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Autore: _Agrifoglio_    31/10/2018    17 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Diane a Palazzo Jarjayes
 
– E così, nella notte fra il 23 e il 24 agosto 1572, su ordine di Re Carlo IX e della Regina Madre Caterina de’ Medici, ebbe luogo la strage degli ugonotti, confluiti a migliaia a Parigi per le nozze di Margherita di Valois con Enrico IV di Borbone, Re di Navarra.
Diane seguiva il racconto di Oscar con raccapriccio misto a infantile curiosità, raffigurandosi quelle migliaia di corpi smembrati, trafitti dalla lancia o colpiti dalla spada.
La ragazza era arrivata a Palazzo Jarjayes alla fine di settembre e Oscar l’aveva accolta con la foga disperata con cui un naufrago si aggrappa allo scoglio percosso dai flutti su cui approda.
Così come aveva fatto con Rosalie, provvedeva quasi del tutto personalmente all’istruzione di Diane, ricorrendo ai precettori soltanto per le questioni più specifiche. Le insegnava la grammatica, l’ortografia, la bella scrittura, la letteratura francese, la matematica, la storia, la storia dell’arte, la musica, la danza, il disegno e il bon ton. Aveva tralasciato, invece, l’algebra, la fisica, la filosofia, il latino, il greco e l’italiano, reputando queste materie troppo complesse in relazione alle capacità di Diane e ai pochi mesi che questa avrebbe trascorso a Palazzo Jarjayes.
Oscar non impiegò troppo tempo a capire che Diane era una persona mite, sensibile, delicata, gentile, rispettosa e anche molto più intelligente di quanto, a prima vista, si sarebbe potuto immaginare, ma che queste doti erano, per così dire, azzoppate da gravi e radicati difetti che ne limitavano enormemente le potenzialità. Diane era, infatti, molto timorosa e insicura, aveva poca stima e fiducia in se stessa ed era portata all’autolesionismo e all’esasperazione dei concetti. Era una grande sognatrice e questa attitudine sconfinava nel velleitarismo, in quanto la giovane era più incline a fantasticare che a formulare progetti realistici. Oscar pensava che un po’ di attività fisica le avrebbe giovato, ragion per cui, fra gli insegnamenti, inserì anche l’equitazione, la scherma e il tiro al bersaglio. Decise, poi, di stimolarne le capacità di ragionamento, non servendole le soluzioni su un piatto d’argento, ma lasciando che si lambiccasse il cervello anche per giorni o per settimane, così da farle risolvere i problemi in piena autonomia e da favorirne il consolidamento della fiducia in se stessa. Quando Diane si abbandonava alle fantasticherie, Oscar iniziava a redarguirla o a canzonarla bonariamente, affinché la giovane capisse l’infondatezza dei suoi vaneggiamenti.
L’apprendimento della ragazza era abbastanza rapido anche se ostacolato dalla tendenza di lei a sposare subito una tesi e a radicarsi sul concetto, opponendo una discreta resistenza all’evoluzione del pensiero. Preferiva le materie dove poteva dare sfogo alla vena artistica mentre non amava la matematica, l’ortografia e la grammatica. Nel canto e nella danza, era aggraziata, nel disegno, era moderatamente creativa, la letteratura francese, la storia e l’arte le suscitavano un vivo interesse mentre per il galateo era naturalmente portata, ma in nulla eccelleva. Nelle attività fisiche, poi, era una vera frana.
