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Autore: Adeia Di Elferas    24/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Simone controllò ancora una volta le cinghie dell'ultimo baule e poi diede un colpetto al carro, a indicare al conduttore che poteva chiudere il tendone.

Per il momento non nevicava, ma siccome il cielo era bianco, Ridolfi aveva preferito cautelarsi e coprire accuratamente tutti i suoi bagagli, prima di arrivare a Forlì con i propri effetti personali trasformati in blocchi di neve ghiacciata.

Da quando si era svegliato, non aveva ancora avuto il coraggio di cercare sua moglie. Anche la sera prima, non aveva trovato le parole per chiederle se alla fine sarebbe andato con lui o no. Temeva troppo di sentire la risposta sbagliata, per azzardarsi a domandarlo esplicitamente.

Anzi, fin dalle prime luci dell'alba, aveva lasciato che fossero i suoi servi a occuparsi di tutto e aveva fatto un ultimo giro di perlustrazione di Imola. Quella città, pensava, non gli sarebbe mancata molto. Doveva essere il suo trampolino di lancio, ma poi, dopo la morte di Giovanni, con la guerra che lambiva le terre della Sforza, la carica di Governatore gli era stata sempre più stretta, come un cappio che ogni giorno veniva tirato un po', senza strozzarlo, ma accorciandogli il fiato fin quasi a rendergli doloroso ogni respiro.

Così, quando era tornato a casa, aveva trovato i carretti già pronti e il suo cavallo già sellato. Non avrebbe saputo dire se tra i bauli e i pacchi ci fossero anche cose della Feo, ma di certo di sua moglie ancora non c'era traccia.

Capendo di non poter ritardare ulteriormente, fece un respiro profondo, si passò una mano sull'ampio petto, sfiorando distrattamente la fibbia d'oro del mantello, e si schiarì la voce, come se bastasse per dargli il coraggio necessario. Disse alla sua scorta di aspettarlo e poi tornò ai piani alti, da Lucrezia.

Già facendo le scale sentì delle voci di donna molto concitate che chiacchieravano serratamente, e, poi, arrivato al piano, vide nel corridoio un paio di bauletti e qualche altro bagaglio di vario genere, compreso il piccolo scrigno dei gioielli di sua moglie. Improvvisamente si permise di sperare per il meglio.

“Avete sistemato con cura il mio abito di seta blu, quello che ha le perle nelle maniche?” chiese la Feo, uscendo dalla sua stanza per andare a controllare di persona.

Una delle serve annuì subito, spiegandole di averlo impacchettato tra i primi da portare con loro, e solo mentre annuiva soddisfatta, Lucrezia vide il marito.

Ridolfi stava a qualche metro di distanza, immobile, con un vago sorriso sulle labbra.

Quell'espressione quasi commossa non venne nemmeno scalfita dall'accorgersi della cupezza che invece albergava sul viso della moglie.

Mentre la Feo gli si avvicinava, Simone sussurrò: “Allora hai deciso di seguirmi...”

La donna, senza dirgli niente, ma ordinando alle serve di continuare a fare il loro lavoro, lo prese per una mano e lo portò fino a una delle camere più vicine. Chiuse la porta alle loro spalle e poi lo fronteggiò.

“Non posso seguirti a Forlì. Non subito, almeno.” gli disse, piatta.

Ridolfi sentì la gola seccarsi e deglutì a fatica, prima di balbettare: “Ma... Ma stavi facendo i bagagli, io credevo che...”

“Domani arriverà il nuovo Governatore. Non ho intenzione di stare in una casa che è destinata a qualcun altro.” fece Lucrezia, stupendosi dell'apparente ingenuità di suo marito: “Pensavi che sarei rimasta in questo palazzo, se tu te ne fossi andato? A che titolo, secondo te?”

L'uomo, ancora troppo scosso dalle prime parole della moglie, aveva cercato qualcosa su cui sedersi, finendo per accasciarsi su uno sgabellino imbottito.

