Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    31/10/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

La riunione del Consiglio ristretto della Contessa era finito a ora molto tarda.

Caterina, accompagnata dal figlio, aveva deciso comunque di andare nella sala dei banchetti per mettere qualcosa sotto i denti, anche se, più ripensava a quanto era stato detto e deciso, più sentiva lo stomaco chiudersi.

Anche Galeazzo appariva molto pensieroso, ma la Tigre non poteva biasimarlo. Era appena un ragazzo, ma poteva capire benissimo la delicatezza della situazione in cui si erano venuti a trovare.

Certo, rispetto a lei aveva molte meno preoccupazioni, ma era comunque un bel carico, per un tredicenne.

Mentre cercava di cacciar giù a forza qualche pezzo di carne – che, malgrado fosse ottima e cucinata come sempre alla perfezione, alla Sforza pareva stopposa e del tutto insapore – la Leonessa si perse di nuovo in ragionamenti che la spaventavano molto più di quanto osasse ammettere.

Durante la riunione alcuni che conoscevano discretamente bene Corbizzi e la storia della sua famiglia, avevano ipotizzato che quell'omicidio fosse scaturito semplicemente da una vendetta personale.

Anche se non c'erano prove certe, infatti, le chiacchiere di paese sostenevano da parecchio tempo che il castrocarese avesse avuto una parte molto importante in una morte misteriosa di un faentino, pare un suo rivale in affari, forse, e che questi avesse un figlio dal sangue abbastanza caldo da poter architettare quell'aggressione.

Alla Contessa quella versione dei fatti, però, pareva un po' campata per aria. Le sembrava qualcosa di premeditato e non di improvvisato, dunque l'assassino – o il mandante – doveva essere qualcuno che aveva saputo per tempo che Corbizzi era stato da lei e che stava tornando verso casa disarmato, senza scorta e perfino appiedato.

In più, il fatto che fosse stato ucciso in territorio forlivese, rafforzava i suoi sospetti, sempre più realistici, per quanto truci e disperati.

Dopo qualche altro boccone, la Leonessa capì che non sarebbe riuscita a mangiare altro. Bevve qualche calice di vino, più per restare a far compagnia al figlio che altro, e, nel frattempo, continuò a rimuginare, focalizzandosi su due dettagli in particolare.

Prima di tutto, sull'accento faentino di colui che aveva guidato l'agguato. E, secondariamente, sulla strana assenza di Manfredi alla rocca, dopo che Corbizzo aveva lasciato Ravaldino. Mettere insieme le due cose causava un vago senso di nausea a Caterina che, di rimando, cercava di non collegare le due informazioni, ma senza troppo successo.

Era stata stata proprio quella sensazione sgradevole a convincerla, durante la seduta di Consiglio a decidere di emanare, il giorno successivo, in seduta consiliare, un editto che punisse la vendetta personale come un reato a pieno titolo. Aveva deciso che avrebbe tenuto un breve discorso, dicendosi rattristata e disgustata dall'omicidio di Corbizzi e sperava che, aggiungendo l'editto alle parole, prendendo, insomma, una così ampia distanza dai quel fattaccio, nessun altro avrebbe sospettato di Manfredi.

Però, nel frattempo, voleva sapere la verità. E si domandava se avrebbe trovato il coraggio di cercarla.

Quando Galeazzo finì la sua razione di stufato, la madre si alzò da tavola e lui la seguì. Percorsero il corridoio e le scale l'uno accanto all'altra, senza parlare, e alla fine, quando venne il momento di dividersi, si salutarono con un cenno del capo.

La cosa che colpì la Tigre, in quel modo di atteggiarsi di entrambi, fu la mancanza di disagio nel potersi relazionare anche senza spendere troppe parole di prammatica. In quel senso, la sua fiducia nel figlio come suo possibile erede, cresceva. Le somigliava molto, ma gli mancava la sua tendenza agli eccessi e la sua impulsività. Con un po' di fortuna, sarebbe diventato un signore giusto e coraggioso, amato dal popolo e abbastanza forte e capace da essere temuto dai nemici.