Con Oscar, era rispettosa e gentile, ma anche molto distante, non essendo capace di infrangere il timore reverenziale e di convertire la generica gratitudine che provava per la sua benefattrice in un sentimento più profondo. Di fronte al Generale, tremava di autentico terrore e non riusciva a spiccicare una parola e quello, di rimando, la evitava più che poteva, non avendo mai sopportato i timorosi e gli indecisi. Neanche con la Contessa si era creato un forte legame, poiché Diane considerava Madame de Jarjayes un’anziana nobildonna taciturna ed esangue, molto distante dai comuni mortali mentre questa vedeva in Diane una delle tante opere di bene di Oscar e si augurava che quella ragazza così introversa e fragile, facile al riso e al pianto improvvisi, non intristisse ulteriormente l’umore di Oscar con quelle sue arie da eroina tragica. Marie Grandier le incuteva soggezione, ma era anche la persona con cui aveva legato maggiormente, perché, essendo quella più vicina a lei nella gerarchia sociale, richiedeva un minore sforzo di adattamento. Era, inoltre, la nonna dell’adorato Monsieur Grandier e, nei sogni di Diane, anche la futura nonna di lei. Palazzo Jarjayes, l’ampio parco che lo circondava e tutta la tenuta suscitavano l’interesse di Diane soprattutto perché, in quei luoghi, era cresciuto André. Ogni angolo e ogni oggetto le parlavano di lui e lei si abbandonava ai suoi sogni inconcludenti.
– Vi ringrazio, Madamigella Oscar, per avermi narrato della strage di San Bartolomeo. E’ un episodio raccapricciante, ma anche molto affascinante. Credo che, se un pittore lo dipingesse, ne verrebbe fuori un affresco molto suggestivo.
– Sono molti gli artisti che si sono cimentati con questo soggetto – rispose Oscar, sempre paziente e gentile, ma un po’ contrariata per il fatto che, di tutte le cose, Diane coglieva i lati secondari e quasi mai il nocciolo.
– Io non ne avevo mai sentito parlare. Una volta, però, lessi un racconto ispirato a una storia vera mista a leggenda. Questo racconto aveva come protagonista la figlia di Caterina de’ Medici, Margherita di Valois. La bella Regina di Navarra aveva come amante uno splendido Conte, Joseph Boniface de la Môle, ma questi fu condannato a morte e decapitato, perché coinvolto in un attentato contro il fratello di lei, il Re di Francia. Prima che il corpo fosse sepolto, l’infelice Margherita prese nelle mani la testa mozza dell’amato e la baciò appassionatamente. Non trovate che tutto ciò sia molto gotico?
– Trovo che sia poco credibile che una Regina si sia recata sul luogo dell’esecuzione per baciare la testa di un traditore con cui aveva una relazione adulterina.
– Oh! Che storia dolorosa! Oh! Che amore sublime! Oh! Che terribile tragedia! Oh! Che destino crudele!
– Oh! Che immane ritardo! – le rifece il verso Oscar – Avremmo dovuto iniziare la lezione di scherma già dieci minuti fa.
– Oh, no, Madamigella Oscar, l’ultima volta, Vi siete spostata e io sono finita dentro la fontana….
– Questa volta, state più attenta e continuerete a indossare degli abiti asciutti.
– Madamigella Oscar, non trovate che Monsieur Grandier sarebbe perfetto nei panni del Conte de la Môle?
– Be’ – rispose, interdetta e spiazzata, Oscar – Io penso che André sia perfetto così com’è, con la testa ben piantata sul collo….
– Naturalmente, Madamigella Oscar, ma il Conte di Lille sarebbe perfetto come protagonista di una storia d’amore tragica e appassionata! Egli è così bello, gentile, raffinato, alto e, negli occhi di lui, splendono i prati della Francia! Il Conte de la Môle affrontò così coraggiosamente la morte! Anche Monsieur Grandier è coraggioso e, poi, sono Conti tutti e due!
Oscar non credeva alle sue orecchie. Che André avesse suscitato un’infantile cotta nel cuore suggestionabile della giovane Diane l’aveva capito ormai da tempo e ne coglieva i segni quasi quotidianamente, nelle parole e negli atteggiamenti di lei, ma che se ne facesse addirittura il macabro protagonista di una pessima storia gotica e che lo si accostasse a un tale, decollato due secoli prima, probabilmente per brama di potere più che per un nobile ideale, soltanto perché è molto eccitante indugiare con la mente su una donna esaltata che bacia le labbra fredde e livide di una testa grondante sangue, nervi e arterie, le sembrava un’assurdità e, allo stesso tempo, la infastidiva.