“Devo andare in campagna, Simone, a curare i nostri affari.” tagliò corto la Feo, passandosi una mano sotto al naso e guardando in alto, come se stesse per cedere alle lacrime per qualche motivo che a Ridolfi, che la vedeva tanto fredda e crudele, sfuggiva: “Quando avrò sistemato tutto, forse, allora verrò con te.”

Il Governatore rimase a capo chino per un po' e solo quando le parole della moglie furono penetrate a fondo nella sua testa risollevò lo sguardo. I suoi occhi scuri non erano gli stessi. C'era un velo, a coprirli e Lucrezia non capì di cosa si trattasse finché non lo sentì gridare.

Alzandosi di scatto, l'uomo inveì: “Non mi segui solo perché hai paura che la Sforza voglia uccidermi! Io lo so! Vuoi startene tranquilla dai tuoi amanti fino a che non sarai certa che la Tigre non voglia farci del male! Io credevo che mi avresti seguito perché mi ami! Credevo che quello che c'è tra noi fosse più forte della paura di morire, io credevo di contare qualcosa per te! Io, per te, mi sarei gettato nel fuoco senza pensarci un solo istante! Sarei pronto a morire anche adesso, per te! E invece per te conta solo salvare te stessa! Sei la solita opportunista, sei una..!”

“Ma che cosa ti aspettavi?!” urlò di rimando la Feo, ben lungi dal farsi intimorire dal marito, benché lui fosse ben più alto e più forte di lei: “Lo sapevi fin dall'inizio che ero così! Io ho implorato mio fratello di trovarmi un marito ricco, la prima volta, e la tua cara Sforza mi ha trovato un uomo anziano, pedante e noioso, ma che grazie a Dio era pieno di terra. Morto lui ho cercato un altro che avesse i soldi, ma che avesse anche un bell'aspetto perché ero stufa di dividere il letto con un vecchio! E ho trovato te! Credevi davvero che l'amore potesse avere qualcosa a che fare con questo matrimonio?!”

Simone ascoltava le parole della moglie in silenzio, attonito, fissandola come se si trovasse di fronte una Gorgone. Le braccia lungo i fianchi e le labbra serrate, i suoi pensieri potevano intuirsi solo da come stringeva i pugni, fino a scolorirsi le dita, per la violenza che ci stava mettendo.

“Anche io ti ho sposata per interesse.” disse l'uomo, quando la moglie ebbe terminato la sua filippica, e lo fece con un tono molto dimesso, quasi deluso: “Volevo imparentarmi con voi Feo per avere più possibilità di fare carriera alla corte della Tigre. E volevo i tuoi terreni. E la carica di Governatore. Poi, però, mi sono innamorato di te.”

“Non avresti dovuto.” ribatté fredda Lucrezia, guardando altrove.

Ridolfi sospirò e poi, allargando le braccia, andò verso la porta: “Hai ragione, l'ho capito troppo tardi. È che ero convinto che anche tu avessi commesso il mio stesso errore. E invece ti stai dimostrando una volta di più molto più saggia di me.”

Quando l'uomo aveva già raggiunto l'uscio e stava per aprirlo, la Feo aggiunse, parlando veloce, come se temesse di non avere poi più altre possibilità di mettere in guardia Simone: “Ho i miei motivi per temere la Tigre. Guarda che ha fatto a mio fratello Tommaso. Prima di conoscere lei, era un uomo completamente diverso, adesso sembra un fantasma. E Giacomo? Non andavamo d'accordo, posso quasi dire che fossimo due estranei, ma se è morto, è solo colpa di quella donna e per questo non posso perdonarla. Non voglio essere l'ennesimo membro della mia famiglia ad avere la vita rovinata da lei.”

“Come dici tu, Lucrezia.” sospirò Ridolfi, aprendo la porta.

“Comunque, quando avrò sistemato tutti i nostri affari...” iniziò a dire lei.

“Pensa agli affari. Quando e se li avrai sistemati, decideremo cosa farne del nostro matrimonio.” la zittì lui, dandole sempre le spalle.

