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Autore: Adeia Di Elferas    27/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Simone restò con il capo chino, quando sentì la porta aprirsi e la voce della Sforza salutarlo. Il tono gli parve sufficientemente neutro da permettergli di sollevare lo sguardo senza rischiare di incappare in repentini rimproveri e così poté vedere come la Contessa si fosse presentata al colloquio con addosso abiti di poco valore e senza nemmeno un gioiello.

La donna gli fece segno di accomodarsi sulla sedia che stava davanti alla scrivania, e lei si sistemò su quella del castellano. Portava i capelli sciolti e il viso era teso, pensieroso. Ridolfi la ricordava poco dopo la morte di Giovanni, ma avrebbe potuto quasi dire che la trovava molto più provata di quanto non fosse stata allora.

Sulla scrivania erano stati sistemati una grande brocca di vino scuro con due calici di legno e un vassoio pieno di formaggio e salumi. Il profumo che ne arrivava stava facendo borbottare lo stomaco del Governatore, ma l'uomo era così teso che, forse, se anche avesse ricevuto il permesso di mangiare, non ci sarebbe riuscito.

“Vi sarete chiesto perché vi ho chiamato a Forlì.” iniziò a dire la Tigre, soffiando e giungendo le mani in grembo, gli occhi verdi che indagavano tacitamente il viso di Simone, nascosto in parte dalla barba folta e in parte dai capelli lunghi e un po' disordinati.

“Me lo sono chiesto, sì. Mi volete come nuovo Governatore di Forlì, questo avete detto, ma, insomma, con voi è sempre difficile dire dove stia la verità e dove il sottinteso. Solo uno stupido non si sarebbe chiesto il vero motivo della mia convocazione, non credete?” fece lui, a mo' di risposta.

Caterina lo fissò ancora un momento, tentata di riprenderlo per come le si era rivolto. Essendo un uomo alle sue dipendenze, con il quale, in fondo, non aveva una gran familiarità, sarebbe stato giusto per lui chiamarla come minimo 'mia signora', come facevano gli altri. Ed evitare il sarcasmo, soprattutto.

“Sappiate che nei vostri confronti resto ben disposta.” fece la Tigre, decisa con tutta se stessa a non perdere la calma e fare quello che aveva deciso di fare fin dall'inizio: “Mio marito Giovanni era vostro parente e un vostro caro amico e vostra moglie Lucrezia è mia cognat...”

Ridolfi fece uno sbuffo quasi divertito, quando sentì nominare la moglie, e così la Sforza smise all'istante di parlare, guardandolo stranita: “Che c'è?”

Simone sollevò una mano e scosse appena la testa: “Preferirei non parlare di lei.”

Solo in quel momento la Contessa si ricordò che le era stato detto dal castellano che la Feo non aveva seguito il marito. Pensando che si dovesse trattare di qualche questione prettamente familiare, preferì non indagare oltre.

“Veniamo al dunque, Ridolfi.” fece, lasciando perdere tutte le parole di contorno che aveva pensato inizialmente di usare: “Se vi ho chiamato a Forlì per esserne il nuovo Governatore i motivi sono sostanzialmente due. Prima di tutto credo che questa città abbia di nuovo bisogno di un Governatore che si occupi in modo esclusivo di riorganizzare Forlì in vista di un attacco.”

“Credete che stiano per attaccarci?” chiese Simone, interrompendola.

“Siamo in guerra, è normale attendersi un attacco – fece notare la donna, stringendo appena le labbra – e il secondo motivo per cui vi ho richiamato qui è che ho saputo che non siete più molto amato, a Imola, e questo vi porta a temere per la vostra vita e a svolgere il vostro ruolo in modo frammentario e impreciso.”

Ridolfi guardò altrove. Quello che la Contessa stava dicendo, secondo lui, era vero solo in parte, ma non se la sentiva di sindacare troppo, prima di farla arrabbiare davvero.