Pensare che ciò che lei aveva frettolosamente rifiutato potesse fare galoppare le fantasie di un’adolescente immatura e priva delle basi fondanti del buon senso la gettava in preda ai dubbi e le lasciava l’amaro in bocca. Chi sa quante donne avrebbero provato ad accasarsi con lui, con possibilità di riuscita molto più concrete delle improbabili frecce in dotazione all’arco di quella ragazzina sprovveduta e priva di qualità…. Il solo pensiero le stringeva il cuore…. Aveva sempre creduto che André fosse una cosa sua, lo aveva dato per scontato e, adesso, lui se ne era andato e lei era sola, triste e senza alcuna seria speranza di modificare la sua situazione. Pretendere che lui continuasse a farle da ombra a tempo indefinito sarebbe stato egoistico e illusorio. Anche da plebeo, André avrebbe avuto il sacrosanto diritto di farsi una famiglia, ma, da nobile, le occasioni di incontro si sarebbero moltiplicate mentre lei nulla aveva da offrirgli, perché non si voleva sposare e tutto ciò che chiedeva era continuare a vivere con lui come avevano sempre fatto.
Chi sa dov’era, ora, André…. Chi sa cosa faceva, chi sa con chi stava….
Oh! Oscar, basta, hai fatto le tue scelte e lui farà le sue!
Con questa autoesortazione, diede un secco taglio ai suoi pensieri.
– Andiamo, Diane, si è fatto tardi. PreparateVi per la lezione di scherma.
 
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Mentre Oscar impartiva la lezione di storia a Diane, Girodel, recandosi nella terrazza antistante la reggia, incontrò Mademoiselle de Chambord e il cuore iniziò a palpitargli convulsamente nel petto mentre un sorriso gli rischiarò il volto.
In quelle settimane, la frequentazione dei due aristocratici si era intensificata e la reciproca conoscenza si era approfondita. Facevano insieme delle passeggiate nei giardini della reggia, andavano a cavallo, si recavano all’opera o a qualche concerto oppure giocavano a dama o a scacchi. Avevano imparato molto dei rispettivi gusti e modi di pensare, comprendendo con soddisfazione che, in larga parte, essi coincidevano. Soprattutto, avevano capito di essere accomunati dagli stessi valori e da un modo aristocratico e stoico di concepire la vita.
– I miei omaggi, Mademoiselle de Chambord! – disse lui, con voce calda e allegra mentre accennava un inchino.
– Salute a Voi, Colonnello de Girodel! – rispose la giovane donna, con un sorriso che le illuminò il volto e una lieve riverenza.
– Domani, al teatro di Parigi, daranno l’Ifigenia di Racine. Verreste con me?
– Mi dispiace, Colonnello, ma sarò impegnata a preparare i miei bagagli.
– A preparare i Vostri bagagli? – domandò, con voce sorda, Girodel.
– La situazione finanziaria del Regno non fa che peggiorare e la Casa Reale è a corto di risorse. Si è deciso, così, di tagliare le spese della Regina che conserverà al suo servizio le sole dame che possono mantenersi nella reggia con mezzi propri. Per me che sono povera, restare qui è fuori discussione. Dato il servizio prestato a corte, mi sarà corrisposta una rendita vitalizia che graverà sulle finanze del Re in misura inferiore al mio mantenimento a corte e che mi consentirà di condurre un’esistenza libera e dignitosa.
– Mi dispiace, Mademoiselle, non doveva finire così. Prenderete alloggio in un quartierino a Parigi o a Versailles?
– No, Colonnello, tornerò a Chambord. In campagna e in provincia, la vita è meno cara. Qui, stenterei a mantenermi in modo dignitoso.
– Dunque, questo è un addio – mormorò Girodel – Non ci rivedremo più!
– Mi dispiace, Colonnello – disse lei, facendogli un inchino – E’ stato, per me, un immenso piacere fare la Vostra conoscenza e passare con Voi parte delle mie giornate anche se per poco tempo. Che Dio Vi aiuti sempre!