Lucrezia non lo seguì e non andò nemmeno alla finestra per vederlo partire. Si chiuse in camera per un paio d'ore, cercando di ricomporsi. Sapeva che le sue serve avevano sentito in buon parte le loro urla, e non voleva mostrarsi troppo scossa.

Solo quando fu di nuovo padrona di sé, ordinò che venissero preparati i carri e, intorno al mezzogiorno, partì con le sue ancelle, qualche servo e un pugno di guardie alla volta di uno dei suoi poderi. Ringraziò il freddo e la neve che cominciava a scendere, cadendole sul viso e sciogliendosi al contatto con le sue guance: poteva imputare a loro il suo rossore e dissimulare in modo abbastanza discreto le lacrime.

 

Il Moro le aveva risposto chiaramente dicendole, in parole povere, che non spettava a lui dirle che fare per togliersi d'impiccio con i Bentivoglio.

Il signore di Bologna, in difesa del figlio Annibale, le aveva chiesto di nuovo di poter riavere i bagagli e anche gli ostaggi. Caterina aveva risposto in modo netto, dicendo che di ostaggi non ne aveva fatti e che, anzi, aveva fatto personalmente scortare gli uomini del Bentivoglio in un posto sicuro e che, quindi, si sentiva molto offesa dalla sua mancanza di fiducia.

Siccome, però, a sommarsi al malcontento per quella sua azione scorretta c'erano le recriminazioni fatte da Castagnino, che si lamentava della riottosità dimostrata dalla Tigre nelle trattative per il trasferimento di Bianca a Faenza, la Sforza aveva deciso di fare buon viso a cattivo gioco.

Scagionandosi una volta di più e in modo molto accorato per quanto accaduto agli uomini che aveva in realtà fatto prigionieri – di cui qualcuno era già morto nelle segrete – propose una specie di compromesso a Giovanni Bentivoglio, sperando più che altro di prendere tempo.

Stava usando quello che chiamava 'uno spiacevole incidente diplomatico' anche per ritardare la partenza di Bianca, giacché, sosteneva per tramite dei suoi ambasciatori, non poteva certo lasciare che sua figlia entrasse nella casa del marito proprio mentre tra Forlì e Bologna si creavano screzi senza fondamento. Perché, lei non lo dimenticava, Astorre era nipote di Giovanni Bentivoglio e, come tale, in parte rappresentava anche Bologna.

I suoi Consiglieri erano stati molto vaghi e qualcuno si era addirittura chiamato fuori, quando aveva spiegato come intendesse gestire la faccenda e solo Luffo Numai l'aveva appoggiata, trovando che temporeggiare fosse l'unica cosa da fare, data l'incertezza sul fronte fiorentino e la precaria condizione politica di Ottaviano Manfredi.

Così, quel pomeriggio, prima di vederlo partire alla volta di Bologna, Caterina volle incontrare un'ultima volta Spinuccio Aspini, uomo scelto per la sua grande dialettica e per la sua proverbiale impassibilità. La Contessa era certa che Giovanni Bentivoglio, nel cercare di fargli perdere le staffe per metterlo in difficoltà, avrebbe trovato pane per i suoi denti.

“Dunque avete capito tutto?” gli chiese, offrendogli un boccale di vino caldo speziato.

Spinuccio annuì e ribadì: “Certo, mia signora. Dovrò ripetere che esigiamo un elenco puntuale dei beni personali di messer Annibale Bentivoglio, affinché noi possiamo scegliere tra quelli da noi sequestrati e renderli al legittimo proprietario al più presto possibile.”

“E se vi dovessero dire che rivogliono tutti i bagagli?” fece la Sforza, quasi stesse interrogando uno studente particolarmente dotato.

“Farò presente che il salvacondotto accettato dal Bentivoglio precisava che il passaggio era consentito unicamente a lui e ai suoi personali bagagli.” fu la pronta risposta di Aspini.

“Benissimo.” concluse allora la Leonessa, dandogli una pacca sulla spalla e concedendogli un breve sorriso: “Tornate da Bologna solo quando sarete riuscito a esasperarli tanto da costringerli ad accettare i nostri termini.”