Arrivata in stanza, la Sforza restò a lungo indecisa sul da farsi. Si chiedeva se Manfredi sarebbe tornato alla rocca o meno e fu quasi tentata di mandare davvero un manipolo di guardie scelte a cercarlo.

Proprio quando si era alzata dalla scrivania, decisa a parlarne con il castellano per cercarne il consiglio, sentì bussare con discrezione alla porta e la voce del faentino dire: “Sono io, posso entrare?”

La donna aprì e poi gli chiese: “Dove sei stato?”

“Eri preoccupata per me?” fece lui, sollevando un sopracciglio.

Siccome gli occhietti azzurri di Ottaviano stavano passando in rassegna la stanza della Contessa, senza che lei avesse dato il permesso di farlo, Caterina pensò fosse il caso di andare nella camera accanto. Non le piaceva che qualcuno entrasse e controllasse quella che era stata la stanza che aveva diviso con Giovanni. Lì c'erano ancora tutte le sue cose e lì poteva ancora sentire la sua presenza: non voleva che un altro uomo rovinasse quell'illusione.

Una volta arrivati nella sua tana, quindi, la donna, che era ancora indecisa su come muoversi con il suo amante, riprese il suo breve interrogatorio: “Hai saputo di Corbizzi?”

Manfredi si morse il labbro e annuì: “Brutta storia. Anche se, volendo essere sincero, non mi sembra una grave perdita... Se proprio devo dirlo, quel tipo mi sembrava un idiota. Comunque, sapete già chi è stato?”

“Abbiamo solo qualche sospetto.” fece lei, senza sbilanciarsi troppo: “Dove sei stato?”

“In una locanda fuori città a bere. Poi è scoppiata una piccola rissa e ho finito la giornata a leccarmi le ferite in un postribolo.” fece lui, sollevando appena una spalla.

Nel fare quel movimento, lasciò intravedere un piccolo taglio, abbastanza fresco, appena sotto al collo. La Tigre allungò una mano per sfiorarlo e, quando lo fece, l'uomo nel sentire la ferita bruciare, fece una smorfia e si ritrasse.

“Dannazione – sussurrò – non mi ero reso conto che mi facesse ancora così male.”

“Quando tornerai nel Casentino?” chiese Caterina, cercando di tastare il terreno: “Firenze ti ha mandato altri messaggi?”

“Tornerò tra qualche giorno. Una settimana o due. Non mi stanno facendo troppe pressioni, quindi non ho così tanta fretta.” fece lui, lo sguardo che si faceva appena più affilato: “Perché me lo chiedi?”

Il tono che aveva usato l'uomo fece capire alla Sforza di aver fatto un passo falso. Non voleva irritarlo. Non voleva litigare, altrimenti sarebbe stato solo più difficile arrivare al dunque.

Perciò sospirò e riparò rispondendo: “Perché voglio sapere quando pubblicheremo la tua promessa di matrimonio a Bianca. Lo sai che dobbiamo farlo prima della tua partenza.”

Ottaviano la fissò ancora un istante, la mano della Leonessa ancora sulla sua ferita, quasi a ricordargli il loro patto con il dolore che gli provocava facendo così, poi parve tranquillizzarsi.

Prese le dita della Contessa tra le sue e le baciò, dicendo poi: “Adesso è tardi. Parliamo di politica domandi, che ne pensi?”

La Tigre non voleva per nessun motivo mollare l'osso, ma la vicinanza dell'uomo vinse le sue difese. Era stanca, abbattuta e la seduta del Consiglio privato l'aveva stremata come non le capitava da molto tempo.

Perciò, quando il faentino le si propose con più decisione, la donna lo lasciò fare e provò a scordare per un po' tutti i suoi sospetti e i suoi dubbi.