Detto questo, si voltò dall’altra parte e tornò, a passi rapidi, nella reggia mentre lui la guardava allontanarsi con la tristezza nel cuore.
 
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André era salito sul cammino di ronda posto in cima alle mura difensive che univano fra loro le torri esterne del suo castello di Lille e, fra un merlo e l’altro, osservava il levarsi del disco solare a oriente.
Un’altra giornata di lavoro lo attendeva, ma l’alba aveva appena ceduto il passo al giorno e qualche ulteriore minuto di esposizione alla brezza mattutina e di riflessione poteva concederselo.
Fece scorrere lo sguardo dalla cinta muraria alle torri difensive, dal barbacane sormontato dalla bertesca all’ampia torre del mastio, dalla corte interna alla cappella.
Il castello dei Conti di Lille era più grande di quello dei Marchesi di Amiens e sorgeva su un’altura molto più elevata dalla quale si godeva di un panorama vasto e suggestivo. Rispetto al castello dei Signori di Amiens, vantava anche ambienti molto più luminosi e arieggiati, grazie a molteplici trifore e bifore squisitamente  lavorate e sormontate da eleganti cornicioni.
L’impatto visivo, per chi, giungendo da lontano, scorgeva il maniero, era spettacolare anche se, da vicino, saltavano agli occhi le conseguenze di un abbandono che si protraeva, ormai, da oltre cinquant’anni. La torre del mastio, antico nucleo della fortezza e originario alloggio del feudatario, era quella meglio conservata mentre le torri più piccole erano pericolanti. La pavimentazione della corte era dissestata e piena di ciuffi d’erba e sconnesso era anche l’impiantito di buona parte delle stanze. Molte erano le fessure da cui entravano acqua e spifferi, innumerevoli erano le travi fradicie o tarlate e le pareti delle stanze nobili erano ricoperte da antichi affreschi sbiaditi e scrostati in diversi punti.
La costruzione, però, era ancora bellissima e vantava soffitti di legno, a travi o a cassettoni oppure di pietra, con volte a botte o a crociera. La pavimentazione delle sale era quella originaria, costituita da grandi lastroni di pietra o da mattoni di cotto.
La corte interna era ampia e soleggiata ed era circondata, su tre lati, da un portico. Al centro della corte e davanti alla porta principale, sormontata da una pesante grata di ferro, sorgeva la grande torre del mastio che, in origine, era l’unica dimora del feudatario, ma che, successivamente, al fine di rendere più spaziosi e confortevoli gli alloggi del signore, era stata affiancata da altri caseggiati e da torri più sottili e svettanti e resa comunicante con essi tramite bracci in muratura e ponti coperti. Sul lato destro della corte, sorgeva la cappella, un edificio gotico, ricco di trifore, di bifore e di guglie e ornato da un imponente rosone, impreziosito da trine e merletti di pietra. Sul lato sinistro, invece, c’era l’armeria, dove erano ancora conservati spade, lance, alabarde e più moderni moschetti, armature per uomini e cavalli, ormai arrugginite e persino alcuni vecchi cannoni. Nel retro della corte, spuntava, al centro, un pozzo di pietra e mattoni e, ai lati, sorgevano le antiche cucine, la legnaia, la latteria, il fienile, le stalle e alcune botteghe.
Un’ampia scala monumentale congiungeva il piano terra della dimora del feudatario a quelli superiori mentre varie scale a chiocciola si snodavano lungo le torri minori e vicino agli ingressi secondari. Nel piano terra, subito dopo l’ingresso, si apriva un grande salone, con il pavimento di pietra e degli enormi lampadari tondi in ferro battuto, un tempo destinato ai banchetti e alle udienze del feudatario.
Rovistando in alcuni bauli, collocati nella soffitta del palazzo cittadino, André aveva trovato dei vecchi arazzi di seta e di lana e dei pezzi di argenteria massiccia, ormai del tutto anneriti e aveva intuito che provenivano dal castello. Che magnifica figura avrebbero fatto, dopo il restauro, tornando al loro antico posto!