“Come desiderate, mia signora.” annuì lui e uscì dallo studiolo con un profondo inchino.

“Pensi che basterà così poco?” Manfredi stava aspettando in corridoio.

Era rimasto tutto il tempo vicino alla porta, che, non essendo del tutto chiusa, gli aveva permesso di origliare quanto bastava per capire di cosa Caterina e Spinuccio stessero parlando.

“No che non basterà, ma mi permetterà di guadagnare qualche giorno. Che mi credano pure stupida, che pensino che solo una donna, una povera vedova disperata, come mi chiamano loro, possa pensare di risolvere una questione del genere con una simile idea...” fece la Sforza, cominciando a camminare svelta verso le scale, con il faentino che la seguiva a ruota: “Quel che mi serve è tempo. Questa guerra prima o poi arriverà a maturare e se vincerà la nostra parte, né Bologna né Faenza avranno più la voce di chiedermi nulla.”

“Non sarebbe più facile addossare tutta la colpa a me?” chiese a quel punto Ottaviano, inducendola a fermarsi, mentre scendevano i gradini a gran velocità.

La Tigre si bloccò, un piede su un gradino e uno su quello dopo e si voltò verso il suo amante. Si ricordò di come lui stesso avesse cercato di farlo e poi, quasi vergognandosene, le tornarono alla mente le parole che pure lei aveva speso con i portavoce di Faenza e Bologna.

“Lo so che sarebbe stato più facile, infatti è quello che ho cercato di fare all'inizio.” gli disse, ricominciando a scendere i gradini: “Ma non mi hanno creduta. Sono tutti convinti che tu sia il mio amante e che come tale io ti stai usando per...”

“Ebbene, non hanno tutti i torti, non credi?” la interruppe il faentino, con un sorrisetto che avrebbe voluto essere allegro, ma che alla donna parve sporcato da una vena di rabbia.

“Ascolta, Manfredi – fece Caterina, ben decisa a non litigare con lui – ci stiamo usando a vicenda, perché entrambi sappiamo di poter trarre dalla vicinanza dell'altro qualcosa che si serve. Io, comunque, farò del mio meglio per proteggerti, intesi? Non ho alcuna intenzione di perdere un altro uomo a cui tengo.”

Ottaviano divenne pensieroso, dopo averla sentita a parlare in quel modo e quando, dopo qualche minuto di silenzio, arrivarono al cortile e all'uomo fu chiaro che la Contessa intendeva immergersi nella sua sala delle armi, probabilmente a fare il filo a qualche spada o lucidare qualche elmo, si allacciò le mani dietro la schiena e disse: “Visto che hai di meglio da fare, vado a pregare. Credo che andrò a San Girolamo.”

La Sforza annuì appena, aspettando un momento, prima di andare dalle sue amate armi, dato che Manfredi sembrava desideroso di aggiungere ancora qualcosa.

L'uomo, raddrizzando le spalle e mettendo in mostra il proprio fisico asciutto e forte, fece una bassa risata e sospirò: “Mi piace, quella chiesa. È molto tranquilla. Sai, Tigre, se dovessero farmi la pelle, non mi dispiacerebbe, se mi facessi seppellire lì.”

“Un Manfredi che preferisce la misera chiesa di San Girolamo di Forlì a quella di San Francesco di Faenza?” scherzò la Leonessa, scuotendo la testa: “E meno male che tu vorresti essere il nuovo signore delle terre che erano di tuo padre...”

Anche il faentino si mise a ridere, benché parlare della propria morte, seppur in toni ipotetici, gli avesse fatto correre uno strano brivido lungo la schiena: “Che vuoi farci, Tigre. Voglio riprendermi Faenza, ma il mio cuore deve restare sepolto a Forlì, accanto a te.”

Non avendo il tempo di ribattere, dato che il suo interlocutore era scoppiato di nuovo a ridere e si stava allontanando con passi lunghi e rapidi, Caterina sentì il proprio sorriso spegnersi e, con uno strano nodo allo stomaco, andò nella sala delle armi, imbracciò la prima spada spuntata che le capitò sotto tiro e, presa la pietra cote, si diede da fare fino a quando non calò la notte.