Tuttavia, mentre erano stretti l'uno all'altra, Caterina sentì prepotente la rabbia che provava verso Manfredi farsi largo nella sua anima. Il solo pensare che potesse aver fatto qualcosa di grave come uccidere un uomo come Corbizzi senza dirglielo, per lei era peggio di qualsiasi altro tradimento.

In tutta onestà, non le importava di saperlo ancora dedito ai lupanari e alle altre donne. Nemmeno lei si concedeva unicamente a lui e quindi erano pari. Però stava per affidargli in moglie Bianca e, per quanto si trattasse di un contratto puro e semplice, voleva essere certa che quell'uomo fosse almeno leale in politica e in guerra.

Così la passione si trasformò in un'onda violenta e Manfredi fece del suo meglio per tenere il passo, mentre i graffi e i morsi della Leonessa andavano a sommersi alle ammaccature della recente rissa, provandolo non solo nel corpo, ma anche nello spirito.

Non era la prima volta che la sua amante lo prendeva a quel modo, ma c'era qualcosa di profondamente diverso, nei suoi gesti, e Ottaviano cercò di capire cosa fosse fino all'ultimo, ma senza riuscirci.

Quando la notte era al mezzo, i due giacevano in silenzio l'uno accanto all'altra, quasi senza sfiorarsi, entrambi intenti a scorgere le ombre che le fiamme del camino gettavano sul soffitto. Le coperte creavano un piacevole tepore, ma nessuno dei due se lo stava gustando appieno, troppo immersi nei propri pensieri per poter far attenzione ad altro.

Caterina stava ripensando a quel giorno, a quando, Corbizzi appena congedato, Manfredi era andato da lei e le aveva chiesto chi fosse quell'uomo. Stava cercando di richiamare alla memoria la sua espressione, la sua indisponenza e lo strano luccichio che aveva acceso i suoi occhi quando lei gli aveva rivelato il nome del castrocarese e il motivo per cui era arrivato a Forlì.

E poi, dopo quel breve scambio di battute, non l'aveva più rivisto fino a quella sera.

Non accorgendosi di come la Sforza si fosse messa a osservarlo, passando lo sguardo di continuo dal suo viso al petto, lasciato scoperto, Manfredi sospirò pesantemente e diede voce ai pensieri che affollavano la sua mente, dimostrando quanto fossero diversi da quelli che angustiavano quella della sua amante: “Quando avrò ucciso Astorre e sarò marito di tua figlia, tu mi vorrai vedere ancora come adesso o mi respingerai?”

Caterina, assorta, aveva colto solo metà della domanda. Stava osservando i tratti aggraziati del giovane che aveva accanto. Non aveva ancora compiuto ventisette anni. Li avrebbe avuti ad agosto, le aveva detto. Era così giovane... Aveva nove anni meno di lei. Quando amava Giacomo, otto anni di differenza le erano parsi un'eternità, ma adesso, che era invecchiata e che la vita l'aveva bastonata altre mille volte e in mille modi diversi, si trovava a pensare che nove anni non fossero che un soffio.

“Quando sarai sposato a mia figlia – gli disse, deglutendo, mentre con una mano gli faceva scivolare via di dosso il lenzuolo, scoprendolo fino alle ginocchia – non dovrai nemmeno sfiorarla, perché l'unica donna che avrai sarò io.”

Detto ciò, la Contessa si mise con decisione sopra il suo amante, sfiorandogli con le labbra prima il collo e poi il mento, le mani che saggiavano il suo corpo cercando di risvegliarlo.

Manfredi si permise un breve sorriso, piegando all'indietro la testa, per permettere alla donna di baciargli la gola con maggior facilità e poi commentò, a metà strada tra il serio e il divertito: “Sai, Tigre, ammiro moltissimo i tuoi due cari mariti, Giacomo e Giovanni, per essere riusciti a tenere il tuo ritmo per tanto tempo...”

