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Autore: crazy lion    23/10/2018    5 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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103. DAVVERO TROPPO
 
Quella notte Mackenzie non riuscì a dormire bene come invece aveva sperato. Si rigirava nel letto alla ricerca di una posizione comoda che non trovava mai. Si alzò in piedi e si mosse nel buio, andando piano per non rischiare di urtare qualcosa e farsi male. Quando toccò la scrivania con il piede si chinò, cercò lo zaino e, una volta trovato, lo aprì. Tirò fuori il foglio che la mamma aveva scritto recentemente e che lei avrebbe dovuto consegnare alla maestra. Rilesse ogni singola parola con attenzione e più volte, mentre le mani le tremavano e le sudavano. Dalla reazione della sua insegnante e da ciò che sarebbe successo dopo dipendeva il suo futuro in quella scuola, che avrebbe potuto essere più roseo oppure rimanere un incubo, o magari peggiorare ancora.
“Al peggio non c’è mai fine, giusto?” si chiese con un sospiro.
Non avrebbe voluto pensare subito in negativo, ma doveva comunque ammettere che non farlo era difficile.
Sbuffò e si rimise a letto. Fu allora che scoprì che c’era un fagottino peloso sopra le coperte: Danny. Doveva essere arrivato finché lei era in piedi, silenzioso come tutti i gatti. Mackenzie sorrise e lo accarezzò. Adorava il suo pelo morbido. Si abbassò fino a toccarlo con il viso, inspirando quel tipico profumo di gatto che non avrebbe saputo descrivere con altre parole oltre a “meraviglioso”. Danny miagolò appena, forse infastidito dal fatto che la bambina stesse disturbando il suo sonno, poi allungò una zampa fino a toccarle il braccio. Mac decise di lasciarlo in pace. Si rimise sotto le coperte, trasse un profondo respiro e grazie alla presenza del micio si rilassò, addormentandosi poco dopo.
Il mattino seguente, dopo aver controllato e ricontrollato l’orario scolastico, Mac sospirò. Aveva la Rivers dopo la ricreazione, alla quarta ora.
E dovrei aspettare tutto questo tempo?
Sbuffò ma decise di lasciar perdere e non pensarci, tanto non è che facendolo sarebbe cambiato qualcosa. Avrebbe potuto andare a cercarla per darle prima quella comunicazione, ma non aveva senso.
“Buona giornata!” esclamò Demi dandole un bacio.
Lei sorrise, ricambiò  e scese dall’auto raggiungendo Elizabeth che la stava aspettando.
“Ciao!”
L’amica le si gettò al collo.
Ehi, che accoglienza!
L’abbraccio di Lizzie l’aveva quasi stritolata ma alla bambina non importava, era bello avere qualcuno che le facesse sentire un po’ di calore anche in quel posto.
“Allora, che hai fatto nel weekend?”
Sono stata dai nonni, tu?
“Sono andata in montagna con i miei genitori e abbiamo raccolto i funghi. Se ne trovano ancora, anche se non moltissimi. I miei sono esperti, sanno bene quali raccogliere e quali no.”
Oh, bello! E poi su cosa li mettete?
“Di solito facciamo dei risotti, anche se mia mamma prepara una zuppa di porcini che è letteralmente la fine del mondo.”
Vorrei assaggiarla, una volta.
“Inviterò tutti voi a cena. Sono sicura che mamma e papà ne sarebbero felici.”
Passarono il resto del tempo a chiacchierare sotto un albero isolate dagli altri bambini che, intanto, giocavano o si erano divisi in gruppi per chiacchierare. Loro no. Venivano sempre escluse da tutto.
 
 
 
