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Autore: Adeia Di Elferas    30/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Corbizzo Corbizzi aveva appena lasciato Forlì. Alle sue spalle poteva ancora vedere le mura della città, mentre la sua testa era ancora immersa nelle parole che la Tigre gli aveva rivolto.

Era stato mandato alla corte della Contessa direttamente dalla Signoria di Firenze, che, desiderosa di capire meglio le contraddittorie mosse dell'alleata, aveva usato lui come tramite.

Corbizzo, infatti, benché di nobili origini fiorentine, viveva da sempre a Castrocaro e quell'essere per metà toscano e per metà romagnolo gli permetteva – a detta di quelli che gli avevano affidato l'incarico – l'uomo giusto per una missione tanto delicata. Quando aveva saputo che Firenze cercava con lei una mediazione tramite lui, poi, era stata la stessa Sforza a chiamarlo alla sua rocca, dandogli un giorno e un'ora ben precisi per l'incontro.

In realtà il loro colloquio era stato molto breve e quasi sbrigativo. La donna non si era sbilanciata, anzi, aveva lasciato l'emissario fiorentino molto confuso. Invece di chiarire la sua posizione in merito a Ottaviano Manfredi – il che era una delle questioni che premevano maggiormente alla Signoria, che temeva di vedere il faentino sfruttato dalla Leonessa per fini poco chiari, magari perfino ai danni della Repubblica – Caterina non aveva fatto altro che riempirlo di vuote parole e scarse promesse, finendo per mandarlo via, con gentilezza, ma con fermezza.

La giornata era fredda e non nevicava, anche se lungo la via c'erano punti molto scivolosi. Mentre il paesaggio gli si faceva più familiare, Corbizzi ripensò alla figura sfuggente in cui si era imbattuto appena prima di lasciare Ravaldino. Anche se non lo conosceva di persona, i capelli lunghi e biondi e gli occhi azzurri, che tanto venivano decantati da quelli che ne raccontavano le scorrerie, gli avevano fatto capire che l'uomo che aveva intravisto dovesse essere Ottaviano Manfredi.

Non gli era piaciuto il modo in cui l'aveva guardato. Era un insieme di sospetto e dileggio, qualcosa di difficile da spiegare. Quale che fosse la sensazione che gli diede, comunque, dopo aver incrociato i suoi occhi freddi, a Corbizzo l'unica cosa che interessò fu andarsene in fretta da Forlì.

La strada era quasi deserta. Aveva incontrato un paio di mercanti e un pellegrino, e nessun altro. Si sapeva, ormai, che non erano solo le temperature rigide a frenare gli spostamenti, ma soprattutto la paura di imbattersi in qualche soldato ramingo. Non si sapeva mai da che parte stesse, un uomo con la spada al fianco. Anzi, il più delle volte, pareva che stesse dalla parte del guadagno facile e basta, e cosa c'era di più facile, se non rapinare un povero viandante?

Nel pensarvi, l'uomo si strinse un po' nelle spalle e proseguì il suo cammino, lo sguardo al suolo.

Aveva preferito andare a piedi, quel giorno, piuttosto che a cavallo. Faceva freddo e la neve ghiacciata in terra era troppo scivolosa, per i preziosi zoccoli dei suoi animali. In fondo, da Forlì a Castrocaro ci volevano circa tre ore, meno, se fosse andato di buon passo, quindi non si trattava di un'impresa impossibile, nemmeno per un uomo poco avvezzo alle camminate quale era lui.

Anzi, mentre teneva il capo chino e teneva d'occhio la strada su cui posava i piedi, si trovò perfino a pensare che quella fosse stata una decisione più che felice: poteva godersi un po' di tranquillità, senza il suono monotono e fastidioso dal galoppare del cavallo.

Fu così che, quando si sentì chiamare e sollevò gli occhi, si sorprese di trovarsi dinnanzi quattro uomini. Conosceva solo quello che stava più avanti e che gli stava tendendo la mano.

Era un suo vecchio amico, un faentino, che aveva conosciuto in gioventù, ma con cui poi aveva perso quasi del tutto i contatti. Anzi, un po' si sorprese di riuscire a riconoscerlo dopo così tanto tempo.

“Corbizzo! Che piacere rivederti, amico mio!” fece quello, stringendogli la mano in modo energico: “Sei solo? Sei senza cavallo?”

“Sì, l'una e l'altra cosa.” sorrise Corbizzi, senza spiegare il perché e il per come di quel viaggio fatto in totale economia.