André progettava di avviare la coltivazione delle terre e di destinare annualmente una parte consistente dei proventi del raccolto all’incremento della produzione. Un’altra porzione dei guadagni sarebbe stata accantonata per costituire il personale risparmio di lui mentre una percentuale di utili, variabile di anno in anno, sarebbe stata utilizzata per il restauro del castello. I lavori di ripristino sarebbero iniziati dalla torre del mastio e dai caseggiati e dalle torri che costituivano, con essa, il fulcro della dimora principale, per, poi, proseguire con la corte interna e con le torri e i caseggiati secondari, partendo dai più dissestati. Avrebbe fatto rimettere in linea la pavimentazione e avrebbe anche risanato i soffitti, consolidato le mura e restaurato gli affreschi, avendo cura, nei limiti del possibile, di conservare i materiali originari.
Distolse lo sguardo dal castello e lo rivolse verso la città di Lille che sorgeva a circa quattro miglia di distanza e che, adesso, era accarezzata dai raggi del sole nascente. Lasciò, quindi, la sua postazione sul cammino di ronda e tornò all’interno, in direzione della stanza dove abitava, per sistemare le ultime cose, prima di recarsi al lavoro.
Aveva deciso di approfittare degli ultimi mesi tiepidi dell’anno per soggiornare nel castello, in modo da trovarsi, ogni giorno, vicino alle terre alla cui lavorazione sovrintendeva personalmente.
Fra poche settimane, gli inverni rigidi del nord avrebbero reso impossibile abitare in una struttura vetusta e, a tratti, fatiscente, dove i venti gelidi si sarebbero facilmente insinuati, passando fra una fessura e l’altra mentre le piogge avrebbero reso buona parte del castello simile a una caverna stillante acqua. Per ora, però, il tepore dell’autunno rendeva ancora possibile quella sistemazione di fortuna.
Aveva, pertanto, allestito un giaciglio sul pavimento della stanza meglio conservata della fortezza e, ogni sera, vi si coricava, pensando, con un sorriso, che, quando era un semplice attendente, godeva di agi e di comodità molto maggiori.
Il fine settimana, invece, rientrava nel palazzo cittadino, consegnava ai camerieri gli indumenti sporchi, faceva un bel bagno, assisteva alla messa domenicale e, il lunedì successivo, se ne ripartiva per la campagna, con la biancheria pulita, le provviste della settimana e le lettere ricevute che gli avrebbero tenuto compagnia in quei cinque giorni di esilio campestre.
Passava tutto il giorno in mezzo ai contadini, in piedi o a cavallo. Che splendesse il sole, cadesse la pioggia o tirasse il vento, era sempre là, a osservare, a dare istruzioni e a cercare soluzioni. Molte di quelle terre, essendo state abbandonate per anni, andavano ripulite dai sassi e dagli sterpi oltre che arate e concimate, ma presentavano buone potenzialità, non essendo state sfruttate per lungo tempo.
Le coltivazioni erano quelle adatte ai climi freddi, capaci di reggere le temperature rigide. Predominavano, in zona, ampie distese di cereali ed ettari di frutteti, occupati, principalmente, da meli, piante molto resistenti alle basse gradazioni atmosferiche. Le mele del nord erano esportate nel resto della Francia o impiegate nella produzione del sidro.
Finita la giornata lavorativa, André tornava al castello, saliva nel cammino di ronda e passeggiava dietro la merlatura, approfittando delle ultime ore di sole per leggere i suoi libri di agraria o le lettere che gli giungevano da Parigi. Gli arrivavano con frequenza le missive della nonna, cariche di racconti e di raccomandazioni e quelle di Alain che affrontavano questo o quell’argomento, ma che ruotavano tutte intorno a un unico obiettivo: fare della sorella una felice Contessa. Diane, invece, dopo quell’unico biglietto accorato, non gli aveva più scritto e, anche dal fronte che sopra ogni altro gli interessava, giungeva soltanto silenzio. Le stesse lettere della nonna, lunghe e ricche delle più disparate informazioni, serbavano sempre un religioso silenzio su di lei.