“Ciao, Dem!” gridò Mary dalla sua auto.
“Ehi, Ry!”
Era il nomignolo con il quale l’aveva chiamata da quando si erano conosciute meglio in clinica e Mary sorrise nell’udirlo. Demi si mise accanto alla sua auto e l’altra abbassò ancora di più il finestrino.
“Come stai, Demetria?”
“Un po’ in ansia oggi, ma ho passato un bellissimo weekend. Peccato che adesso mi senta completamente diversa.”
“Un weekend bellissimo eh?” le domandò e le sorrise.
Demi arrossì.
“Con il tuo fidanzato?”
“Sì, siamo andati al lago e siamo stati da soli per un fine settimana. Le bambine erano da mia mamma.”
“Ah, okay. E voi avete…”
Dio, ma perché ne stavano parlando proprio in quel momento? Lì? E ad alta voce?
“Ne parleremo un’altra volta, non mi sembra il luogo adatto.”
“Hai ragione, scusa. Non volevo… Dio, ti ho messa in imbarazzo, che stupida!”
Mary diventò rossa come un pomodoro e Demi scoppiò a ridere.
“No, davvero, non era mia intenzione.”
“Non preoccuparti, tranquilla. Ascolta, ho la bambina in macchina e devo accompagnarla all’asilo ma inizio a lavorare alle 10:00 stamattina. Se hai tempo potremmo stare insieme.”
“Io lavoro il pomeriggio, quindi va benissimo. Dove ci vediamo?”
“Allo Starbucks vicino a casa mia.”
“Uhm, scusa ma no. Costa tutto troppo.”
Demi non aveva problemi di soldi, ma Mary non era famosa e non avrebbe speso quindici dollari per un bicchiere di caffè.
“Infatti offro io.”
“Eh? No!” protestò. “Demi, possiamo…”
“Senti,” le disse prendendole la mano, “lo so perché non ci vuoi andare: per i soldi. C’è stato un periodo, dopo che mamma ha lasciato papà, nel quale noi non eravamo di certo ricche, anzi. E quando Eddie è arrivato nella nostra vita e poi siamo andate a vivere con lui ci siamo comprate vestiti e scarpe nuove, siamo andate dal parrucchiere e ho bevuto la mia tazza di latte al cioccolato la mattina dopo parecchio tempo in cui non potevo permettermi nemmeno quello. Ed è stato bellissimo! Riavere quelle cose così semplici come un paio di pantaloni nuovi o un po’ di cioccolata mi sembrava un Paradiso!” continuò, dando enfasi all’ultima parola. “Quindi, quello che voglio dire non è che tu sei povera o cose simili. Semplicemente so che non te lo puoi permettere e capisco perché. Ma ci siamo ritrovate dopo tanto tempo. Lasciami fare questo per te, fatti viziare per un po’.”
La ragazza rimase colpita dal discorso dell’amica. Era molto ricca ma dava ancora valore alle cose semplici e piccole. E soprattutto sapeva che non erano i soldi a contare davvero. O meglio sì, ma solo fino ad un certo punto.
“Dovrei essere io a offrirti qualcosa per averti fatta soffrire così tanti anni e non sarebbe ancora abbastanza” commentò Mary.
“Dai, non dirlo. Sai che non è quello l’importante, per me.”
Detto questo si diedero appuntamento, poi Demi risalì in macchina dove Hope la stava aspettando. Era tranquilla e comunque la mamma l’aveva tenuta d’occhio tutto il tempo.
“Chi era?” chiese la bambina con la sua vocina dolce.
“Mary. È venuta a trovarci la settimana scorsa, ma forse non te la ricordi.”
Hope non rispose, non l’aveva guardata bene in quel momento ma il nome le suonava familiare.
“Verrà a trovarci ancora. La sua bambina è amica di Mac, sai?”
La piccola sorrise nel sentire il nome della sorella.
Lasciarla all’asilo era sempre un po’ dura per Demi, ma ormai ci si stava abituando. Dopo averla accompagnata dentro le fece togliere la giacca leggera che indossava e la appese nell’armadietto con il suo nome, poi la salutò con baci e abbracci che Hope ricambiò e infine la lasciò ad una maestra, non prima di averla salutata dicendole:
“Torno presto.”
Una volta fuori vide che la bimba si era avvicinata ad una vetrata dell’edificio e la salutava con la manina. Lei ricambiò e le sorrise, poi risalì in
macchina.
Quando arrivò da Starbucks, Mary era già lì seduta ad un tavolino fuori.
“Sono in ritardo?” chiese Demetria vergognandosi. “Ho fatto il prima possibile.”
“No tranquilla, anch’io sono appena arrivata. Ho pensato di stare fuori perché mi sembra più tranquillo, non c’è quasi nessuno. Dentro c’è una confusione!”
Dal rumore delle voci la ragazza si disse che sì, l’amica aveva ragione. Lì fuori c’erano solo due coppie di anziani e una di ragazzi giovani, tutti vestiti con abiti firmati notò mentre li osservava. C’erano persone agiate che volevano dimostrare a tutti i costi che erano ricche. Lei non li conosceva e non voleva di certo dire di essere migliore di loro, ma non era così. Certo aveva qualche abito di marca e un paio di borse costose, ma li portava solo in alcune occasioni speciali o a delle interviste, benché anche in tali casi amasse vestirsi in modo semplice. Un paio di jeans e una maglia andavano benissimo.
Guardò Mary che stava arrossendo.
“Tutto bene?”
“Mi sento fuori posto, qui. Guardali” disse indicando gli altri.
“Lasciali perdere” le sussurrò Demi. “Tu sei con me e basta. Anch’io non sono vestita elegantemente, vedi? Non sono la cantante, ora, sono solo Demi. Sono una mamma, una fidanzata e un’amica. Sei bellissima, Mary e non hai nulla di cui vergognarti.”
Le due si abbracciarono, non preoccupandosi quando una signora le guardò schifata probabilmente pensando che fossero lesbiche e poi si strinsero forte le mani.
“Grazie.”
Mary sorrise.
Demi sapeva sempre come farla stare meglio.
“Figurati! Vado ad ordinare.”
Stava per alzarsi quando un cameriere uscì.
“Buongiorno” disse sorridendo. “Cosa posso portarvi?”
“Un frappuccino e un muffin al cioccolato, per favore” rispose Demi che non aveva nemmeno avuto bisogno di guardare il menu.
“Mezzo litro o un litro?”
“Mezzo.”
La ragazza si domandò chi riuscisse a berne uno intero.
“Vuole che aggiunga del cacao?”
“Perché no?”
Mary diede un’ultima occhiata e poi rispose:
“Un caramel macchiato, grazie.”
“Arrivano immediatamente. Mi dite i vostri nomi?”
Subito dopo il cameriere se ne andò.
Si trattava di due bevande tipiche, la prima fatta con caffè, latte, schiuma e ghiaccio tritato e la seconda con caffè e sciroppo alla vaniglia e al caramello.
“Non mangi?”
“Penso che mi riempirà già abbastanza.”
Quando arrivarono i loro ordini le ragazze ringraziarono di nuovo e poi iniziarono a bere e a mangiare. Era tutto buonissimo. Il muffin era meraviglioso e il profumo di caffè che si spandeva nell’aria eccezionale.
“È ottimo!” esclamò Mary per rompere il ghiaccio visto che nessuna delle due parlava.
“Già.”
La radio era accesa e la musica di sottofondo si spandeva tutt’intorno creando una bella atmosfera.
“Mary, ascolta!”
C’era una canzone di Colbie Caillat che a Demi piaceva tantissimo. Parlava di una persona che chiede ad una ragazza se si piace e le dice che non deve fare sforzi per riuscirci, che non ha bisogno di provare e che non dovrebbe preoccuparsi di ciò che la gente dice di lei, perché l’importante è quel che lei pensa di se stessa.
Put your make-up on
Get your nails done
Curl your hair
Run the extra mile
Keep it slim so they like you, do they like you?
Get your sexy on
Don't be shy, girl
Take it off
This is what you want to belong, so they like you
Do you like you?
 