“Spero che qui a Forlì avrete meno freni, nel vostro operato. Non dovrete curare in prima persona l'esercito. Ho nominato primo Capitano delle guardie Bartolomeo Maldenti e oltre a Mongardini, Rossetti e Golfarelli, le reclute vengono istruite da Bartolomeo Codiferro e Tommaso Numai. E dunque a voi spetterà solo ed esclusivamente la cura della città nei suoi aspetti amministrativi ed economici.” spiegò la Tigre, prendendo finalmente la brocca di vino e riempiendo il calice a entrambi.

Simone accettò con un cenno di ringraziamento la coppa e se la portò alle labbra nello stesso momento in cui lo fece Caterina, anche se, a differenza della Sforza, che lo bevve quasi tutto d'un fiato, lui si fermò dopo appena un sorso.

“Posso sapere se questa decisione è dovuta a un eccesso di zelo nel dividere i compiti o a una mancanza di fiducia nei miei confronti?” domandò, mentre la Leonessa stava ancora finendo di bere.

Lo sguardo che lei gli lanciò bastò come risposta, tuttavia le sue parole furono meno dirette: “Vi ho preso al mio servizio su richiesta di Giovanni. Sapevo che eravate un uomo di calcolo e non d'armi, è stato un mio errore darvi la delega sull'organizzazione delle truppe di Imola.”

Mentre la Contessa prendeva qualche pezzo di formaggio e cominciava a mangiare, Ridolfi riappoggiò il calice sulla scrivania e disse: “Mia moglie non ha voluto seguirmi perché ha paura di voi.”

Caterina smise per un istante di masticare, ma poi riprese, deglutì e commentò: “Mi spiace per voi, ma non dipende da me: è un problema suo. Non ho mai fatto nulla contro di lei.”

Simone annuì appena, la rabbia per il rifiuto di Lucrezia ancora tanto viva da impedirgli di mantenere la calma come avrebbe voluto: “Volete sapere perché a Imola avevo paura a girare per le strade senza addosso una corazza?”

“Sì.” fece la donna, che voleva realmente capire cosa stesse succedendo in quella sua città, in cui non andava da troppo tempo.

“Ebbene, in virtù del nostro legame comune con Giovanni, voglio parlarvi molto chiaro, come avrei parlato a lui. La gente, a Imola, odia i Riario. I vostri figli, soprattutto. Ottaviano in particolare. La storia di quella ragazza che è venuta a Imola a partorire sua figlia, poi, ha dato il colpo di grazia.” cominciò a dire Ridolfi, liberandosi di un peso e prendendo finalmente qualche fetta di salame per riempire il buco che aveva nello stomaco: “E di rimando, hanno cominciato a odiare anche voi. Mancate dalla città da anni, e la popolazione lo vede come un affronto. Io ero la vostra immagine e quando ho dovuto portare avanti gli arruolamenti forzati di qualche mese fa, la gente ha cominciato a odiarmi ancora più di quanto non odiasse voi. Date retta a me: se qualcuno, chiunque, perfino i veneziani, provassero a far leva sulla popolazione di Imola, troverebbe terreno fertile e voi potreste dire subito addio alla vostra bella città.”

La Tigre stava ascoltando in silenzio, una mano attorno al calice di vino e l'altra appoggiata alla scrivania. Quelle parole stavano solo confermando uno dei suoi dubbi più atroci.

“Imola mi è costata troppo. Non voglio perderla.” sussurrò la donna, ricordandosi in modo anche troppo feroce e improvviso il matrimonio con Girolamo Riario, un crudele contratto di schiavitù che suo padre il Duca aveva firmato proprio per sottrarsi, senza scatenare una guerra, a un contenzioso, nato per un suo deprecabile colpo di testa, tra Milano, Firenze e Roma che aveva come oggetto proprio Imola.

Ridolfi sollevò appena un sopracciglio: “Costata troppo? Ve l'ha donata vostro padre.”

Caterina non era mai stata certa di quanto Giovanni parlasse con Simone, quando erano soli. Era convinta che non gli piacesse raccontare ciò che lei gli confidava in privato, però si sorprese ugualmente nel sentire il fiorentino ribattere a quel modo.

Il Governatore aveva tanti difetti, ma non era un uomo insensibile, quindi la spiegazione più logica era che sapesse solo la mezza Messa.