Cercava di tenere a bada la mente con le mille incombenze che lo occupavano, con i propositi di miglioria delle terre e di restauro del maniero e con i progetti per il futuro. Sperava che sarebbe arrivato il momento in cui Oscar sarebbe diventata un sereno e nostalgico ricordo, legato a una giovinezza lontana, rimpianta e ormai indolore. Si augurava questo, ma, intanto, quando immaginava come avrebbe arredato, dopo il restauro, questo o quell’angolo del castello, si domandava se a lei sarebbe piaciuto e, sulla distesa antistante le mura, dove, nel medioevo, sorgeva il fossato che, successivamente, era stato riempito di terra e livellato al resto del suolo, immaginava folti e lussureggianti cespugli di rose bianche.
 
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Il grosso soldato strinse fra le sue enormi mani quelle minute della sorella e, fra un occhiolino e un sorriso mascalzone, la esortò:
– Mi raccomando, Diane, comportati bene che, se ti mandano via di qua, non ti rimangono che le monache!
– Alain, non ti preoccupare, io, qui, sto benissimo e farò onore a te e a nostra madre! Soldato Beauregard – aggiunse, poi, rivolta al commilitone di Alain – Siete gentile ad accompagnare mio fratello tutte le volte che viene a farmi visita!
– Oh, Mademoiselle de Soisson – farfugliò, imbarazzatissimo, il giovane studente di Medicina – Per me, è un piacere accompagnare Alain e vedere Voi radiosa e in salute.
– Andiamo, Henri, che si fa tardi – lo spronò Alain.
I due soldati erano appena usciti dal portone del palazzo, seguiti da una piangente Diane, munita di un candido fazzoletto che utilizzava promiscuamente per salutarli e per asciugarsi le lacrime, quando, dalla grande scala di marmo, arrivarono Oscar, il Conte di Canterbury e Sir Percy.
I tre erano in procinto di recarsi alla reggia, perché Oscar era stata informata che, quella mattina, il Duca di Orléans vi avrebbe presenziato.
– Oh, Madamigella Oscar, Ve ne prego, portate anche me! – la supplicò Diane, ancora mezza in lacrime.
– No, Diane – rispose pacata, ma ferma, Oscar – Non siete ancora pronta per essere presentata a corte.
– Oh, non è giusto, non posso mai venire! – gemette la fanciulla, imbronciata e lamentosa.
– Non angustiateVi, Signorinetta – disse, in tono scherzoso e falsamente solenne, Sir Percy – Crescerete anche Voi e, a quel punto, desidererete invano di tornare indietro.
– A corte, c’è tanta bella gente e io non posso mai vederla!
– Non Vi perdete nulla, Mademoiselle de Soisson – osservò il Conte di Canterbury – A corte, ci si imbatte spesso in individui, eufemisticamente parlando, sgradevoli – e, in cuor suo, pensò alla canaglia che stavano andando a incontrare.
I tre salirono in carrozza, lasciando nell’atrio una Diane più delusa che mai. Di questa separazione, il Conte di Canterbury e Sir Percy furono sollevati, perché, pur provando trasporto e tenerezza per quella ragazza fragile e smarrita, trovavano che l’ansia di lei fosse contagiosa e che quelle arie da fanciulla in ambasce, che sempre l’accompagnavano, rasentassero l’ossessivo.
Giunti nei corridoi della reggia, Sir Percy e il Conte iniziarono a passare in rassegna i volti dei cortigiani.
Molti aristocratici si avvicinavano ai due gentiluomini stranieri, incuriositi dalla loro presenza e quelli si districavano abilmente fra la folla, con modi squisiti e decisi al tempo stesso.
A un tratto, scorsero l’oggetto delle loro ricerche, elegantemente abbigliato con un completo bordeaux ricamato d’oro e diligentemente corteggiato da un nutrito nugolo di nobili.
– Duca d’Orléans, qual buon vento! – esclamò, fingendo stupore, Sir Percy – Non siete cambiato affatto dal Vostro ultimo soggiorno londinese.