Negli occhi del suo amico corse una strana luce, ma poi, siccome questi allargò le braccia, con un sorriso rassicurante in viso, il castrocarese si rilassò e fece altrettanto, per riceverne l'abbraccio.

Quando, però, il faentino lo cinse, lo fece con forza e con decisione, ma senza il briciolo di affetto.

L'abbraccio si trasformò rapido e letale in una morsa, e l'aggressore gettò in terra Corbizzo con violenza.

Questi, completamente preso allo sprovvista, impattò con il suolo gelato battendo il viso, troppo sorpreso per fare in tempo a parare il colpo con le mani. Sollevando lo sguardo verso quello che l'aveva scaraventato in terra, Corbizzi ebbe appena il tempo di avvertire il sapore metallico del sangue che sgorgava dal labbro spaccato, prima di scorgere cosa i tre che accompagnavano l'uomo di Castrocaro portavano strette in pugno.

Tentò di allontanarsi, ma era macilento e rallentato dalla paura. Quello che aveva creduto essere un suo vecchio amico gli assestò un forte calcio al fianco, facendogli mancare il respiro e costringendolo a riaccasciarsi al suolo.

Intanto, i tre sgherri si avvicinavano sempre di più. Alla luce fredda del sole di quel 5 febbraio, le roncole che brandivano parevano al povero Corbizzo mannaie da macellaio.

Implorò pietà, pianse, sentì le brache bagnarsi d'urina, vomitò, perfino, per il panico e per il dolore, ma più pregava, più veniva preso a calci e pugni, più piangeva e si abbandonava alla debolezza del proprio corpo, più veniva deriso e gli veniva sputato addosso.

E poi, quando le costole rotte gli impedirono perfino di disperarsi, i quattro assalitori cominciarono a ferirlo con le lame.

Un colpo, due, cinque, dieci e alla fine, in un lago di sangue, il corpo senza vita del facoltoso castrocarese di origini fiorentine venne lasciato al suo destino in mezzo alla strada.

 

Caterina stava leggendo il messaggio scritto da Pino Numai, con il quale veniva informata della decisione di suo figlio Cesare di lasciare Milano nella prima metà di quel febbraio, per poi recarsi al Bosco.

Il figlio di Luffo, in definitiva, voleva avere il benestare della Contessa e indicazioni precise su dove recarsi, dopo la visita alla tenuta di Tommaso Feo.

La Sforza ci aveva pensato parecchio, ancora prima di ricevere quella lettera, ed era giunta a conclusione che, per quanto la sola idea le pesasse parecchio, era necessario che suo figlio tornasse a Forlì per far propri i documenti inviati da Roma in suo beneficio e, solo allora, ripartire alla volta di Roma, dove lo attendeva il Cardinale Sansoni Riario.

Richiudendo il messaggio, la donna lo infilò nel tascone del suo abito e poi si rivolse a Cesare Feo con un mezzo sospiro: “Scrivete a Pino Numai e ditegli che approvo la loro scelta, e che appena avranno lasciato il Bosco, dovranno rientrare al più presto a Forlì per prendere alcuni documenti.”

Il castellano annuì e poi, appena prima di vedere la sua signora uscire dallo studiolo, domandò: “E volete che chieda anche come sta vostro zio e come sta vostro figlio?”

La Tigre, che stava già pensando ad altro, soggiunse: “Oh, sì, certo, certo... Fate come sempre, siete molto più bravo di me, in queste formalità.” e detto ciò, uscì.

Stava ripensando allo strano colloquio che aveva avuto con Corbizzo Corbizzi. Era vero, quell'uomo, nel corso degli anni, aveva spesso collaborato coi Consigli in veste di mediatore, non solo con alcune città vicine, ma anche con proprietari terrieri e commercianti, sostenendo nelle contrattazioni economiche Forlì. Però c'era qualcosa, nella fretta che Firenze aveva messo addosso tanto a lei quanto allo stesso castrocarese, che alla Contessa piaceva poco.

Non si erano detti nulla di che, in realtà. Era stato un incontro molto inutile, che si sarebbe risolto più agevolmente tramite lettera. Eppure, più ci pensava, più Caterina ci vedeva qualcosa di stonato.