 

L'ordine del Moro era arrivato al campo proprio mentre Vitelli e Gaspare Sanseverino litigavano facendo grosse parole in merito a come gestire la richiesta di Guidobaldo da Montefeltro.

Giovanni da Casale, ben felice di togliersi d'impiccio – era un soldato, non un diplomatico – aveva colto al volo la scusa del richiamo del Duca ed era partito subito, portandosi appresso appena una manciata di soldati.

Non gli piaceva l'idea di tornare a Milano. Aveva sperato, dal Casentino, di poter alla fine arrivare fino a Forlì e tornare dalla Tigre. In fondo, aveva pensato, Vitelli doveva rimangiare terreno ai veneziani. Se ci fosse riuscito, alla fin fine sarebbero arrivati in Romagna e lì Pirovano avrebbe potuto fermarsi da Caterina.

E invece aveva riattraversato buona parte d'Italia, facendo sì che il suo spirito di dovere risultasse più forte dell'attrazione che voleva sospingerlo verso la Sforza.

Quando era arrivato in città, il Moro l'aveva fatto accogliere da alcuni suoi uomini e da lì l'aveva portato a palazzo, in modo da poter parlamentare immediatamente con lui.

Non appena Giovanni si trovò dinnanzi al Duca, si rese conto che qualcosa in Ludovico era cambiato, dall'ultima volta che si erano visti.

Il viso dello Sforza, per quanto ancora ben pieno, era segnato da nuove rughe e i suoi occhi erano scuri come la notte, affossati da pesanti occhiaie, molto più inquieti di quando era morta sua moglie Beatrice.

Pirovano si sentì interrogare con domande molto precise e rispose a tutto basandosi su quanto aveva sentito e visto al campo di Vitelli. L'unica cosa che aggiunse rispetto a quanto il Moro avesse espressamente chiesto, fu la questione di Guidobaldo da Montefeltro.

“Spiegatevi meglio.” lo invitò il Duca, dopo che il soldato ebbe appena abbozzato il discorso.

“Guidobaldo da Montefeltro ha chiesto espressamente a Vitelli un salvacondotto per poter lasciare indenne il campo e ritirarsi a vita vita privata per curarsi.” disse Giovanni da Casale, gli occhi che indugiavano sul viso stanco del suo signore: “Sanseverino è contrario, ma credo che alla fine Vitelli accetterà.”

“E cos'avrebbe questo Montefeltro di così grave da piegare un uomo come Vitelli a concedergli di andarsene senza colpo ferire?” domandò il Moro, trovando quanto meno sospetta quella dimostrazione di umana pietà da parte del comandante generale delle truppe di Firenze.

“Guidobaldo soffre di gotta. Dicono che la podagra lo costringa a stare sdraiato quasi tutto il giorno e pare che si faccia il caso pericoloso di morte.” spiegò Pirovano, mentre, istintivamente, il suo pensiero correva a Caterina Sforza.

Ricordava benissimo di aver sentito parlare di come fosse morto il suo terzo marito, schiacciato proprio dalla gotta, così come stava forse per fare anche il Montefeltro. In un certo senso, immaginando al dolore che quella malattia sapeva causare, per un momento capì la magnanimità di Vitelli, ma ciò che il Duca di Milano disse subito dopo, lo fece ricredere.

“Un nemico la cui morte sarebbe un durissimo colpo per Venezia, secondo Vitelli, va lasciato andar via così?” fece Ludovico, scuotendo il capo: “Sono pronto a scommettere che quel maledetto ha la gotta, per carità, lo sanno tutti, ma che appena avrà il suo salvacondotto sarà pronto a rimettersi alla guida dell'esercito! È una trappola! Una richiesta immorale! E se Vitelli gli concederà il salvacondotto, allora concorderò con Firenze nel chiamarlo un traditore!”

Pirovano preferì non esprimersi apertamente, lasciando che fosse il suo signore a fare tutto, e, quando le domande del Moro furono concluse, l'uomo si congedò.