– Ricordate, Duca, i miei cugini, Lord Cedric Highbridge, dodicesimo Conte di Canterbury e Sir Percy Blakeney? – si inserì, con voce decisa, Oscar.
Il Duca guardò il Conte di Canterbury con aria perplessa, mascherando a stento il disappunto di trovarlo, non soltanto in vita, ma anche in ottima salute. Riavutosi dallo stupore, esclamò giovialmente:
– Ricordo benissimo questi due amici del Principe di Galles che, in quanto tali, sono pure amici miei!
– In nome della nostra vecchia amicizia, Duca – intervenne il Conte di Canterbury – sono venuto a riportarVi qualcosa che Vi appartiene e che Voi smarriste in Inghilterra.
Ciò detto, estrasse da un drappo il pugnale con il quale il sicario aveva tentato di sgozzarlo e lo porse al Duca mentre gli astanti li guardavano incuriositi.
– Vi sbagliate, caro Conte, non ho mai visto quest’arma prima d’ora – si schermì il Duca d’Orléans, con un sorriso nervosamente imbarazzato.
– Ne siete sicuro? – domandò Sir Percy – A noi risulta diversamente.
– Cercate di ricordare la circostanza in cui la smarriste in casa mia – incalzò il Conte di Canterbury – Io la serbo vivida nella mente.
Consegnò, quindi, il pugnale al Duca, dicendo:
– Ecco, adesso, ogni cosa è tornata al suo posto.
Si accomiatò, subito dopo, con un inchino, seguito da Oscar e da Sir Percy, mentre in aria si levava il brusio dei curiosi.
Il Conte di Compiègne, che sempre faceva in modo di trovarsi dove c’era maretta, assottigliò le labbra e alzò lievemente le sopracciglia, mormorando fra sé e sé:
Peccato, mi sono perso un bel complotto! – e guardò Oscar dileguarsi fra la folla.
 
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André stava cavalcando in un bosco ceduo, sito all’interno delle sue proprietà, composto principalmente da querce, carpini, aceri e faggi, dove si era recato al fine di valutare quali piante erano pronte per essere tagliate, così da ricavarne della legna. Guardava gli alberi adulti, maturi per il taglio, quelli malati da abbattere, le piante giovani e i ceppi mozzati dai quali erano spuntati fuori nuovi polloni e prendeva mentalmente nota sul da farsi.
Stava fissando l’ennesimo tronco, quando udì, in lontananza, delle urla. Spronato, immediatamente, il cavallo nella direzione delle voci scomposte, vi si diresse al galoppo, col busto ricurvo sul collo dell’animale mentre l’aria gli schiaffeggiava il volto e le foglie degli alberi gli sfioravano i capelli.
Giunto dove le terre di cui era il Signore confinavano con quelle del Duca di Germain e con altre del Marchese de Saint Quentin, vide degli uomini beceri e male in arnese che discutevano con una giovane donna che li fronteggiava con animo piuttosto alterato. André riconobbe in lei la sorella maggiore del Marchese de Saint Quentin, una venticinquenne nubile di grande bellezza che gli era stata indicata in chiesa.
– Se oserete ancora sconfinare nelle terre di mio fratello, non soltanto mi rivolgerò alle autorità, ma vi sguinzaglierò contro i miei cani! – ingiunse la fiera Marchesina, mentre un lampo guizzante e nervoso le dardeggiava nelle iridi color smeraldo dello stesso colore del completo di velluto da cavallerizza che indossava.
– E noi faremo polpette dei vostri cani e daremo fuoco ai vostri campi – replicò il capo di quei ribaldi, un quarantenne coi capelli neri e scarmigliati e il volto butterato dal vaiolo, solcato da una bruttissima cicatrice, reduce da un recente e poco proficuo viaggio in Inghilterra.
– Provateci e assaggerete la mia frusta – disse lei, brandendo il frustino da amazzone parallelamente al volto dello sgherro.