You don't have to try so hard
You don't have to, give it all away
You just have to get up, get up, get up, get up
You don't have to change a single thing
You don't have to try, try, try, try
You don't have to try, try, try, try
You don't have to try, try, try, try
You don't have to try
You don't have to try
(…)
Ma alle due piacque soprattutto la parte finale, nella quale la cantante dice alla ragazza che è bella anche senza trucco e con i suoi capelli lisci.
Let your hair down
Take a breath
Look into the mirror, at yourself
Don't you like you?
'Cause I like you
“Questa canzone è per noi, per quelle che siamo state” rifletté Mary. “Per questo me l’hai fatta ascoltare, vero?”
Entrambe avevano le lacrime agli occhi.
“Esatto. Per motivi diversi io e te ci disprezzavamo sempre, pensavamo di non essere mai abbastanza.”
“È vero” sospirò l’altra. “Eppure sarebbe stato così facile piacersi, smetterla di fare sforzi per riuscirci, non danneggiarsi come invece abbiamo fatto…”
“Facile? Forse, ma lo sarebbe stato all’inizio, non dopo. Non quando era già troppo tardi.”
“Sì, non volevo essere superficiale. Scusa.”
“Tranquilla.”
“Eravamo malate, punto e basta. Non hai idea di quante litigate ho fatto con i miei che mi dicevano che avevo un problema e io rispondevo che stavo bene!”
Demi sorrise mesta.
“Anche a me è capitato, con mia mamma e Eddie. Ti capisco.” La sua voce si spezzò e le ci vollero qualche secondo di pausa e un bel respiro profondo prima di poter riprendere. “Sai, da quando ho ascoltato questa canzone per la prima volta ho sempre pensato che forse potrebbe aiutare qualcuno, o quantomeno farlo riflettere. In fondo la musica non può salvare se si ha un problema, ma è in grado di aiutarci a pensare.”
“Hai ragione.”
L’altra si rabbuiò all’improvviso. Come aveva potuto concentrarsi su una cosa del genere quando c’erano cose molto più importanti di cui doveva parlare con l’amica?
“Che cos’hai, Demi? Sembri preoccupata.”
Mary non capiva. Fino a poco tempo prima Demetria era normalissima, emozionata certo ma non sembrava stare male. Ora pareva un automa. Si muoveva ma era come se il suo corpo fosse lì e la mente si trovasse da tutt’altra parte.
“È per Mackenzie. È vittima di bullismo” rispose con un groppo in gola.
Lo sussurrò temendo che orecchie indiscrete avrebbero potuto ascoltarla e magari riferire tutto alla stampa.
“Cosa?” Mary non avrebbe voluto alzare la voce, ma l’aveva fatto solo perché non se l’aspettava. “Quando te l’ha detto?” domandò con dolcezza, allungando una mano per prendere quella dell’amica.
“Venerdì. Ho scritto qualche riga alla Rivers dicendole che la voglio vedere per parlarle.”
“Avresti dovuto andare direttamente dal Preside.”
“Lo so, ma ho preferito farlo sapere prima a lei che ha il maggior numero di ore con loro.”
“Dio, non ci posso credere…” osservò la ragazza con sgomento.
Demi si sentì malissimo perché ora avrebbe dovuto lanciare la bomba. Era giusto, era doveroso.
“Mary?”
“Sì?”
Non sapeva come dire quello che stava per dire, ma si ripeté ancora che doveva. Mac gliel’aveva spiegato la sera precedente, dando più dettagli possibile. La ragazza trasse un profondo respiro e poi iniziò:
“Anche Lizzie…”
ma non fece in tempo a terminare perché Mary lasciò andare le braccia lungo i fianchi e poi li rialzò portandosi le mani al viso.  Lasciò  andare il caramel macchiato e, se Demi non l’avesse afferrato, sarebbe caduto a terra rovesciandosi.
“No! Mio Dio, no! No, no, no, no!” continuava a ripetere la ragazza. “Non è possibile. Non può essere! Ti stai sbagliando, vi state sbagliando!”
Ripeté quella parola per rafforzare il concetto, ma in realtà era solo un disperato tentativo di nascondere a se stessa quella verità che faceva troppo male.
“Tesoro, vorrei tanto che fosse così ma mi dispiace, non ci sono dubbi. Mi fido di Mac, lei non mi avrebbe mai raccontato una bugia a riguardo.”
“Me ne sarei accorta. Me ne sarei dovuta accorgere. Io… ma come…”
“Ry, ascolta, lo so che è difficile. Ci sto passando anche io.”
“Non me ne frega un cazzo che ci stia passando anche tu!” sbottò l’altra. “Tu te ne sei resa conto, io no. Sono una madre orribile.”
Cominciò a piangere e Demi, che aveva già pagato, pensò fosse meglio andare via da lì per parlare in un posto più tranquillo. La fece salire in macchina perché Mary in quel momento non era in grado di guidare e la portò a casa sua. La ragazza non fece altro che piangere per tutto il viaggio.
Una volta arrivate, Demi disse a Mary di accomodarsi sul divano. Le massaggiò le spalle per aiutarla a rilassarsi - era tesa come una corda di violino -, le portò un bicchier d’’’acqua e le si sedette accanto, lasciando che buttasse fuori le sue paure, il proprio dolore, la rabbia e le altre mille emozioni che la stavano travolgendo.
 
 
 
Mary non riusciva ancora a realizzare quel che Demi le aveva appena detto. Elizabeth, la sua bambina, era vittima di bullismo. Com’era potuto accadere? E perché proprio a lei, anzi a loro, che erano due bimbe così dolci e tranquille? Cose del genere non avrebbero dovuto succedere a nessuno, comunque. Ma perché? Che gusto ci trovavano i bulli a prenderle in giro? E come mai lei non si era mai accorta di niente? L’aveva sempre portata a scuola, era andata a prenderla ogni giorno, l’aveva osservata e fino ad allora non aveva mai avuto nemmeno un’avvisaglia! L’unica cosa che sperava era che fosse solo bullismo verbale. “Solo” forse era una parola non necessaria. Le parole fanno più male delle botte. Feriscono in altri modi.
Era grata a Demi per esserle rimasta accanto e averla portata a casa sua. Si stava prendendo cura di lei in un modo molto dolce. Non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza. Provò a rallentare la respirazione e a calmarsi, ma non era facile. Le lacrime non ne volevano sapere di smettere di scendere. Si sentiva come se una montagna di massi le fosse appena caduta addosso. Era il senso di colpa ed era schiacciante.
“C-cosa ti ha raccontato Mackenzie esattamente?” riuscì a dire dopo un silenzio che le era parso interminabile.
Demi iniziò a parlarle delle offese e delle varie prese in giro che riceveva, le disse che accadeva spesso e di quanto successo a scuola pochi giorni prima con James. Aggiunse che si era accorta che qualcosa non andava ma non subito e che alla fine, dopo aver insistito parecchio, era riuscita a farla parlare.
“Ieri sera mi ha spiegato ancora meglio che gli altri bambini isolano lei ed Elizabeth da quando arrivano a scuola fino al momento in cui escono. Non le fanno né giocare, né parlare con loro e nemmeno sedere allo stesso tavolo a mensa. Pensavano che non fosse nulla di grave anche se ci stavano male, ma non si rendevano conto che questo unito alle offese era bullismo vero e proprio. Ho guardato negli occhi mia figlia,” continuò Demi mentre la sua voce si spezzava ancora, “e vi ho letto un grandissimo dolore e una forte disperazione. Ho già scritto un biglietto alla maestra per parlarle, come ti dicevo e poi penso che lei comunicherà tutto  questo al Preside. Mary, dovresti parlarne anche tu con tua figlia e fare lo stesso.”
Almeno, a quanto pareva, Lizzie non veniva offesa ma, in ogni caso, Mary stava malissimo per entrambe. Anche isolare qualcuno può essere considerata una forma di bullismo, se la cosa è continuativa. Guardò Demi e annuì. Avrebbero fatto tutto il possibile per le loro figlie.
“Non possiamo lasciare che tutto ciò passi sotto silenzio e che chi fa loro del male rimanga impunito” disse Mary. “I bambini devono capire che stanno sbagliando.”
“Quando io sono stata vittima di bullismo mi sono ritirata da scuola perché i bulli mi avevano portata allo  stremo. Ero distrutta e nessuno è stato punito. Non voglio che accada lo stesso ora.”
La voce di Demi risuonò più forte e sicura di quella dell’amica, ma altrettanto piena di emozione. Aveva un nodo in gola e cercò di scacciare quell’orrenda sensazione bevendo dell’acqua e respirando profondamente, ma sapeva di essere sull’orlo delle lacrime.
Mary, dal canto suo, era consapevole del fatto che se Elizabeth non avesse voluto parlare, cosa molto probabile, avrebbe dovuto insistere. Non sarebbe stato facile, ma le due mamme avrebbero fatto tutto quanto era in loro potere per aiutarle anche psicologicamente. Le piccole dovevano essere, e Demi poteva confermarlo per quanto riguardava Mac, molto provate.
“Cos’hai scritto alla Rivers?”
“Che le voglio parlare di una cosa urgente.”
“Lo farò anch’io” sussurrò la ragazza sospirando.
Demi le prese una mano. Era congelata, così le strinse piano anche l’altra e iniziò a scaldargliele. Rimasero in quella posizione per un po’ di tempo, senza parlare e continuando a guardarsi negli occhi. Ogni tanto l’espressione addolorata spariva per lasciare posto a piccoli sorrisi e più si stringevano in quel modo, più sentivano di essere vicine l’una all’altra con il cuore.
“Jayden sarà sconvolto quando glielo dirò…”
“Lo è stato anche Andrew e anch’io. Ho pianto molto, mi sono sentita in colpa, ma andrà tutto bene.”
Non ne era sicura, ma cos’altro poteva dire per incoraggiarla? L’unica cosa di cui era certa era che avrebbero affrontato quella difficoltà tutti insieme e ciò la faceva sentire più forte.
 