Forse, pensava, la cosa che meno le era quadrata era stata l'apparente inutilità di quella visita, assieme al fatto che Corbizzo si fosse presentato senza nemmeno un servo di scorta, e senza una cavalcatura, sostenendo che riteneva più comodo camminare, che altro, per via della strada ghiacciata che avrebbe rischiato di far azzoppare una delle sue costosissime bestie.

Cercando di non pensarci troppo, convincendosi che quella strana sensazione che non voleva lasciarla fosse legata solo ed esclusivamente alle tensioni che stava vivendo quel giorno, attraversò ad ampie falcate il corridoio, andando fino al cortile d'addestramento, e da lì nella sala delle armi.

Stava scendendo la sera e l'aria fredda intorpidiva le mani e i pensieri dei gli ultimi soldati che stavano sistemando le loro armi dopo una lunga giornata di lavoro.

Tra loro, come la Leonessa aveva sperato, c'era anche Galeazzo. Da qualche giorno lo trascurava un po' e lo aveva visto insofferente, quel pomeriggio. Se altri suoi figli, come Ottaviano o anche Bernardino, manifestavano la loro contrarierà per qualcosa con l'aggressività, lui, un po' come Sforzino, faceva l'esatto opposto, diventando estremamente tranquillo, tanto che si finiva quasi per dimenticarsi di lui.

In effetti, non era stata la Sforza ad accorgersi di quel cambiamento, ma Bianca. Quel giorno, mentre la Tigre, distogliendo continuamente l'attenzione dagli esercizi dei soldati, parlottava serratamente con alcuni dei suoi Consiglieri della questione del Conte di Pitigliano, che aveva spostato tutte le sue truppe a ridosso di Ravenna, forse con l'intento di attaccare anche Forlì, la Riario aveva osservato molto il fratello e, quando finalmente la madre si era liberata, le si era avvicinata un po' di più e le aveva parlato a costo di suonare irrispettosa.

“Galeazzo tiene molto alla vostra approvazione – le aveva detto, a voce bassa – e soffre, quando presenziati ai suoi allenamenti senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. Quando avete altro a cui pensare, forse fareste meglio a non farvi nemmeno vedere nel cortile.”

Caterina, in un primo momento, era rimasta colpita dal tono duro usato dalla figlia, ma poi aveva deciso di non punirla per quella sfrontatezza. Anzi, la ringraziò per averglielo fatto notare e, appena ne ebbe il tempo, appunto, cercò di rimediare.

Avvicinandosi a Galeazzo, che stava parlottando con il maestro d'armi, indicando uno scudo dall'umbone un po' rovinato, la Contessa fece un cenno all'uomo, in modo che si allontanasse un po', permettendo a lei e al figlio di discutere con un po' più di privatezza.

“Perdonami, se in questi giorni non sono molto attenta a quello che fai.” disse piano la Tigre, prendendo lo scudo dalle mani del ragazzino e controllando di persona il difetto che aveva riscontrato: “Hai sentito del Conte di Pitigliano?”

Galeazzo annuì, gli occhi di un verde più tranquillo e stabile di quelli della madre – che tendevano invece a prendere sfumature molto diverse a seconda della luce – che seguivano le dita di lei che stavano saggiando l'umbone.

“Ecco, non è una situazione facile.” fece la donna, chiamando a sé di nuovo il maestro d'armi e rendendogli lo scudo: “Ha ragione mio figlio: quest'umbone va cambiato. C'è rischio che si spacchi.”

Il giovane Riario parve molto orgoglioso del tono con cui la madre si espresse e così, appena rimase di nuovo relativamente solo con lei, sussurrò: “Comprendo, e non pretendo di essere al centro dei vostri pensieri. So che la situazione del nostro Stato è complicata e che anche le nostre alleanze sono labili. Vorrei solo potervi essere d'aiuto, madre.”

Caterina lo guardò per un istante. Attorno a loro c'era ancora uno sparuto gruppo di soldati che sistemavano le loro armi, ma la sala si stava via via svuotando.

Con un breve sorriso, la Leonessa posò una mano sulla testa del figlio, con fare protettivo, e gli assicurò: “Io so che posso contare su di te. Questo è già molto, per me.”

Galeazzo gonfiò un po' il petto, come sempre esaltato dall'approvazione materna, e restò in attesa, visto che la Sforza pareva avere ancora qualcosa da dire.

“So che il momento è molto concitato, ma credo che domani potremmo prenderci una mezza giornata per andare a caccia insieme. Cosa ne pensi?” gli chiese, puntando gli occhi altrove, sempre un po' tesa, nel fare certe proposte, perché ancora ben memore di tutti i rifiuti opposti dal suo primogenito Ottaviano, anni prima.