“Tenetevi a disposizione.” gli fece presente il Duca: “Prima di lasciarvi ripartire ho altre domande da farvi. Sapete di certo che la Francia sta...” Ludovico fece un'espressione sofferente, come se la sola idea di quanto stesse dicendo fosse una tragedia, e poi concluse, frettoloso: “Insomma, coi tempi che corrono, voglio essere certo di potermi fidare di Firenze.”

Pirovano, per quel che restava del giorno, rimase in disparte, evitando i membri della corte milanese. Non si sentiva a proprio agio, in mezzo ai nobili e alle dame che popolavano quel palazzo e avrebbe di gran lunga preferito poter ripartire all'istante.

Mentre camminava lungo il loggiato – troppo irrequieto per starsene in camera a rimuginare – il soldato si trovò a pensare che forse a Forlì si era trovato così bene anche perché la corte della Tigre era tutt'altro che la classica corte del signore di una città.

Tra le spesse pareti di pietra di Ravaldino, si era sentito molto più in una caserma che non nella dimora di un capo di Stato.

Con un sospiro un po' tremulo, l'uomo riabbassò lo sguardo, osservandosi la punta degli stivali e tirò su col naso, arrossato per il freddo pungente che penetrava anche attraverso le finestre – le quali, per volere stesso del Moro, erano in gran parte chiuse solo da uno strato di pergamena – del palazzo di Porta Giovia. Così non si accorse subito del giovane che, arrivato all'angolo, gli si era palesato dinnanzi.

“Voi qui.” la voce uscì dalle labbra sottili di Cesare Riario prima che il diciottenne potesse controllarle.

Pirovano, più che sorpreso nel trovarsi faccia a faccia con uno dei figli della Tigre, spalancò gli occhi e ammise: “Non sapevo foste a Milano.”

Il Riario, vestito come un prete e con le mani nascoste nelle tascone del suo abito nero, si morse l'interno della guancia e poi, senza nemmeno un cenno, fece per proseguire per la sua strada, ma Giovanni da Casale lo fermò, afferrandolo d'istinto per una manica: “Come sta vostra madre? Non ho più avuto sue notizie dirette, da che sono partito...”

Gli occhi di Cesare, se non fossero stati contornati dal suo viso pallido e smunto, avrebbero potuto ricordare proprio quelli di Caterina, in quel momento. Avevano la stessa espressione feroce che animava i suoi, quando qualcuno la infastidiva facendole domande a cui non aveva intenzione di rispondere.

“Voi siete stato solo uno dei suoi tanti amanti.” lo liquidò il Riario, scostando il braccio con uno strattone molto forte, per liberarsi dalla presa ancora salda di Pirovano: “Vi ha già dimenticato. Ora le sue notti le passa con Ottaviano Manfredi, quindi non datevi pena di sapere come stia. Se pensate di contare ancora qualcosa, per lei, allora siete solo un povero sciocco. E ora, perdonatemi, sono molto impegnato.”

A quelle parole, Pirovano fece mezzo passo indietro. Manfredi era stata una presenza abbastanza costante e molto irritante anche quando pure lui era a Forlì, ma quell'affermazione, detta con tanta deliberata cattiveria, lo avvilì. Si sentì ridicolo e si chiese fino a che punto il ragazzo avesse ragione, a parlargli a quel modo.

Osservando il figlio della Sforza che si allontanava di gran carriera, scalciando il suo vestone a ogni passo, Giovanni si passò una mano tra i capelli neri e poi sospirò. La voglia di tornare a Forlì era ancora grandissima, però, ora che si permetteva di pensarci con più distacco, cresceva anche la paura di restare deluso.

Tornò nella sua stanza e per quella sera chiese di non essere disturbato, a costo di indispettire il Moro. Non aveva voglia di parlare con nessuno, tanto meno con il tracotante Duca di Milano.

Voleva solo prendersi qualche ora per ragionare e, da lì, decidere come muoversi nei giorni a venire.