 
 
“Bene, Mackenzie” disse la maestra Josephine - qual era il suo cognome? Non lo ricordava mai - mentre la bambina, davanti alla lavagna, non sapeva più come calmarsi. “Sei pronta?”
Più o meno…
Non era la prima volta che l’insegnante le chiedeva di uscire e scrivere un dialogo che lei le dettava, ma non sapeva perché aveva la sensazione che non sarebbe riuscita a farcela. Eppure aveva ripassato con la zia, due giorni prima. Non avrebbe dovuto sentirsi così, giusto? Sbagliato. Stava da schifo prima di ogni interrogazione anche se ripassava tantissimo e si faceva aiutare. Era una sua caratteristica. Le sudavano le mani e il respiro era accelerato, ma  cercò di controllarsi. Il gessetto le cadde di mano e lo raccolse in velocità, sperando che nessuno si mettesse a ridere. Non accadde.
Grazie a Dio, forse oggi andrà bene pensò.
E così la maestra le sorrise e cominciò a dettare lentamente il dialogo e la bambina a scrivere. Sì, giusto, in francese andava la “s” sulla seconda persona singolare del verbo avere, beh su quella di tutti i verbi in realtà, al presente. Era un dialoghetto semplice nel quale due ragazzi si chiedevano come si chiamavano, come stavano e se avevano fratelli o sorelle. Mackenzie continuò a scrivere, concentrata, non guardando altro che la lavagna, mentre in classe c’era silenzio interrotto ogni tanto da qualche brusio.
“Okay, stai andando bene. Ora ti traduco questa frase e tu me la scrivi in francese. Come si dice:
“Sì, ho una sorella gemella?””
Oui, j’ai une sœur joumelle.
Aveva risposto senza un attimo di esitazione. Era soddisfatta di se stessa ma non si azzardò a rilassarsi o ad abbassare la guardia. Poteva sempre capitare una domanda a trabocchetto.
“E la stessa frase ma con fratello gemello?”
Oui, j’ai un frère joumeau.
“Benissimo. Ora i numeri.”
Le fece scrivere quelli dall’uno al cento e, a parte un paio di piccoli errori, Mackenzie andò a meraviglia.
“Brava, ti do B+” disse la maestra con un sorriso.
La bambina ricambiò e tornò al posto camminando piano, anche se avrebbe voluto mettersi a saltellare.
“Sei stata grande!” si complimentò Elizabeth dandole il cinque.
Mac lanciò uno sguardo fugace a James, Brianna e Ivan, i tre bambini che la bullizzavano e le parve che non la guardassero né commentassero. Bene, l’indifferenza era molto meglio delle offese.
L’ora successiva ci fu la lezione di storia. Stavano studiando gli uomini di Neandertal.
“E quindi,” disse il maestro Justin, “i primi uomini sono vissuti in quella che oggi per noi è l’Africa circa un milione e mezzo di anni fa. Che cosa distingue, secondo voi, gli umani dagli animali?”
Elizabeth alzò una mano.
“Sì?”
“Il fatto che i secondi sono guidati dall’istinto e i primi dall’intelligenza.”
“In parte sì” replicò il ragazzo passandosi una mano tra i capelli neri. “Brava, è un’osservazione matura per la tua età. Ma non solo.” Iniziò a camminare per la stanza, gesto che compiva spesso e che irritava molto Mac perché la deconcentrava. “Gli uomini modificano il proprio comportamento in base alle loro necessità e sanno costruire oggetti che possano aiutarli. Insomma, anche gli animali hanno una loro intelligenza. Per esempio, gli scimpanzè sanno rompere le noci di cocco con un sasso. Ma sanno fare meno cose degli umani, ovviamente. Il primo uomo fu l’Homo Habilis, cioè uomo abile, chiamato così perché riusciva a fabbricare oggetti taglienti usando una tecnica semplice. Guardate la figura che c’è nel libro a pagina quaranta.”
I bambini osservarono la foto di un uomo che, con una pietra, ne spaccava un’altra che diveniva quindi tagliente.
“Con quel secondo sasso riusciva a tagliare la carne. Infatti si è scoperto che non cacciava, ma mangiava ciò che trovava nella savana.”
E così, aiutato dalle numerose figure di cui il libro disponeva, il maestro continuò a spiegare. Il primo giorno aveva detto loro che gli veniva automatico camminare per la classe perché era uno che non riusciva mai a stare fermo. Andava in palestra e tutte le mattine usciva a correre. Era molto magro e, se Mackenzie fosse stata più grande, osservando il suo fisico muscoloso e i suoi profondi occhi neri avrebbe detto che era bello, ma a quell’età non si interessava ancora a tali cose.
Per tutta la lezione continuò a prendere appunti, a volte annotando qualche parola sul libro e più spesso scrivendo fitto fitto sul quaderno.
Quando la lezione finì, James le si avvicinò. Mackenzie cominciò a tremare e sperò che nessuno se ne accorgesse. Tuttavia che importava, ormai? Quando l’avrebbe detto alla maestra Beth lei si sarebbe preoccupata e, nel giro di poco tempo, ci sarebbero stati dei cambiamenti in meglio, o almeno così sperava. Forse ne avrebbero parlato in classe.
“Vattene, lasciala in pace!” la difese Lizzie.
“Uuuuh e pensi che ti ascolterò?” le chiese spingendola e facendola cadere, mentre tutti gli altri compagni tranne Mac, che non avevano sentito la conversazione, si mettevano a ridere credendo che la bambina fosse caduta.
Lizzie si rialzò e rimase paralizzata dalla paura.
“Mackenzie, tira fuori il quaderno di francese” le ordinò il bambino, sussurrando perché nessuno potesse sentire. Lei aveva le mani congelate e non riusciva a muoversi. “Ho detto tiralo fuori!”
Non poté far altro che ubbidire.
E adesso? gli chiese.
Lui strappò il foglio quasi bianco su cui aveva scritto quella domanda e poche altre conversazioni con Elizabeth.
“E adesso aprilo sulla pagina degli appunti di oggi.”
Non prendo ordini da te. Sei solo un bullo! sbottò.
James rimase lì impalato per qualche secondo e Mac pensò di aver vinto, che con quell’affermazione fosse riuscita a colpirlo e a farlo desistere dal suo piano, qualunque esso fosse.
“Stupida!” Le prese il quaderno e strappò la pagina, poi mormorò: “Parla, scema! Lo so che fai apposta e che in realtà sai parlare benissimo.”
Detto questo se ne andò e Mackenzie rimase sbigottita per alcuni secondi. Guardò la pagina strappata e notò che il danno non era grave: l’aveva tolta dal quaderno ma ciò che aveva scritto si capiva benissimo. Sarebbe bastato ricopiare tutto. Cominciò quindi a scrivere nella pagina seguente, non riuscendo o meglio, non volendo fermarsi. Premeva la penna così forte che la punta rischiava di bucare il foglio.
“Mackenzie?” Lizzie, vedendo il comportamento dell’amica e sapendo quanto successo si era un po’ ripresa. “Mac, devi parlarne con qualcuno. Non puoi più nascondere tutto. Anzi, non possiamo. Ci isolano e James mi ha appena spinta, alcuni bambini hanno detto che ho la testa fra le nuvole, sono bullizzata anch’io. Mi stai ascoltando?”
Ma Mackenzie non la stava a sentire. Elizabeth la toccò, le prese una mano, gliela strinse e continuò a parlarle, ma lei era lì solo con il corpo, non con la mente. Non faceva altro che ripensare alla violenza di quelle parole, all’odio che James le aveva vomitato addosso, seguitando a domandarsi perché e chiedendosi se avesse ragione. Si diceva di no, perché altrimenti non sarebbe stata così male sentendo ciò che lui le aveva detto, ma poi un’altra parte di lei le urlava che invece, anche se non faceva apposta a non parlare, avrebbe dovuto sforzarsi ancora di più per ricordare ogni singolo dettaglio di quell’orribile notte in modo da superare il trauma, o quantomeno da provarci. Non aveva ancora finito di scrivere quando l’insegnante di matematica entrò in aula, ma lei chiese di poter andare in bagno. Il permesso le fu accordato e la bimba uscì, dopo aver stretto più che poteva la penna per alcuni secondi in modo da sfogare, almeno in parte, la rabbia che aveva in corpo. Elizabeth si alzò per seguirla, ma lei le fece un cenno di diniego e la pregò con gli occhi di restare dov’era. Aveva bisogno di rimanere sola e, soprattutto, non aveva voglia di parlare con nessuno.
Una volta fuori iniziò a correre verso i bagni, non preoccupandosi del fatto che qualche insegnante o bidello avrebbe potuto vederla e sgridarla. Si chiuse dentro un bagno e la testa le girò così forte che per un momento tutto le parve confuso e la vista le si annebbiò. Si accovacciò vicino al water e mise le mani sulla tavoletta perché le girava la testa e sentiva il bisogno impellente di tenersi da qualche parte, pur sapendo che toccare quell’oggetto non era molto igienico. Vi ci si aggrappò con forza, quasi con disperazione, come se pensasse che se non si fosse tenuta a qualcosa sarebbe svenuta. Se qualcuno gliel’avesse chiesto non avrebbe saputo descrivere l’odore della paura. Non sarebbe riuscita ad associarlo a nessun aggettivo in particolare in quel momento, ma sapeva che non le piaceva affatto. Le riempiva le narici ogni volta che respirava con affanno e avrebbe solo voluto scacciarlo, avere la forza di alzarsi e tornare in classe, ma non riusciva nemmeno a pensare di dover rivedere James né gli altri bulli. Eppure sapeva di doverlo fare. Non mancava molto alla quarta ora, poi avrebbe consegnato quel foglio alla maestra Beth e forse qualcosa sarebbe cambiato nei giorni a seguire, o quantomeno migliorato. In realtà Mac avrebbe voluto fuggire e tornare a casa, ma non le andava di chiamare la mamma per farsi venire a prendere. Erano passati cinque giorni dall’incidente nel lago anche se pareva molto di più, Demi non stava ancora bene e comunque doveva restare allo studio di registrazione per continuare il suo album. Dopo aver vomitato anche l’anima, Mac si sentì ancora più priva di forze. Odiava quel saporaccio che aveva in bocca. Tuttavia, con uno sforzo immane riuscì ad alzarsi nonostante le continue vertigini. Uscì dal gabinetto, bevve un sorso d’acqua dal lavandino e poi si risciacquò la bocca più volte prima di riaprire e poi richiudere la porta della classe e rientrare così nel suo inferno.
 