“Penso che sia un'idea meravigliosa, madre.” disse invece Galeazzo, con un entusiasmo difficile da mascherare.

“Bene, allora dovremo preparare con attenz...” la voce morì in gola alla Leonessa, perché il viso trafelato di Cesare Feo non le suggeriva nulla di buono.

Il castellano era appena entrato nella sala della armi, e le fu subito chiaro che stesse cercando lei, perché appena la vide le si mise dinnanzi, ignorando in pieno Galeazzo, che stava lì accanto.

“Che è successo?” chiese Caterina, il sangue che gelava nelle vene, mentre il Feo deglutiva rumorosamente: “Avanti, parlate.”

L'uomo diede uno sguardo rapido al Riario, come a chiedersi se fosse il caso di riferire il messaggio anche in presenza di quel ragazzino, ma poi capì che la sua signora non gli avrebbe perdonato altri tentennamenti, e così vuotò il sacco: “Dei testimoni hanno visto assassinare Corbizzo Corbizzi, lungo la via per Castrocaro, ma ancora in territorio nostro.”

La Contessa ci mise qualche minuto, prima di capire esattamente cosa quella frase comportasse.

Corbizzi era un uomo libero, ma di fatto il suo legame con Firenze era saldissimo e noto a tutti. Il fatto che l'avessero ucciso, e per di più entro i confini dello Stato di Imola e Forlì, si sarebbe presto trasformato in un disastro diplomatico.

La Tigre sapeva anche troppo bene quanto suo cognato Lorenzo stesse cercando un valido appiglio per screditarla agli occhi della Signoria e temeva che quel fatto potesse essere il modo più facile per cominciare il suo lavoro.

“Chi è stato?” chiese Caterina, mentre accanto a lei Galeazzo seguiva il discorso, comprendendo, però, solo in parte la paura dipinta sul viso della madre.

“Non lo sappiamo. I mercanti che l'hanno visto aggredire erano troppo lontani... Hanno solo detto che gli aggressori erano in quattro. E che uno aveva un forte accento faentino.” spiegò Cesare, guardandola in modo penetrante, cercando, forse, di capire se la sua signora avesse qualche sospetto.

Questa si portò una mano alla bocca, ma si ricompose subito: “Voglio il mio Consiglio ristretto riunito immediatamente nella Sala della Guerra.”

Il castellano annuì e la lasciò con un cenno del capo. Nella sala della armi ormai erano rimasti solo la Sforza e suo figlio.

“Per la battuta di caccia di domani – fece Galeazzo, restando impassibile – credo sia meglio rimandare.”

Caterina annuì, la mano che correva di nuovo alle labbra, gli occhi che si scurivano e la fronte aggrottata. Il Riario fu sul punto di salutarla e lasciarla ai suoi pensieri che, era facile capirlo, dovevano essere neri quanto le tenebre, ma fu la donna a parlare per prima.

“Vieni anche tu al Consiglio. Devi imparare come muoverti. Devi vedere e sentire con i tuoi occhi, perché un giorno sarai quello che sono io adesso, e non voglio che ci arrivi impreparato.” gli disse, con un sospiro pesante: “Non è una vita facile: chi comanda è solo. Imparalo presto, e imparerai anche a fare a meno di chi credi un amico.”

Il ragazzino si morse il labbro e chinò il capo, in segno di ringraziamento.

“Andiamo. Chi comanda, impara anche questo, è bene che cerchi di essere sempre il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via.” fece la Contessa, appoggiandogli una mano sulla spalla e avviandosi all'uscita.

Mentre raggiungevano la Sala della Guerra, la Sforza incrociò il Capitano Mongardini in corridoio, anche lui diretto a gran velocità alla medesima ala della rocca e, staccandosi un momento dal figlio, gli chiese: “Avete visto Manfredi, dopo che è andato via Corbizzi?”

Il soldato ci pensò un momento e poi ammise: “Sì, l'ho visto pochi minuti dopo, che usciva dalla rocca. Ho pensato che stesse andando in città per qualche suo affare. Volete che lo faccia cercare?”

La Leonessa sentì la gola seccarsi, ma, ostentando noncuranza, rispose solo: “No, non è necessario... Solo, se doveste vederlo, ditegli che ho convocato il mio Consiglio ristretto e che ci dovrebbe raggiungere.”