– Attenta, bella dama – ghignò l’altro, afferrandole la mano, ricoperta da un guanto nero di capretto – O potrei innervosirmi!
– Non osate toccarmi! – sibilò la giovane indomita, sottraendo di scatto la mano dalle grinfie del malvivente e imbracciando il fucile che portava a tracolla – O conoscerete il piombo del mio fucile, prima ancora del morso dei miei cani!
Contemporaneamente, caricò il fucile e lo puntò contro il farabutto mentre gli occhi di lei saettavano una verde collera e alcuni ciuffi corvini, ribelli, le ondeggiavano ai lati del viso, dopo essere sfuggiti dalla retina che imbrigliava, sotto il copricapo a tricorno, la chioma ricciuta.
– Siete in sette contro uno, i miei complimenti! – disse André, smontando da cavallo e parandosi di fronte a quelli.
– E voi cosa volete, neoConte? Tornate nel vostro neofeudo, finché ne avrete uno e non rompete le scatole a noi altri! – biascicò il gentleman mentre un rivolo di bava gli colava al lato della bocca.
André scrutava quei vigliacchi con sguardo duro e accigliato mentre la Marchesina lo affiancava, con gli occhi furenti e il viso contratto, continuando a puntare il fucile contro gli aggressori.
– Ehi, capo, forse, è meglio che ce ne andiamo…. Qui, finisce male…. – disse uno di quei lestofanti.
– Sappiate che non finisce qui! – ringhiò lo sfregiato, in preda alla collera.
Poi, rivolto ai compagni, aggiunse:
– Torniamo indietro…. Per ora….
Andati via quegli oxfordiani, la donna disse ad André:
– Vi ringrazio dell’intervento, Monsieur! Molti avrebbero girato al largo, fingendo di non vedere. E Vi ringrazio anche di avere detto: “Siete in sette contro uno” e non: “Siete in sette contro una donna” – aggiunse, poi, con un sorriso.
– Mademoiselle, sono pratico di queste situazioni – celiò André, ricordandosi, con trasporto, della furia bionda che aveva, per tanti anni, affiancato – Ma chi era quell’uomo?
– Si chiama Marc Kroger, detto “lo sfregiato” ed è uno degli uomini di fiducia del Duca di Germain. Cercano sempre di sconfinare nelle terre di mio fratello, coltivandole abusivamente e spostando i recinti, ma io me ne accorgo prontamente e non do loro tregua!
– E fate bene, Mademoiselle. Ah, perdonate, sono il Conte André de Lille, per servirVi.
– Sì, lo so, in città non si fa che parlare di Voi e del Vostro arrivo nelle caligini delle nord – rispose lei, sorridendo – Io, invece, sono Victoire Aurélie de Saint Quentin, sorella del Marchese de Saint Quentin.
– E’ un onore, per me, Signorina. Lasciate che Vi riaccompagni nella Vostra dimora.
– Non mi avete trattata da donnicciola prima, non fatelo neppure adesso – scherzò lei – Seriamente, sono più di dieci anni che fronteggio da sola questi problemi e, ormai, ci sono abituata.
Contemporaneamente, ripose il fucile e il frustino e salì sul suo cavallo.
– Addio, Conte di Lille, tornate nel Vostro bosco e, mi raccomando, non smarriteVi – disse, con un sorriso, mentre arricciava il naso.
Sfiorò il fianco del cavallo con il tacco del nero stivale e partì al galoppo, lasciandosi dietro André.







La storia di Margherita di Valois e dell’amante di lei, il Conte Joseph Boniface de la Môle, è vera anche se, poi, la leggenda se ne è impadronita, ricamandoci sopra.
L’episodio della testa mozza baciata dalla Regina è narrato nel romanzo “Il rosso e il nero” di Stendhal che annovera, fra i coprotagonisti, un’immaginaria discendente del Conte, la Marchesina Mathilde de la Môle, ossessionata, sin dall’infanzia, da quella storia, al punto da vestirsi a lutto ogni anno, nel giorno della ricorrenza della decapitazione dell’antenato.
   
 
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