 
 
Alla fine, siccome le sue figlie rimanevano l’una a scuola e l’altra all’asilo fino alle 16:00, per quanto Demi ancora si stupisse dell’orario di Hope aveva notato che la bambina non ne risentiva poi tanto. Il fatto che dopo pranzo dormisse un paio d’ore la aiutava molto a non sentire la stanchezza per tutto il resto del pomeriggio. Quindi dopo averci pensato e anche se per alcuni mesi aveva lavorato solo fino a mezzogiorno, adesso aveva deciso di fermarsi allo studio di registrazione tre ore e mezza in più in modo da sbrigare più lavoro. Quella mattina Mary era andata via presto e lei era tornata allo studio e si era messa subito all’opera, quando ancora non c’era nessuno. Stare lì davanti al piano, cantare con tutta la potenza della sua voce era stato liberatorio. Ora stava per fare un’altra collaborazione per il suo nuovo album, stavolta con Luis Fonsi. La voce di quel cantante le era piaciuta incredibilmente sin da quando aveva ascoltato “Despacito”. Anche se non sapeva la lingua qualcosa più o meno ne capiva e così già molti mesi prima aveva detto a Phil, tutta eccitata, che le sarebbe piaciuto collaborare con Fonsi. Alla fine era stato il manager di questi a contattare il suo perché Luis desiderava inserire una voce femminile nella sua canzone “Échame La Culpa” e aveva subito pensato a lei. E così, dopo averne parlato via Skype ed essersi divisi le parti, quella mattina Luis si era presentato allo studio di registrazione dove Demetria lavorava. Sarebbe rimasto a Los Angeles per alcuni giorni e per l’occasione i due avevano deciso di registrare la canzone. In seguito avrebbero fatto anche il video. Ora i due si trovavano l’uno accanto all’aktra e stavano per cominciare. Sapevano che forse avrebbero dovuto fare molte prove prima della versione finale e Demi si sentiva in colpa perché in quella situazione era lei che creava più problemi, non sapendo la lingua. Aveva ancora il testo in mano e leggeva e rileggeva le parole pronunciandole a bassa voce, come continuava a fare da giorni. Non ne aveva parlato con la famiglia perché… non lo sapeva nemmeno lei. Forse voleva affrontare quell’ostacolo da sola, dimostrarsi che poteva farcela. In fondo anche lei aveva voluto collaborare con il cantante portoricano e sapeva benissimo che molto probabilmente avrebbe dovuto cantare almeno un po’ in spagnolo.
“Luis?” gli chiese guardandolo negli occhi.
“Sì?”
Il suo forte accento spagnolo si sentiva, ma la ragazza aveva già potuto constatare che sapeva benissimo l’inglese. Inoltre, ma questo non le importava poi tanto, era oggettivamente un bel ragazzo.
“E se sbaglio qualche accento? O non mi ricordo una parola, o…”
“Ehi, querida, calmati.”
“Che hai detto?”
“Scusa. È facile per me mischiare le due lingue. Significa “cara”.”
La ragazza deglutì.
Si sentiva strana, a disagio. Non solo perché la maggior parte di quella canzone era in una lingua che non conosceva, ma anche perché ora Luis le aveva appoggiato una mano su una spalla e, per quanto quel gesto fosse rassicurante e il calore del suo corpo la facesse sentire bene, non ci era abituata. Phil le aveva spiegato che in alcune culture come quella di lui è normale comportarsi in maniera più aperta anche verso chi non si conosce e quindi Demi avrebbe dovuto aspettarsi strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci e persino baci sulle guance.
“Oh, mio Dio!” aveva sospirato qualche giorno prima. “Non mi dispiace, però è strano.”
“Sì, lo so” le aveva sussurrato Phil prima di rassicurarla dicendole che sarebbe andato tutto bene.
Ora non ne era più tanto sicura. Respirava con affanno e le sudavano le mani.
È solo una canzone, accidenti!
Ma nemmeno quel pensiero e il fatto che amasse cantare servirono a rassicurarla.
“Okay, provo a calmarmi” disse la ragazza ritornando al presente.
“Sei pronta?”
“Creo que sí” gli rispose con quel poco spagnolo che aveva imparato da lui.
“Brava!”
Luis quasi gridò per la gioia e le diede una pacca sulla spalla un po’ troppo forte, ma Demi si sforzò di sorridere; ebbero un fugace contatto visivo nel quale i loro occhi scuri e profondi si incontrarono, poi la musica partì.
Hey Fonsi
Oh no (Qué pasa, Demi?)
Hmm
Hey yeah
Tengo en esta historia algo que confesar
Ya entendí muy bien qué fue lo que pasó
Y aunque duela tanto, tengo que aceptar
Que tú no eres la mala, que el malo soy yo
Beh non è che avesse dovuto dire molto, in quella prima parte, tranne “Hey Fonsi” e “Hmm”. Luis aveva cantato benissimo, con una sorta di brio nonostante la canzone non fosse poi così allegra. E il suo spagnolo era ovviamente stato perfetto, quindi Demi si vergognò al pensiero che lei avrebbe potuto combinare un disastro. Forza, ora era il suo turno. Uno, due, tre…
No me conociste nunca de verdad
Ya se fue la magia que te enamoró
Y es que no quisiera estar en tu lugar
Porque tu error solo fue conocerme
Sì, sì, sì! Ce l’aveva fatta! Non in modo perfetto, ma quasi. Ci era riuscita, santo cielo! Non ebbe il tempo di congratularsi bene con se stessa perché arrivò il ritornello. Lo cantarono insieme e dopo c’era una parte in inglese che tutta sua e in quel momento si sentì di nuovo rilassata. Quando dopo il secondo ritornello in spagnolo la canzone terminò, Luis si girò verso di lei e la abbracciò. Fu un abbraccio delicato, di gioia e nulla più.
“Sei stata grande!” esclamò l’uomo. “Non conoscevi quasi la lingua e sei riuscita a fare la tua parte in modo praticamente perfetto! Sono stupito, ma sapevo fin dall’inizio che eri la persona perfetta per questa canzone. Gracias!”
Lei gli sorrise, colpita dalle sue parole e ancora emozionata.
“Grazie a te, Luis” mormorò mentre il team di Demi e il manager di lui applaudivano. “Spero potremo collaborare ancora, in futuro.”
“Me lo auguro anche io. Comunque non ti sei liberata di me, eh? Non ancora! Dobbiamo provarla almeno un’altra volta per renderla il più perfetta possibile e nei prossimi giorni fare il video.”
“Non avevo intenzione di mandarti via. Non volevo dare l’impressione che fossi un peso o cose del genere” gli rispose la cantante.
“Lo so, stavo scherzando.”
Lei arrossì.
Non aveva capito si trattasse di una battuta. Oddio, ma perché a volte faaceva delle figure di merda?
“Ragazzi,” disse Phil avvicinandosi e Luis rise perché all’età di quasi quarantun’anni non si sentiva più tanto giovane, “andate a bere un po’ d’acqua e a mangiare qualcosa, una barretta energetica magari. Dobbiamo lavorare ancora un po’.”
I due obbedirono.
Dopo essere andati in bagno si accomodarono su un divanetto dello studio per riprendersi un momento.
“Prima abbiamo iniziato a fare il video per un documentario che uscirà l’anno prossimo, ma non dirlo a nessuno” gli fece promettere Demi.