 

Quel giorno Caterina era andata al Quartiere Militare abbastanza presto e, quasi scesa la sera, era ancora intenta a occuparsi dell'addestramento di alcuni manipoli di soldati.

Un paio dei suoi Capitani la stavano spalleggiando e la donna stava cercando di rifinire alcuni battaglioni, nella speranza di farne truppe altamente specializzate.

“Lasciatemelo dire – fece Francesco Numai, annuendo tra sé – confesso che all'inizio ero molto scettico, riguardo le vostre idee. Creare un esercito stabile, volerlo addestrare spesso personalmente, spendere così tanto per la difesa... Ma adesso, sì, Contessa, adesso capisco che avevate l'occhio più lungimirante del mio.”

La Sforza, allentando il laccetto della corazzina che portava addosso – fino a pochi minuti prima si era prestata per mostrare a tutti, assieme al maestro d'armi, una particolare tecnica di combattimento con la spada lunga – gli fece un mezzo sorriso e commentò: “Abbiamo preso contadini, artigiani e commercianti e ne abbiamo fatto dei soldati. La cittadella che stiamo costruendo, poi, farà della rocca di Ravaldino una struttura quasi impossibile da aggredire. Dobbiamo solo trovare il modo di rimpolpare le scorte alimentari. Fatto quello, sfido chiunque a conquistarci.”

“Il lavoro che avete fatto è davvero ottimo.” concordò il Capitano Mongardini, che, al suo fianco, si era messo ad aiutarla con la corazzina: “Non potevo sperare in un comandante migliore di voi, mia signora. Ci si dimentica perfino che siate una donna.”

Le ultime parole erano scivolate fuori dalle labbra dell'uomo prima che potesse frenarsi, ma la Tigre parve non darvi troppo peso. Anzi, si mise a ridere e poi, dando una pacca a testa ai due Capitani, disse loro che voleva fare un'ultima ispezione nelle baracche, prima di tornare alla rocca.

Si addentrò nel Quartiere, controllando, più che altro, che non vi fossero segni di trascuratezza o grosse infrazioni alle norme che aveva imposto. L'igiene, per quanto fosse possibile curarla in quelle situazioni, era fondamentale. Troppi eserciti erano stati sconfitti da epidemie e sporcizia, la Contessa non voleva commettere lo stesso errore.

Appurato che fosse tutto bene o male in ordine, la donna lasciò il Quartiere Militare, non prima di aver dato un'ultima occhiata ai soldati più giovani, che si stavano ancora dando da fare nella piazza centrale. Li voleva forti e pronti a tutto. E non solo per essere bravi uomini d'armi.

Faticava a volte ad ammetterlo anche con se stessa, ma non poteva negare di vedere molti di loro anche sotto una luce meno marziale. Prima o poi, si diceva, Manfredi sarebbe partito per il Casentino e alla fine sarebbe andato a Faenza. Giovanni da Casale forse non sarebbe tornato mai più. E lei non riusciva più a stare da sola. Sapere di avere una riserva di caccia tanto munifica era una consolazione che le permetteva, se non altro, di levarsi un pensiero di troppo.

Era sulla strada di ritorno per la rocca e già vedeva in lontananza, sotto la luce incerta della sera, la statua bronzea di Giacomo. Era in gran parte coperta di neve, ma il profilo del giovane che con il suo amore, rustico ed esigente, ma così profondo, le aveva sconvolto la vita era ben visibile.

Un moto di nostalgia e dolore le strinse il cuore e, prima che se ne rendesse conto, aveva voltato i tacchi, diretta alla chiesa di San Girolamo.

Era deserta, a quell'ora. L'aria era immobile e fredda, con un odore vago di incenso e candele. Il suo respiro sollevava grandi nuvole di vapore e i suoi passi risuonavano ovattati e lontani.

Andò fino alla tomba del suo secondo marito e si mise a fissarla. Si perse nei suoi pensieri e alla fine si trovò a dare ragione a Ottaviano Manfredi: quella chiesa era la più tranquilla e pacifica della città.

Appoggiò una mano alla lapide e si disse che anche lei, in effetti, nel caso in cui le fosse stata concessa dal fato una scelta, avrebbe voluto che il suo corpo fosse tumulato lì, accanto a Giacomo.