“Prendete da bere. Voglio raccontarvi una cosa e credo che un po' di vino sia necessario.” disse piano la donna, riempiendo il calice a Ridolfi: “Dobbiamo collaborare, se vogliamo che questo Statoi resti in piedi, e per farlo credo sia necessario che voi mi conosciate meglio, o finiremo per non capirci mai del tutto.”

Questi, corrucciandosi, accettò e bevve subito un po', pronto ad ascoltare ciò che la Sforza aveva da dire.

 

Lorenzo teneva le mani giunte sul petto e gli occhi chiusi. Era inginocchiato almeno da mezz'ora, ma non sentiva nemmeno più fastidio alle gambe.

La luce malferma delle candele era l'unica che lo rischiarasse, ma per quanto lo riguardava, quella notte la cappella privata del suo palazzo, quella che tutti chiamavano la Cappella dei Magi, era più buia di un cielo senza luna.

Sapeva che non avrebbe dovuto sentirsi così sperso e arido, in quel momento. Erano stati giorni di distensione, alla Signoria: malgrado le incomprensioni con gli alleati di Milano e i sospetti verso Paolo Vitelli, Firenze aveva potuto festeggiare i grandi successi del proprio esercito, che stava rispedendo indietro, uno dopo l'altro, tutti i condottieri veneziani, a partire dal temutissimo Bartolomeo d'Alviano.

Però il Medici non sapeva combattersi, non sapeva contrastare l'ombra che sembrava dilaniarlo sempre di più, giorno dopo giorno. Gli sembrava che nulla avesse più un vero senso e, per ogni buona notizia e buon sentimento che lo sfiorava, gliene piombavano addosso di negativi, amplificati e ingigantiti dal suo occhio appannato.

Fece un respiro un po' più fondo degli altri, e poi sollevò un po' il capo verso l'altare. Guardò il crocifisso e si chiese se le sue preghiere potessero davvero arrivare laddove serviva. In realtà quello era stato più un momento di riflessione che altro, ma Lorenzo si disse che sperare di essere stato capito ed ascoltato non gli sarebbe comunque costato nulla.

Fece per alzarsi, ma dovette mettersi d'impegno, per farlo. Forse, ragionandosi, era rimasto più di mezz'ora, in ginocchio. Aveva le gambe addormentate e, non appena si mise in piedi, si rese conto di quanto gli facessero male.

Aveva appena trentacinque anni, ma quella notte se ne sentiva addosso almeno venti in più. Era rimasto completamente solo alla guida della famiglia e, inutile provare a pensare il contrario, di Firenze.

Era solo in mezzo a una selva di nemici, alcuni dei quali portavano il suo stesso cognome, e non poteva nemmeno sperare di avere alleati in casa propria, dato che sua moglie era una donna, senza peso politico, per quanto intelligente, e i suoi figli erano ancora tutti troppo piccoli.

Se solo ci fosse stato ancora suo fratello Giovanni...

Con un sospiro rotto, Lorenzo si fece il segno della croce e si voltò, soprappensiero. Sentì quasi mancargli un battito, quando si accorse di non essere solo.

Tentando invano di apparire tranquillo, benché il suo cuore stesse ancora galoppando, chiese: “Da quando sei qui?”

Semiramide, in piedi in fondo alla cappella, sollevò le spalle e rispose, in un sussurro: “Almeno un'ora.”

Il Popolano si irritò molto scoprendo di non essersi accorto di lei per così tanto tempo, ma poi si diede un tono e domandò: “E perché sei qui?”

“Volevo pregare, come te.” disse piano la donna, sollevando lo sguardo verso gli affreschi sulle pareti, dove personaggi della loro famiglia e non solo si rincorrevano in una sequela di generazioni e simbologie che le davano uno strano senso di quiete.

In un certo senso, quell'opera di Gozzoli, le dava l'impressione che il tempo passasse, ma che i Medici e tutto il resto del mondo fossero destinati a durare per sempre, con o senza di lei.