“Sarò una tomba, tranquilla. È stato difficile?”
“Un po’, più che altro perché non è facile per me ripercorrere la mia storia e nemmeno per chi mi segue montare i video e tutto il resto.”
“Sì, immagino. La gente non si rende conto di quanto lavoro c’è dietro.”
“Già. Basti pensare a quanto si sgobba per un album.”
“Esatto. Ma nel documentario parlerai anche delle tue bambine, giusto?”
“Ovviamente sì, di tutto il mio percorso come donna, cantante e mamma.”
“Non vedo l’ora di guardarlo!” esclamò Luis raggiante alzando le mani.
“Spero di non deluderti, allora.”
“Non lo farai con nessuno.”
Quando parlava quell’uomo aveva una voce delicata e dolce che la faceva sempre sorridere.
Provarono di nuovo e poi un’altra volta prima di registrare la versione finale.
“Perfetto, ci siamo!” esclamarono insieme Phil e il manager di Luis e poi andarono a congratularsi con i rispettivi cantanti.
Dopo aver salutato l’uomo e avergli detto che si sarebbero rivisti l’indomani, Demi si accomodò davanti al PC che lei, Phil, il vocal coach e altri usavano quando volevano aiutarla a scrivere le canzoni. Il computer si trovava in un piccolo ufficio che aveva solo una scrivania e un paio di sedie, ma nonostante questo la ragazza ci si trovava bene. Non era un ambiente piccolo o soffocante, anzi; e poi sul tavolo aveva messo le foto della sua famiglia e quelle delle figlie davanti a tutte le altre, per cui ogni volta che le guardava sentiva il suo cuore scaldarsi. Tuttavia in quel momento sbuffò e si mise la testa fra le mani. Non aveva ispirazione. Non doveva scrivere una canzone, ma qualcos’altro. E si sentiva come quando aveva scritto le prime pagine del suo libro, nel senso che sapeva cosa dire ma non come. In quell’occasione Phil le aveva proposto di assumere un ghost writer, come facevano tantissimi personaggi famosi, ma lei non aveva voluto.
“Il libro è mio e lo scrivo io, altrimenti non lo sentirò più come parte di me” aveva detto.
E così aveva scoperto che, a dispetto di quanto si era aspettata, non sapeva scrivere bene solo canzoni o poesie. Certo, leggendo molto negli anni era migliorata tantissimo nello stile, ma comunque il libro era stato apprezzato da molti.
“Che fai?”
Era proprio Phil e lei non si era nemmeno accorta che fosse entrato.
“Penso e me ne sto qui a…”
“A fissare la pagina bianca di Word?”
“Già.” Sospirò e poi riprese: “Sai che devo scrivere il discorso di apertura per “Simply Complicated”. In realtà potrei anche dirlo e basta, ma mi sento più sicura se lo digito sulla tastiera e me lo imparo per bene mettendoci la giusta espressività. Il problema è che non so come fare.”
“Come vorresti strutturarlo?”
“Mi piacerebbe che includesse tutto ciò che ho imparato in questi ultimi anni di vita, ma non menzionandolo direttamente. E che fosse qualcosa di incisivo. Per esempio avevo pensato di dire:
L’amore è necessario
in modo che si capisse che mi riferisco sia ai diversi tipi di amore che provo: per Mackenzie e Hope, per i miei genitori e le mie sorelle e per Andrew, ma non so. Secondo te è una frase stupida o scontata?” domandò, scuotendo leggermente la testa.
“No assolutamente, anzi mi sembra efficace.”
“Davvero?”
“Certo!” esclamò con enfasi per farla sentire più sicura.
“Mmm, okay.”
Demi la scrisse sul PC e poi andò a capo.
“Ti lascio lavorare. In fondo quello che dirai sarà importantissimo e non voglio intromettermi troppo. Ma ricorda: non devi farlo con questa” e si indicò la testa, “bensì con questo.”
Si toccò il cuore e poi uscì.
Con la mano sul petto, Demetria ripensò alla sua vita. Ricordò che da piccola, nonostante i litigi dei genitori fino ad un certo punto era stata una bambina felice che giocava in cortile come tutti gli altri bimbi; poi tutto era cambiato. Il bullismo aveva causato il crollo della sua autostima, l’anoressia, la bulimia, l’autolesionismo; e tutto ciò l’aveva lentamente trascinata in un tunnel nel quale credeva sarebbe rimasta per sempre. I tunnel hanno un’uscita, la luce si vede sempre ad un certo punto. Ma lei non l’aveva vista per anni e credeva non sarebbe successo >mai. La sua famiglia le era sempre stata accanto nonostante tutti i casini che aveva combinato e anche Andrew era rimasto ogni singolo giorno. Lui, il suo fedele compagno di viaggio fin da sempre, non l’aveva mai abbandonata. Ritrovare un equilibrio, ricominciare ad amare se stessa e il suo corpo, a non guardarsi allo specchio, a non pesarsi, a non trovare più difetti nel suo corpo - o quasi - e a non piangere ogni volta a causa di ciò non era stato semplice. E nemmeno non tagliarsi più per sfogare il proprio dolore era stata una passeggiata.  Ma ne era venuta fuori e adesso aveva due bambine che amava più della sua vita. Nonostante le difficoltà era serena e aveva realizzato il sogno che aveva fin da bambina: diventare mamma. Aveva anche un fidanzato meraviglioso. E fu proprio riflettendo su tutto questo e ringraziando Dio perché, se era vero che l’aveva fatta soffrire, le aveva anche dato moltissimo, che cominciò a scrivere.  Le sue dita volavano sulla tastiera e Phil aveva ragione, perché in effetti si sentiva come se le parole le stessero venendo dal cuore. Provava un senso di leggerezza e di libertà immenso. La sua testa era leggera, priva di pensieri e preoccupazioni. Si alzò in piedi come se fosse stata sul palco e cominci a ripeterlo e ripeterlo ancora, dapprima con troppa poca sicurezza a causa della fortissima emozione, a volte commuovendosi o piangendo. Dopo un po’ di tempo e vari tentativi si sentì finalmente pronta, quindi uscì e disse al suo team:
“Ragazzi, ragazzi! Ho il discorso perfetto!”
Non si rese conto di stare urlando e chi stava camminando di qua e di là si fermò a guardarla stranito.
“Okay Demi, calmati” disse il suo vocal coach ridendo.
“Sì, scusate. Posso provarlo al microfono?”
“Ma certo!” le rispose Phil.
Le sue mani tremarono per qualche secondo e la sua mente si annebbiò, ma la ragazza si riprese subito e parlò.
“The last decade has taught me a lifetime’s of lessons. I've learned that secrets make you sick. I'm learning how to be a voice and not a victim. I've learned that sex is natural. I've learned that love is necessary. Heartbreak is unavoidable, and loneliness is brutal. I've learned that the key to being happy is to tell your truth and be OK without all the answers. This is my story. This is Simply Complicated."
L’applauso che ne seguì fu fortissimo, i complimenti molti. In quelle poche frasi Demi era riuscita a racchiudere tutta la sua vita, fatta di gioie, dolori e lezioni imparate soprattutto nei momenti più duri.
 