Sentire nominare i due uomini che aveva amato sopra ogni altra cosa ebbe uno strano effetto sulla mente della Sforza. Da un lato pensò che se si fosse trovata in una situazione simile con Giacomo, forse non avrebbe sospettato di lui nemmeno per un istante, sapendo che gli mancava il coraggio per certe azioni. Mentre, se si fosse trattato di Giovanni, non avrebbe dubitato nemmeno per errore di lui, perché la fiducia reciproca tra loro era stato il più forte pilastro del loro amore.

Ottaviano Manfredi, invece, non aveva la sua completa fiducia e, con tutta la buona volontà, non l'avrebbe mai potuta avere.

Appena l'uomo tacque, Caterina smise per un momento di muoversi, puntando le sue iridi verdi su di lui. Capendo che qualcosa non andava, il faentino spalancò gli occhi, incrociando lo sguardo dell'amante e si accigliò. Lo stava osservando con un'espressione strana, quasi contemplativa. Gli parve come un giudice che stesse cercando di decidere se condannare o meno a morte un prigioniero.

Prima che potesse chiederle se ci fosse qualche problema, Manfredi si trovò a emettere un istintivo grido di dolore. Con una mosse repentina e inattesa, la Sforza l'aveva afferrato per i lunghi capelli biondi, tirando con decisione, e bloccandogli un braccio con la mano libera e l'altro con un ginocchio.

Spaventato da quell'improvviso risvolto, Ottaviano, dopo un primo istante di sgomento, reagì e dopo essersi dimenato come un pesce nella rete, riuscì a contrastare la Tigre. Era una donna molto forte – tanto che certi la definivano dotata di forza sovrumana, come una versione femminile del mitologico Ercole – ma il faentino aveva in corpo la forza della disperazione.

Si rigirarono di continuo nel letto, avviluppandosi nelle coperte, cercando di sopraffarsi a vicenda, senza che l'equilibrio si spostasse mai del tutto a favore dell'uno o dell'altra.

I loro corpi, nudi e sudati, cozzavano e si ghermivano con una voracità che non aveva nulla a che fare con l'ardore che li aveva uniti poco prima. Senza che se ne accorgessero davvero, in pochi minuto ciascuno dei due cercava solo di uccidere l'altro, in una sorta di ancestrale guerra per la sopravvivenza.

A frenare il loro istinto di prevaricazione, però, arrivò il bordo del letto. Cadendo con un tonfo sordo sul pavimento freddo, entrambi parvero risvegliarsi da quel momento di estraniazione.

Avevano il fiato corto e i capelli arruffati, i visi rossi e i muscoli ancora tesi. Nello scivolare al suolo, Caterina era rimasta sopra a Manfredi e fu quella posizione a permetterle di non mollare del tutto la presa.

Puntellandosi a terra con una mano, sentendo il petto dell'amante alzarsi e abbassarsi rapido contro il suo seno, la Contessa gli chiese, con la voce ancora spezzata per lo sforzo di quella breve battaglia: “L'hai ucciso tu?”

“Come?” fece Ottaviano, in un soffio, ancora così sconvolto dal loro scontro da non ricordare nemmeno la questione del castrocarese.

“Corbizzo Corbizzi, l'hai ucciso tu?” chiese di nuovo Caterina.

Finalmente il faentino capì e, battendo le palpebre un paio di volte, rispose: “Non ne avrei avuto motivo. E, comunque, se l'avessi fatto, te l'avrei detto.”

Ci fu qualcosa, nel modo in cui l'uomo le parlò, che dissipò i dubbi che avevano attanagliato la Leonessa. Non si sentiva ancora del tutto tranquilla, ma era comunque meno sospettosa.

Siccome, però, non diceva nulla e stava ancora ferma su Manfredi a fissarlo, l'uomo si sentì in dovere di dire, abbastanza risentito: “Che uomo credi che sia? Siamo alleati, Tigre. Io faccio una cosa e te lo dico, tu fai una cosa e me lo dici: questo è essere alleati.”