“Perché non mi hai fatto capire che c'eri anche tu?” domandò secco Lorenzo, gli occhi tondi che evitavano di guardarla, preferendo seguire i profili dei suoi avi dipinti sulle pareti.

“Non volevo disturbarti.” fece lei: “Non ti vedevo tanto tranquillo da mesi.”

Il Medici avrebbe voluto dirle che, se avesse potuto vedergli nell'anima, avrebbe trovato di tutto, fuorché la tranquillità che aveva creduto di scorgere in lui, ma preferì tagliare il discorso a metà con un brevissimo suono di approvazione.

Marito e moglie restarono immobili per qualche minuto, senza guardarsi, senza cercare un punto di contatto, benché entrambi, in modi diversi, l'avrebbero voluto.

Alla fine, con un sospiro, Semiramide osservò il profilo di un altro Lorenzo, quello che era stato definito Magnifico da Firenze, e che dall'affresco sulla parete sembrava fissarla con un sorriso sibillino: “Sai, oggi mentre ero a comprare della stoffa, ho sentito due servi della casa di Salviati parlare... Stavano acquistando delle cose particolari, così mi sono incuriosita...”

“Non vedo come le chiacchiere dei servi di Salviati possano interessarmi.” ribatté aspro il Popolano, tentato di andarsene, per non doversi sorbire delle chiacchiere inutili.

L'Appiani batté lentamente un tacco sul porfido del pavimento, come sempre molto indisposta dal tono aggressivo del marito. Ricordava ancora molto bene quanto fosse sempre gentile e disponibile, con lei. Anche se il loro era stato un matrimonio combinato a tavolino, anche se lui non era mai stato bello, né particolarmente attraente, i suoi modi e il suo amore l'avevano reso agli occhi di Semiramide l'uomo più desiderabile del mondo. E poi, qualcosa si era rotto e non era mai più tornato intero.

“Dicevano che la loro padrona è di nuovo incinta. Da poco, perché si aspettano che il bambino nasca in estate.” fece piano la donna, che avrebbe tanto voluto poter tornare a parlare anche di quelle cose, con Lorenzo, come facevano un tempo.

L'uomo, invece, nel sentire quella novità, strinse le labbra e commentò: “Mia cugina e quel fantoccio di suo marito sono peggio di conigli.”

“Hanno cinque figli. Come noi.” gli fece notare Semiramide.

“Noi adesso ne abbiamo solo quattro.” controbatté cupo il Medici.

Per un breve istante i due si guardarono negli occhi e l'ostilità venne rimpiazzata dal dolore, ancora vivo, per la morte di Averardo. Erano ormai passati più di tre anni, ma era come se non fosse passato nemmeno un giorno.

“Ne abbiamo ancora quattro.” fece eco Semiramide, trattenendosi dalle lacrime al solo scopo di andare avanti e toccare finalmente il discorso che davvero l'aveva portata alla cappella.

“Allora...” fece il Popolano, come riscuotendosi, allacciando le corte braccia dietro la schiena e oscurandosi di nuovo in viso: “Sei venuta qui per angustiarmi o che altro?”

La donna si schiarì la voce e, facendosi molto più inquisitoria, disse: “Oggi ho visto i nostri consiglieri legali uscire da palazzo. Cosa sono venuti a fare, di preciso?”

Lorenzo si grattò la guancia, che si era fatta scavata, e poi decise di vuotare il sacco, dato che prima o poi sua moglie avrebbe scoperto tutto, che lui glielo avesse rivelato o meno: “Ho chiesto loro come fare a ottenere in modo legale e indiscutibile tutto ciò che era di mio fratello.”

L'Appiani non disse nulla, anche se avvertì uno strano senso di pesantezza a livello del cuore. Era certa che Giovanni non avrebbe mai voluto lasciare la moglie, e soprattutto il figlio, senza le sue sostanze. Se si era impegnato così tanto per la Sforza, arrivando perfino a chiedere per lei e per tutti i suoi figli la cittadinanza fiorentina, significava che voleva dare a tutti loro una garanzia per il futuro, anche in sua assenza.