 
 
Quando Mackenzie tornò a casa, quel giorno, raccontò alla mamma di aver dato il foglio alla maestra e che quando lei le aveva chiesto di parlarle del problema di cui la mamma accennava era rimasta con la penna a mezz’aria.
Non sapevo come spiegare, mi sono bloccata.
Si era sentita debole come prima quando aveva vomitato, anzi, ancora di più. Era rimasta ferma, come paralizzata, mentre il cuore le batteva a mille e tutto in lei le ordinava di scappare, anche se non sapeva perché. Non ricevendo risposta, la maestra Beth le aveva detto che sua madre avrebbe potuto venire mercoledì alle 11:00.
“E tu allora cos’hai fatto?”
Sono scappata via.
Lo disse con lo sguardo basso, provando vergogna. Non sarebbero bastate mille parole per descrivere quel sentimento. La maestra avrebbe potuto aiutarla e lei anche in quel caso si era tirata indietro, la paura era stata più forte di qualsiasi  cosa. Eppure sapeva che avrebbe dovuto essere lei la prima a voler e a dover combattere in quella situazione.
“Piccola!”
Demi la abbracciò mentre Mac cominciava a singhiozzare.  Ebbe solo la forza di raccontarle ciò che le aveva fatto James quella mattina, dopodiché scoppiò in un pianto quasi convulso. Hope si era addormentata, così Demi portò Mackenzie sul divano e ve la adagiò sopra con delicatezza, poi si sedette e le fece appoggiare la testa sulle sue gambe.
“Finirà tutto, te lo prometto. Shhh. Andrà tutto bene, angioletto mio. C’è la mamma qui.”
Continuò a sussurrarle parole dolci e le asciugò le lacrime, poi prese ad accarezzarla e la piccola pian piano si rilassò. Si sentiva sicura e protetta, finalmente e voleva godersi quella sensazione di calore fin quando sarebbe durata. Era stanca di tutto, delle cattiverie che i bambini le dicevano, del PTSD, del fatto che non riusciva a ricordare altro, del dolore, non ne poteva più, ma grazie alle coccole della mamma riuscì ad addormentarsi.
 
