tigre potesse in qualche modo sentirlo e insospettirsi.

“Non siete stato voi a dire che non vi interessa di sapermi in compagnia di altri uomini?” ribatté tagliente Bianca, restando dov'era.

Per impedirle di parlare a voce tanto alta, Manfredi le si avvicinò e scherzò: “Quello era sì e no un ragazzo, mica un uomo.”

La Riario fece uno sbuffo quasi divertito. Quelle parole le avevano riportato alla mente i consigli di sua madre, ma ovviamente Ottaviano non poteva saperlo.

“Ridete, ridete pure di me...” fece l'uomo, incrociando le braccia sul petto: “Ma sappiate che presto sarò il nuovo signore di Faenza, com'era mio diritto di nascita, e allora nessuno oserà più nemmeno sorridere di me.”

Bianca non disse nulla, facendosi sparire l'espressione ironica che le aveva acceso il viso. Alla luce tremula delle torce, il bel viso di Ottaviano era bianco e vermiglio, incorniciato dai lunghi capelli biondi e fini. I suoi occhietti azzurri riflettevano le fiamme come due specchi d'acqua e il giubbone lasciato un po' aperto lasciava intravedere le prime cicatrici del suo torace.

La ragazza immaginava che il faentino fosse appena uscito dalla stanza di sua madre. Non voleva nemmeno pensarci, eppure quel dettaglio le dava uno strano brivido.

“Io vi capisco più di quanto non crediate.” le disse, usando un tono dimesso che la confuse: “Non avere più un padre dal nome importante, ma dall'indole vile, e avere solo il coraggio della propria madre come protezione. È successo anche a me.”

Siccome la Riario si era fatta più attenta, Manfredi, le difese abbassate forse per il sonno o forse perché, dopo tanto tempo, in quella rocca stava ritrovando una parvenza di casa, proseguì: “Io avevo cinque anni, quando mio padre Carlo ha creduto di essere malato, prossimo alla morte, anzi.”

Bianca ascoltava senza fiatare, incuriosita dall'Ottaviano che aveva davanti, così diverso dal tracotante ventiseienne che di solito si aggirava per i corridoi di Ravaldino.

“L'avevano ingannato, su questo non ci sono dubbi. Ma lui era un debole si è lasciato convincere subito a lasciare Faenza, abbandonando me come suo erede e mia madre come mia reggente.” le parole scivolavano fuori dalle labbra dell'uomo come se non potesse arginarle: “Non è stato un periodo facile, ma almeno ero a casa mia, tra la mia gente. Poi, però, quando avevo dodici anni, mio padre, che si era stabilito a Rimini, convinto che l'aria di mare avrebbe alleggerito le sue pene, è morto davvero.”

La risata che seguì, dolente e quasi cattiva, fece rabbrividire Bianca, ma il faentino non se ne accorse e continuò il suo racconto.

“Nel frattempo...” Ottaviano fece un breve sbuffo e poi continuò: “Mia madre, Costanza da Varano, era riuscita a ottenere da papa Sisto IV, vostro parente, l'assicurazione che la successione mi avrebbe visto unico erede. E invece...”

La Riario attese che l'uomo che aveva davanti riuscisse a calmare la voce, che si era fatta incerta, e a sciogliere il nodo che gli chiudeva la gola

Sbattendo un paio di volte le palpebre, per asciugare le lacrime che rischiavano di affacciarsi, come gli capitava ogni volta che ripensava a quello spaccato della sua vita passata, il faentino tossicchiò e concluse: “E invece Galeotto aveva fatto bene i suoi calcoli e ha sollevato il popolo contro me e mia madre, entrando in città al grido di Gallo, Gallo. E da lì è cominciata la mia vita da esule.”

“E vostra madre?” chiese Bianca.

“Lei... Ha cercato di fare quello che poteva, ma... Insomma, una donna da sola...” fece lui, sollevando un po' una spalla.

“Anche mia madre era da sola, quando hanno assassinato mio padre, eppure ha conservato il titolo a mio fratello fino a oggi.” ribatté la ragazza, forse con troppa durezza.

Gli occhietti azzurri di Manfredi si posarono sui suoi, di una tonalità di blu molto più scura, e, con un mezzo sorriso, massaggiandosi il collo, l'uomo constatò: “Infatti l'ammiro molto per questo e per la sua forza. Sono tra i motivi per cui la amo così tanto.”

Bianca sentì solo con un orecchio quello che Ottaviano le stava dicendo, perché nello scostarsi i capelli da collo, il faentino aveva messo in mostra il segno molto chiaro di un morso e la giovane immaginava molto bene come se lo fosse procurato.

Arrossendo, la Riario distolse subito lo sguardo e poi chiese: “E tutte queste cose sul vostro passato e su quanto amiate mia madre, a lei le avete dette?”

Manfredi scosse il capo e soggiunse: “No, ha già i suoi problemi. I miei non le servirebbero a nulla.”

“E allora perché ne avete parlato con me?” domandò Bianca, che cominciava a trovare inappropriata quella conversazione.