“Pare – riprese Lorenzo, un po' incoraggiato dal silenzio di Semiramide, che mal interpretò come mera attenzione e non come contrarietà – che l'unico modo sicuro e inattaccabile sia chiedere e ottenere l'affidamento legale del bambino.”

“La Sforza non accetterà mai, lo sai.” fece a quel punto la donna: “Senza contare che lei ha già accettato la tutela del figlio e quindi non...”

“Ah!” la interruppe lui, alzando una mano in un gesto di stizza: “Le sue dichiarazioni per lettera valgono meno di un soldo bucato! Quello che dice o scrive non ha alcun valore, se prima non pubblica il matrimonio. E sai quanto me che, se anche si fosse davvero sposata con mio fratello, non si azzarderà mai a farlo. Rischia troppo. L'Imperatore da un lato, il papa dall'altro... In questo momento, farebbero a gara per toglierle la potestà sui figli e quindi lo Stato.”

La moglie ascoltava attonita le parole di Lorenzo, incredula nel sentire come lui fosse ancora convinto del fatto che in realtà la Tigre e Giovanni non si fossero mai sposati, ma un po' meno tranquilla nel pensare a come, in effetti, quell'aut aut avrebbe potuto mettere in crisi la Sforza. Non la conosceva abbastanza, per sapere come avrebbe reagito dinnanzi a quell'eventualità.

Sperava che l'amore verso Giovanni la portasse a rischiare perfino lo Stato, pur di non rinunciare a suo figlio, ma...

“E quindi porteremmo qui a Firenze nostro nipote?” chiese l'Appiani, cercando di capire meglio cos'avesse in mente il marito.

Il Medici sollevò un sopracciglio e disse: “Fermo restando che dubito che quello sia davvero nostro nipote, sì, lo porteremmo qui. E poi si vedrà che farne.”

“Non è quello che avrebbe voluto Giovanni.” sussurrò Semiramide, abbassando lo sguardo.

“Non credere di sapere meglio di me cosa si debba fare.” la redarguì Lorenzo, perdendo la pazienza una volta per tutte e andando in fretta alla porta: “In questa cosa comando io. Io e nessun altro. Che ti sia chiaro.”

La moglie non ribatté, né provò a fermarlo. Si sentiva impotente e sconfitta e l'unica cosa che le parve utile provare a fare, fu pregare. Si inginocchiò davanti all'altare, laddove poco prima era stato il Popolano e poi, le mani giunte, invocò Dio, affinché ridesse lucidità a Lorenzo, permettendogli di nuovo di vedere quello che l'odio e il dolore gli stavano nascondendo.

 

Ridolfi annuì per l'ennesima volta. Senza volerlo davvero, lui e la Sforza avevano finito per scolarsi tre caraffe colme di vino e avevano appena vuotato anche l'ultima.

La donna aveva constata come, forse, fosse meglio ritirarsi, piuttosto che farne portare un'altra e l'uomo s'era detto d'accordo.

Con il passare delle ore, e con quello che avevano bevuto a smussare gli angoli, i due avevano finito per parlarsi con franchezza del proprio passato e anche della propria situazione presente. Se da un lato Simone aveva compreso alcune sfaccettature della Contessa che prima non riusciva in alcun modo a capire, dall'altro anche Caterina aveva avuto modo di comprendere maggiormente il carattere del fiorentino e ad accettarne le spigolature.

“E di Ludovico cosa mi dite?” fece Ridolfi, prendendo uno degli ultimi pezzetti di formaggio rimasti.

La Tigre si accigliò e poi lo corresse: “Giovanni. Mio figlio adesso si chiama Giovanni.”

L'altro fece uno sbuffo, a metà strada tra uno risata e una smorfia triste: “Perdonatemi, non riesco ad abituarmi all'idea che si chiami come suo padre.”

La Sforza fece un cenno, come a dire che lo capiva, e poi, aiutandolo a finire gli ultimi rimasugli di cibo, rispose: “Sta crescendo bene e spero che diventi intelligente come suo padre. Voglio difenderlo come meglio posso, e uscire viva da questa guerra è fondamentale per riuscirci.”