 
 
 
Demi, capendo che ne aveva bisogno, la lasciò riposare. Non ce l’avrebbe fatta ad andare da Catherine in quelle condizioni. Mac non voleva scrivere né ricordare, desiderava solo stare tranquilla, così la donna chiamò la psicologa per spiegarle che erano successe delle cose che l’avevano stressata tantissimo e le domandò se sarebbe stato possibile spostare l’appuntamento. Catherine fu molto comprensiva.
“Mi dispiace, Demi” mormorò. “Devono essere cose gravi, se sta così.”
“Sì, abbastanza. Diciamo che sono psicologicamente pesanti, ecco.”
L’altra sospirò.
“Mi dispiace! Che ne dici di venire domani alle 17:00?”
“D’accordo, ti ringrazio.”
Una volta messo giù il telefono Demi strinse così forte i pugni da conficcare le unghie nella pelle, ma per fortuna non si fece molto male, solo qualche segno che sarebbe andato via presto. Avrebbe dovuto andare a scuola mercoledì, e quel giorno e a quell’ora avrebbe dovuto andare a togliere i punti della ferita che si era fatta pochi giorni prima, quindi sarebbe stato necessario spostare anche quell’appuntamento. E poi aspettare un altro giorno non era facile, perché sapeva che anche martedì i compagni di Mackenzie l’avrebbero presa in giro e non poteva sopportarlo. Grosse lacrime cominciarono a rigarle le guance a causa del nervosismo. Sì, si disse mentre andava in cucina a scaldarsi un po’ di latte per cercare di tranquillizzarsi, in quel momento le difficoltà erano molte anche se c’erano tante cose positive nella sua vita. E l’agitazione le faceva vedere tutto nero. Era davvero troppo. Hope si svegliò ed iniziò a piangere. Mentre andava verso la sua cameretta con gli occhi arrossati per il pianto, Demi si disse che c’era solo una cosa che poteva fare subito per tentare di non scoppiare.
 
 
 
credits:
Colbie Caillat, Try
 
 
Luis Fonsi ft. Demi Lovato, Échame La Culpa
 
 
Demi Lovato, Simply Complicated
 
 
 
NOTE:
1. Demi ha vissuto veramente quella situazione di povertà e le cose che ho riportato, anche se con parole mie, sono tratte dal libro che ha scritto sua mamma.
2. Il cameriere ha voluto sapere i nomi delle due ragazze perché a Starbucks generalmente si fa così per non confondere le ordinazioni. L’ho letto su alcuni siti dove alcune persone raccontavano la loro esperienza in quei bar. E ci sono molte persone che bevono un litro di caffè negli USA, è una cosa normale, ma in questo caso Demi se ne stupisce.
3. È vero: Demi desiderava tantissimo lavorare con Luis e poi lui l’ha contattata perché ha subito pensato a lei per quella canzone. L’ho letto in un paio di interviste.
4. All’inizio del suo discorso, nel vero documentario, Demi dice il suo nome e l’età. Siccome l’ha fatto quando aveva venticinque anni e qui ne ha ventisette, non volevo assolutamente cambiare ciò che lei ha detto anche se si trattava di modificare un numero (non mi pareva corretto) quindi ho cominciato dalla frase seguente. Lo scrivo per chiarezza e perché mi sembra giusto nei confronti della vera Demi. Riporto la traduzione italiana, fatta da me, del discorso che, come nel caso dell’introduzione del libro di cui ho parlato nel capitolo 88, ho preferito scrivere in inglese nella storia.
L’ultimo decennio mi ha insegnato le lezioni di una vita. Ho imparato che i segreti fanno stare male. Sto imparando come essere una voce e non una vittima. Ho imparato che il sesso è naturale. Ho imparato che l’amore è necessario. La sofferenza è inevitabile, e la solitudine è brutale. Ho imparato che la chiave per essere felici è dire la verità e stare bene senza tutte le risposte. Questa è la mia storia. Questo è Simply Complicated."
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
e dopo due mesi, eccomi qui di nuovo! Non potete capire l’emozione, la felicità pura che sto provando! E non so se riuscite ad immaginare quanto mi sia mancata questa storia e quanto mi abbia addolorata non poter pubblicare. Come molti di voi sanno ho avuto un incidente al lavoro, non grave ma comunque invalidante. Mi sono slogata una caviglia e c’è stata una lesione ai legamenti, ho ancora il tutore e devo portarlo fino a domenica e fare fisioterapia almeno per due settimane. E il dolore è tanto, credetemi. È forte. Avevo avuto altre slogature ma questa è stata brutta. Maledette scale a chiocciola! Quindi spesso non riuscivo proprio a mettermi a scrivere perché mi deconcentravo.
Ad ogni modo questo capitolo avrebbe dovuto essere più lungo, ma ho deciso di non farvi aspettare troppo e di dividerlo in due diversi. Inizierò a scrivere il seguente già domani e cercherò di aggiornare in fretta.
 
Qui abbiamo visto Mackenzie ancora bullizzata e Demi che, a parte qualche momento spensierato, è terribilmente in ansia perché non sa come andranno le cose nei giorni seguenti. Cosa farà secondo voi per calmarsi? Chiamerà qualcuno? Chiederà a qualcuno di venire lì? E se sì, a chi? (Potete dire anche più di una persona).
 
Emmastory, non mi sono dimenticata del tuo suggerimento riguardo Mackenzie. Lo metterò nel prossimo capitolo.
Mi siete mancati, cari lettori! Da morire! Mi è mancata questa storia, mi sono mancati i personaggi, mi è mancato il rumore della tastiera mentre digito, mi è mancato tutto! Ma ora sono tornata!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. So che ci sono un sacco di dialoghi ma è stata una cosa voluta, e comunque sto imparando a migliorarmi e a concentrarmi di più sull’introspezione e le emozioni.
Fatemi sapere che ne pensate con delle recensioni. :)
A presto!
   
 
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