Si morse il labbro, pensando a come Giovanni, invece, fosse a Firenze. Non sapeva nemmeno dire dove di preciso. Il silenzio e l'ostilità di suo cognato, le aveva reso impossibile anche quella consolazione.

Con un sospiro spezzato, lasciò la cappella dei Feo, riattraversò la navata centrale, a passo lento, come a voler trattenere quel senso di quiete, per quanto fosse triste, e poi uscì di nuovo in strada.

Quando finalmente tornò a Ravaldino, il castellano la cercò subito per dirle: “Messer Ridolfi è arrivato mentre voi non c'eravate. Il suo seguito attende al nord della città, mentre lui è qui, per rendervi omaggio e sapere dove potrà alloggiare.”

La Sforza si costrinse a uscire dai suoi ricordi e tornare al presente e così, massaggiandosi un po' la fronte, sospirò: “Fatelo aspettare nel vostro studiolo. Fate portare del vino e del cibo: sarà affamato e temo che sarà una lunga notte. Abbiamo bisogno di parlare di molte cose e credo sia molto meglio farlo subito. Ditegli che tra qualche istante sarò da lui.”

Cesare Feo annuì, ossequioso e poi soggiunse: “Sappiate che è da solo. Mia nipote Lucrezia ha preferito restare in campagna, per curare i loro affari.”

Caterina, distratta, annuì appena e andò dritta in camera sua. Voleva cambiarsi d'abito e pensare un momento a come gestire Simone Ridolfi.

Quando, pochi minuti dopo, uscì in corridoio, trovò ad attenderla Manfredi e Luffo Numai. Lo strano abbinamento la fece corrucciare, ma il Consigliere parlò prima che fosse lei a chiedere che fosse capitato.

“Annibale Bentivoglio si è ritirato a Bologna, ufficialmente per mancanza di foraggio per la sua cavalleria.” disse Luffo: “Come vedete, mia signora, vi tengo informata all'istante di ogni notizia che ci giunge.”

La Tigre fece un altro paio di domande, soprattutto in merito alla reazione veneziana a quella che sembrava una defezione in piena regola e poi, soddisfatta, congedò Numai e Manfredi, dicendo di avere un impegno importante.

“Impegno importante... Ma stanotte avrai tempo per me?” chiese Ottaviano, quando Luffo fu lontano.

Caterina sentì le labbra dell'uomo sfiorarle l'orecchio, mentre le faceva quella domanda. Fosse dipeso da lei, avrebbe ritardato al giorno appresso l'incontro con Ridolfi e si sarebbe chiusa subito in camera con il suo giovane amante, ma gli Affari di Stato avevano condizionato la sua vita fin da bambina, fin da quando non era ancora nata, e suo padre aveva visto sfumare l'ipotesi di sposare Lucrezia Landriani perché al Ducato serviva una Duchessa di tutt'altra levatura.

Immaginava che il discorso con Simone sarebbe durato a lungo, così rispose cercando di non dare troppe speranze al suo amante: “Non aspettarmi sveglio. Se quando avrò finito con il nuovo Governatore di Forlì avrò ancora voglia di te, verrò a cercarti io.”

Manfredi sentiva lo stomaco stringersi e sapeva che la donna aveva scelto quelle parole solo per torturarlo. Non aveva mai sentito dire nulla, su di lei e Ridolfi, ma il tono e la frase che aveva usato, così facili da fraintendere, se in bocca a una donna dai forti appetiti come lei, ebbero il potere di instillare in Ottaviano il dubbio.

“Non cercarmi tanto presto, Tigre – fece lui, sollevando appena un mezzo sorrisetto – perché nell'attesa penso che farò un giro in città. E potrei stancarmi molto. Se quando mi cercherai avrò ancora voglia di te, allora ti seguirò, altrimenti...”

La Contessa scosse il capo e si allontanò, chiudendo la questione con un semplice: “Ci vediamo dopo, Manfredi.”

 
   
 
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