Simone provò a inclinare per l'ultima volta il suo calice ligneo, ma ovviamente lo trovò del tutto asciutto. Annusò con una vaga malinconia il profumo pieno del vino scuro che aveva bevuto per tutta la notte, e poi fece schioccare la lingua. Non si sentiva ubriaco, benché lo fosse sicuramente, ma cominciava a sentirsi veramente stanco.

Anche la Leonessa si sentiva intorpidita e trovava che ormai lei e il Governatore non avessero altro da dirsi, almeno per quella notte. Così, approfittando del momento di silenzio, sospirò e si alzò.

Anche l'uomo lasciò la sua sedia, anche se dovette tenersi un momento alla scrivania, per non barcollare.

La Contessa sembrava molto più in sé di quanto non fosse lui, e prese in mano la situazione. Gli si parò davanti e prese una delle sue grandi mani tra le proprie.

“Vi prego: non deludetemi.” gli disse, cercando il suo sguardo un po' acquoso.

“Non lo farò. Per Giovanni.” promise Ridolfi, agendo d'istinto, come faceva spesso, finendo per abbracciarla.

Caterina, per quanto un po' sconcertata da quel modo di fare, accettò la stretta e, anzi, per qualche istante si godette l'abbraccio caldo e sicuro dell'uomo che aveva davanti, finendo per chiedersi cosa mai avesse portato Lucrezia Feo ad allontanarsi da uno come Simone.

“Ora... Non mi avete detto dove...” farfugliò il fiorentino, apparendo un po' confuso: “I miei bagagli sono ancora vicino alle porte e...”

“Immagino che il vostro seguito, non vedendovi tornare, abbia cercato dove dormire. Voi, per quel poco che manca all'alba, potete scegliervi una stanza vuota e riposare lì.” decise subito la donna, rendendosi conto solo in quel momento di aver tralasciato un simile dettaglio.

Il Governatore la ringraziò, le fece un goffo baciamano, accompagnato da una risatina dovuta al troppo vino e, andando alla porta, concluse: “Spero ci sia un vaso da notte, nella stanza che sceglierò. Con tutto quel vino..!”

La Tigre lo lasciò uscire, poi si attardò a spegnere tutte le candele e a smorzare le fiamme del camino. Era stata una nottata molto impegnativa e avrebbe voluto solo una cosa, in quel momento.

Parlare con Ridolfi l'aveva sprofondata nei ricordi e nei rimpianti. Aveva parlato di Milano, poi di Giacomo, e di cosa era stato per lei Giovanni. Sapere che l'attendeva un letto vuoto e freddo era la cosa peggiore.

Passò da uno degli sgabuzzini di servizio, e poi raggiunse la sua camera, immersa nei propri pensieri. Non le facevano bene, quelle notti insonni, né l'eccedere tanto col vino, ma a volte era più forte di lei. Anche mentre camminava, a passi lenti e cadenzati, le sembrava quasi che il sonno si allontanasse sempre di più, quando, invece, era conscia della fatica che il suo fisico stava facendo a causa di tutte quelle cattive abitudini.

“Ti stavo aspettando.” Ottaviano Manfredi, appoggiato alla finestra che dava sul cortile d'addestramento, si raddrizzò e le andò incontro, sotto alla luce delle torce: “Ascolta, Tigre, te lo diranno ufficialmente domani, ma ho sentito i Numai parlarne, i due Capitani, e pare che i soldati veneziani in rotta dal Casentino si siano fermati appena prima di Ravenna.”

Caterina, sentendosi parlare tanto velocemente, e di cose che in quel momento le sembravano così lontane da essere pressoché astratte, aggrottò la fronte e commentò: “Se me lo diranno domani, allora adesso lasciami in pace...”

“Sei ubriaca?” chiese Manfredi, osservandola meglio.

Erano stati più l'odore vinoso che arrivava dalle sue labbra e il suo apparente disinteresse per gli affari di guerra a fargli venire quel dubbio.

“Se anche fosse?” fece di rimando la Leonessa, facendolo scostare, per arrivare alla porta della sua camera: “Avanti, sono stanca, lasciami passare. Di guerra parleremo domani.”