“State bene, madre?” chiese Galeazzo, mentre, dopo aver accelerato il passo per distaccare Mongardini, la Contessa riprese la sua marcia verso la Sala della Guerra.

“Certo che sto bene.” fece lei, schiarendosi la voce: “Ma vorrei che i miei ordini venissero rispettati, così come gli accordi che stringo con chi mi si dice amico.”

Il ragazzino, che aveva ancora nelle orecchie le parole che la madre gli aveva rivolto qualche minuto addietro, sul fatto che chi è al potere è solo e deve diffidare di tutti, perfino degli amici, preferì non chiedere più nulla. La lezione più grande, in quel momento, gli sembrava l'espressione ferita e rabbiosa che campeggiava sul bel viso di sua madre.

 

A Cesare Riario non piaceva troppo trovarsi lontano dal suo alloggio quando scendeva la sera, e, per di più quella notte si era alzata una nebbia gelata e fittissima, tanto densa che nulla aveva a che fare con quella che si era abituato a vedere fin da piccolo in Romagna.

Era sceso fino al porticato che dava sul cortile. A quell'ora, a parte qualche soldato di ronda, non c'era in giro un'anima.

Anche se era abituato a vivere in mezzo ai soldati, quelli di Milano gli incutevano tutto un altro tipo di timore. A Forlì, se non altro, lo riconoscevano come il figlio della donna più temuta della Romagna, e solo per quello lo rispettavano. Lì, invece, alla corte dello zio di sua madre, non era altro che un ospite mal sopportato, con abito talare e una tonsura tanto marcata da farlo notare a decine di metri di distanza.

Il figlio della Tigre aveva deciso di fare quel pellegrinaggio solitario e silenzioso perché sperava di poter partire se non il giorno appresso, almeno quello dopo. Non ne poteva più della corte di Milano, così ridondante e attenta all'arte e ai beni materiali, e così poco incline alla preghiera e alla cura dell'anima.

Dopo quel suo viaggio, in un certo senso, poteva capire meglio la freddezza che sua madre dimostrava nei confronti della religione. Lo stesso Duca, che pure si definiva da solo credentissimo e molto pio, correva in Chiesa solo per piangere la moglie, idolatrandola in modo quasi sacrilego, quasi come se la defunta Beatrice Este altro non fosse se non una vera e propria santa.

Cesare trovava quell'atteggiamento riprovevole, peccaminoso e quanto meno incomprensibile.

Con le mani dalle lunghe dita secche ben nascoste nelle tasche ampie del suo abitone scuro da prete, il ragazzo camminò per un po' nella nebbia, fino a trovarsi – almeno credeva – più o meno nel centro del cortile.

Inspirò con lentezza l'aria freddissima e umida, tanto che gli parve di annegare in quel mare grigio.

Non vedeva nulla, non sentiva nulla, se non qualche raro suono ovattato che pareva arrivare da un altro mondo.

Con il cuore che batteva così forte da coprire qualsiasi altro rumore, il Riario si chiese se la morte potesse essere così. Se il Paradiso, l'Inferno e tutto il resto in realtà non fossero altro che un cortile pieno di nebbia.

Quando si rese conto della blasfemia che stava pensando, scosse il capo e proseguì nella sua passeggiata. Man mano che si riavvicinava al porticato, ne scorgeva i dettagli. Poteva quasi discriminare tra le parti più marziali, quelle legate esclusivamente all'uso militare del palazzo, e quelle invece volute prima da suo nonno e poi dall'attuale Duca, per ingentilire il tutto, come a voler nascondere dietro a una patina di eleganza la cruda realtà.

Vedeva gli Sforza come un branco di sanguinari, che avevano fondato la loro fortuna sulla morte del prossimo, dando alla guerra l'importanza che avrebbero dovuto dare alle fede, e si sentiva quasi contaminato, nel pensare che per metà anche il suo sangue arrivava da quel palazzo.

Tuttavia, mentre il suo giro si allungava, fino a sfiorare i pollai – messi così vicini alle stanze nobili da togliere ogni dubbio a qualunque visitatore sul reale spirito dei Duchi di Milano, essenziali come soldati e rustici come contadini – la mente di Cesare lo portò a pensieri più docili.

Senza volerlo davvero, tornò con la memoria ad alcuni racconti che gli aveva fatto sua madre, quando era piccolo, quando parlava a lui e ai suoi fratelli della sua infanzia a Milano, nel palazzo di Porta Giovia.