Era stanca. Era rimasta fino a tardi nelle cucine a chiacchierare e, quando si era resa conto dell'ora, era risalita, incontrando lungo la strada un giovane soldato con cui aveva ballato all'ultima festa. Si erano messi a parlare del più e del meno e alla fine, trovandolo più che passabile, la giovane si era sistemata con lui in un'alcova del corridoio. Si erano baciati e sfiorati e nulla di più. Le parole di sua madre avevano avuto grande presa su di lei e così aveva provato un piacere un po' crudele, nel deluderlo proprio quando lui avrebbe voluto di più.

Quando Manfredi l'aveva vista, era proprio intenta a negarsi, e, per fortuna, l'arrivo del faentino aveva bruscamente spento le lamentele del soldato, permettendole di sganciarsi senza troppi problemi.

“Noi due saremo marito e moglie.” rispose Ottaviano, allargando le braccia: “Anche se non condivideremo il letto, vorrei poter dire che non siamo due perfetti estranei. Conoscerci un po' non farà che facilitare le cose, non credete?”

Bianca annuì appena e poi, mentre l'uomo le passava accanto, sfiorandola appena, augurandole una buona notte, avvertì un nuovo rossore prenderla, ma questa volta non aveva nulla a che fare con l'immagine di Manfredi e della Tigre assieme.

 

“Ma questi francesi sono dei barbari.” provò a dire Troilo, incrociando le braccia sul petto e fissando Gian Giacomo da Trivulzio.

Questi, sbuffando, allungò le gambe e si slacciò un po' i nodi del farsetto. L'incontro con l'ambasciatore di Milano era andato per le lunghe e l'uomo si sentiva terribilmente a disagio, ad Asti. L'incontro a Torino con il Duca di Savoia era stato, a suo dire, una buffonata, e quello con l'emissario del Moro non era stato molto diverso.

“Rivolete le vostre terre?” chiese, ricambiando lo sguardo del De Rossi con una certa aggressività.

“Null'altro.” confermò il trentaseienne, annuendo.

Gian Giacomo fece un suono gutturale e poi, prendendo il calice di vino che aveva messo sul tavolino accanto a sé, lo sollevò e disse: “E allora potete solo avere fiducia in questi barbari francesi, come li chiamate voi.”

“Però, anche mio padre...” provò a dire Troilo, passandosi una mano sulla barba chiara, folta e curata che copriva il viso lungo.

“Ascoltatemi.” fece Trivulzio, alzandosi e mettendosi davanti al suo alleato, viso a viso: “Ho vent'anni più di voi e so meglio di voi come va il mondo. Adesso le vostre terre sono una patetica riserva di caccia per Ludovico Sforza, o sbaglio?”

De Rossi scosse il capo e ammise, sentendo l'orgoglio ferito nel profondo, come ogni volta in cui qualcuno gli ricordava la realtà: “Lo sono.”

“E allora se volete riprendervele, dovete accettare la mano tesa di re Luigi.” tagliò corto Gian Giacomo, vuotando il calice e di vino e andando alla finestra: “Lui si prenderà Milano e voi riavrete le vostre terre nel parmense.”

Asti, oltre ai vetri non lisci della finestra sembrava immersa in una bolla informe di grigiore. La sola idea di dover presto lasciare quel palazzo faceva entrare il gelo nelle ossa di Trivulzio, ma l'alternativa, cioè restare ospiti a cena dell'ambasciatore del Moro, era ai suoi occhi ancora peggio.

“Avanti, adesso andiamo, che i nostri cavalli ci aspettano.” disse il condottiero, sbuffando: “E se avete ancora dubbi sulla reale natura degli Sforza...”

Troilo lo seguì alla porta, gli occhi allungati che indugiavano sul salone in cui lui e l'amico avevano appena passato una pessima mezz'ora a ripercorrere le loro ultime fallimentari ambascerie: “Se ne ho..?”

“Ecco, se le avete ricordatevi che il Duca, uomo integerrimo, aveva mandato Giovan Francesco Sanseverino da me per farmi credere che volesse sposare una delle mie figlie.” rispose Gian Giacomo, con una mezza risata: “Se crede ancora di poter aggiustare tutto con un matrimonio, vuol proprio dire che la morte dell'Este gli ha davvero dato alla testa, come dicono tutti.”

Il De Rossi sollevò le sopracciglia. Da un lato, invece, capiva il Moro. Una guerra, in quel momento, faceva comodo solo al re di Francia, e forse nemmeno a lui. Una via pacifica sarebbe stata l'ideale. A lui bastava riprendere San Secondo e le sue pertinenze. Se solo l'emissario del Duca l'avesse ascoltato, quando aveva provato a parlarne...

“Piuttosto – fece Gian Giacomo, mentre raggiungevano l'uscita del palazzo – voi non pensate a sposarvi? Direi che l'età l'avete passata da un pezzo. Un uomo, senza una moglie, può divertirsi, questo ve lo concedo. Ma le terre che rivolete così ardentemente, a chi le lascerete, se siete senza sposa e senza figli?”

“Prima la terra.” furono le parole lapidarie di Troilo, che si stava già coprendo con il mantello di lana cruda, mentre raggiungevano le fredde strade di Asti: “Poi tutto il resto.”

“Come credete voi.” lasciò perdere Trivulzio, montando in sella: “Ma almeno qualche figlio in giro, fossi in voi, lo farei. Non si può mai sapere.”

De Rossi fece un minuscolo sorriso, salendo sul suo baio e poi borbottò, senza farsi sentire: “Non siamo tutti uguali.”

 
   
 
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