“Non vuoi passare un po' di tempo con me?” chiese lui, provando a posarle una mano sul fianco, le spalle larghe e dritte, quasi volesse mettersi in mostra, per facilitare la scelta alla sua amante.

Caterina fece un paio di profondi respiri. Aveva bevuto parecchio, quello era vero, ma l'aveva fatto lentamente, finendo per raggiungere una sorta di ovattata coscienza che le permetteva comunque di essere sufficientemente padrona di sé.

Ripensò a Giovanni, con un morso allo stomaco, al modo in cui lui, trovandola in quello stato, non avrebbe nemmeno provato a sedurla. Le avrebbe fatto capire che non la voleva in quel modo, perché era troppo facile e sleale, avere ragione di qualcuno annebbiato dal vino. E ripensò anche a Giacomo. Nemmeno lui l'avrebbe fatto, anzi, si sarebbe arrabbiato, e magari l'avrebbe anche lasciata sola, andando a stemperare la rabbia camminando per la rocca.

Risollevò gli occhi fino a fronteggiare quelli azzurrissimi del faentino e capì una volta di più quanto quell'uomo fosse diverso dai due che aveva amato a sposato.

Così, cedendo a una voglia che il vino aveva il potere di amplificare, lo prese per mano e lo portò in camera.

Si stancò abbastanza in fretta, il sonno che, placata la sete del corpo, tornava a chiederle il conto. Si accoccolò sotto alle coperte, apprezzando per qualche minuto il calore del petto di Ottaviano contro la sua schiena, e le sue braccia attorno al corpo.

Tuttavia, quando fu prossima ad addormentarsi, si sistemò meglio sotto le coperte e gli disse: “Ora vattene.”

Manfredi, con un sospiro pesante, non se lo fece ripetere. Lasciò il tepore del letto e si rivestì in fretta, lasciando la stanza senza nemmeno aggiungere una parola.

Nel silenzio della sua tana, la Tigre si sentì profondamente sola. Poteva fare e dire quel che voleva, ma non aveva nessuno al suo fianco. Anche se di Ridolfi si fidava abbastanza, e anche se poteva contare su uomini d'armi capaci e fedeli, quando la giornata finiva, era sola con se stessa, ed era una cosa che la spaventava enormemente.

Cercando di tacitare il proprio cuore, che correva rapido, la donna affondò il viso nel cuscino, le lenzuola soffici che le accarezzavano la pelle e il calore delle coperte pesanti che la proteggevano dall'inverno.

Si addormentò prima che se ne rendesse conto, ma non passò molto prima che un incubo la risvegliasse. Madida di sudore e con il fiato corto, le mani che tremavano, mentre ancora sentivano prepotente e anche troppo reale la sensazione dei pugni che aveva inferto a Ludovico Marcobelli quando l'aveva ucciso, la Leonessa si mise a sedere.

Si passò una mano sul volto e poi andò alla finestra. La pelle nuda, lambita dall'aria fredda, si accapponò, mentre i suoi occhi verdi seguivano la linea dell'orizzonte, per capire da quanto fosse sorto il sole.

Si infilò stancamente una vestaglia, e lasciò quella camera, por chiudersi in quella accanto. Accese un paio di candele, si sedette alla scrivania e prese il necessario per scrivere.

Anche se quel giorno – lo sperava, soprattutto dopo le ultime severe disposizioni che aveva dato in merito alle informazioni che dovevano raggiungerla tempestivamente – le avrebbero fornito più dettagli, la Sforza non voleva perdere tempo e imbastì una lettera rivolta a suo zio, per informarlo del fatto che i veneziani scappati dal Casentino si stavano ammucchiando nella zona di Ravenna e che, da lì, a suo dire, avrebbero potuto sferrare un attacco diretto a lei.

Lasciò il foglio aperto, sia per lasciare asciugare l'inchiostro, sia per ricordarsi di completare il messaggio in un secondo momento, e poi, con movimenti un po' spenti, si vestì per la giornata che l'attendeva.

 
   
 
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