Riascoltò inconsciamente le sue parole sepolte dalla polvere del tempo, e così, mentre udiva un sommesso raspare di qualche gallina che ancora non si era addormentata, gli parve quasi di intravedere sua madre, bambina, rincorrere qualche pennuto e farsi rimproverare dal cancelliere, o suo nonno, il Duca Galeazzo Maria, ridere alla vista della figlia preferita che, in abiti da maschio, coperta di polvere e scapigliata, dava la caccia al pollame.

Prima che potesse avvedersene, quell'immagine lo commosse. Se ne pentì subito. Voleva condannare sua madre in toto, per quello che aveva fatto della sua vita. Non poteva avere per lei quei moti di tenerezza a cui si stava lasciando andare.

Con una mano che tremava un po', si asciugò il naso lungo e poi le guance e, stringendosi un po' nelle spalle scarne, decise di chiudere all'istante quella visita notturna al palazzo che era stato di suo nonno.

Era uno Sforza, per metà, questo lo sapeva anche troppo bene, ma sapeva anche di avere tutta una vita davanti per poter cercare di mondare la sua anima dalle sue colpe e da quelle dei suoi antenati.

Con passo svelto, le lunghe gambe che scalciavano via il vestone, spostando rivoli di nebbia, raggiunse la scala che aveva sceso all'inizio del suo giro, e tornò verso i suoi alloggi.

Stava per rientrare e chiudersi dentro, pronto alle ultime orazioni prima del riposo, quando la tentazione di guardare ancora un momento fuori lo colse.

Osservando il manto grigio e informe che celava il cortile alla sua vista, il diciottenne sentì di nuovo una stretta al cuore, chiedendosi quante volte, da piccola, sua madre avesse visto il medesimo spettacolo.

Deglutì, le lacrime che cercavano di far di nuovo breccia nella scorza che lui stesso aveva creato negli anni per difendersi, ma questa volta Cesare le ricacciò indietro. Com'era naturale per un figlio, amava molto sua madre, ma non per questo doveva astenersi dal giudicarla e dal condannarla.

Così rientrò in camera, andò all'inginocchiatoio e pregò per quasi due ore. Alla fine si cambiò e si coricò a letto.

Quando fu sotto le coperte, da solo con il se stesso più indifeso, quello confuso e un po' lento di riflessi dei momenti prima di addormentarsi, cedette all'impulso profondo di cercare conforto e, affondando il viso nel cuscino, si permise di piangere di nuovo. Piangeva per quello che aveva perso, per l'amore che sua madre aveva cercato di provare per lui e che lui stesso aveva distrutto facendosi complice nell'omicidio di Giacomo Feo, e per la sua incapacità di cercare con lei il modo di riappacificarsi.

Quando smise di lacrimare, il guanciale umido che gli ricordava il recente sfogo, il Riario riuscì comunque a sorridere. Era un sorriso amaro, ma quella notte era disposto ad accettare perfino quella strana consapevolezza: nel pensarci, aveva notato come la sua ostinazione nel rifiutare un contatto sereno e costruttivo con sua madre, fosse la caratteristica che più di ogni altra lo avvicinava agli Sforza.

Forse suo nonno o il suo bisnonno avevano incanalato quella cocciutaggine in altro modo, nel combattere o nel cercare il potere. Lui la stava usando per trincerarsi nella fede e nella solitudine.

Anche sua madre aveva usato la stessa, medesima ostinazione nei confronti dei suoi figli, Ottaviano e lo stesso Cesare in particolare. Anche lei aveva cercato con tutta se stessa di farsi forte allontanando tutti e, quando non c'era riuscita o si era rifiutata di farlo – come nel caso del Barone Feo o di messer Giovanni – per un motivo o per un altro ne era rimasta scottata molto più di quanto fosse in grado di sopportare.

Vedendo il suo esempio, Cesare aveva deciso di non lasciare che nessuno, a parte Dio, potesse far breccia nelle sue difese. Non voleva mai più soffrire come quando aveva capito di aver perso definitivamente l'amore di sua madre.

Alla fine, il cuore ancora agitato e la mente in subbuglio, il giovane sospirò, rigirandosi e tentando in modo serio di dormire.

Appena prima di scivolare finalmente nel sonno, Cesare ebbe la conferma, a suo modo confortante e spaventosa allo stesso tempo, di essere molto più simile alla Tigre di quanto non volesse.

 
   
 
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