“Non sei stato tu?” chiese allora lei, con voce più sommessa.

“Non sono stato io.” ribadì il faentino, scuotendo il capo.

Dopo un lungo momento di esitazione, Caterina lo baciò e sussurrò: “Va bene, ti credo.”

Ottaviano, rincuorato da quelle parole, la strinse a sé e poi, cominciando a provare un certo freddo, nello stare con la schiena nuda contro il pavimento gelato, propose: “Torniamo a letto e facciamo la pace?”

Trovandosi d'accordo con lui, la Contessa si rialzò, un po' dolorante per tutto quello che era successo e aiutò lui a fare altrettanto. Si sedettero sul letto sfatto, tanto disordinato da sembrare che vi fosse passata una tempesta e, cominciando a baciarsi con lentezza, provarono a riappacificarsi con delicatezza, come se così facendo potessero in qualche modo chiedere ammenda per tutto il male che avevano cercato di farsi fino a pochi minuti prima.

 

La riunione del Consiglio Cittadino indetta per quella mattina era partita fin da subito in modo molto turbolento. L'uccisione di Corbizzo Corbizzi aveva avuto una risonanza incredibile tra i nobili forlivesi e tra i mercanti più abbienti e i sospetti e i malumori dei singoli si erano amplificati, una volta trovato riscontro nei dubbi e nelle accuse degli altri.

Caterina, affiancata da Galeazzo – che sedeva al posto di Ottaviano, suo erede di nome, ma non di fatto – aveva promulgato, senza metterlo ai voti, l'editto in cui si vietava qualsiasi forma di vendetta privata che non venisse prima autorizzata da lei stessa.

Il rumoreggiare che ne era seguito, aveva reso il salone del palazzo Riario più rumoroso di uno squadrone di cannoni. In tanti, soprattutto quelli delle famiglie più in vista, e quindi con più rivali, si erano detti contrari, e tanti altri avevano cominciato a gridare dicendo che non si poteva ledere in quel modo la libertà dei forlivesi solo per una colpa che era da imputarsi a Faenza.

Nessuno fece mai il nome di Ottaviano Manfredi, anzi, qualcuno incolpò direttamente suo cugino Astorre, ma alla Sforza apparve chiaro che non solo lei aveva sospettato del suo giovane amante.

Per placare gli animi, decise di promulgare un secondo editto, che da tempo aveva in mente, ma che non aveva mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco.

Accogliendo alcune lamentele che aveva udito durante le questue e anche da Simone Ridolfi, che continuava a ragguagliarla, giorno dopo giorno, su tutto quello che aveva visto e sentito mentre era Governatore a Imola, la Sforza mise tutti a tacere con un paio di bestemmie ben assestate e poi dichiarò che da quel giorno non era più permessa nessuna forma di favoritismo, da parte di chi aveva un ruolo nel governo dello Stato, né per parentale e amicizia, né tanto meno per denaro.

Mentre la sala esplodeva per una seconda volta, Luffo Numai si sporse verso di lei e le sussurrò, cauto: “Non state rischiando troppo, mia signora? Ovunque funziona così... Le conoscenze e i favori sono utili, per lo Stato...”

“Ho visto commercianti schiacciati perché quelli che dovrebbero vigilare sul commercio favorivano i loro rivali, affossandoli senz'altro motivo se non il guadagno personale.” ribatté la donna, guardando con distacco il suo Consigliere, sotto agli occhi attenti di Galeazzo, che ascoltava come se ogni parola fosse oro colato: “Ho sentito gente meritevole lamentarsi di essere stata scavalcata nell'assegnazione di cariche solo perché quello a cui spettava la scelta aveva un parente da sistemare. Ho avuto testimonianza di contrabbandieri per i quali si chiudeva un occhio in cambio di qualche favore, e di altri, che per sopravvivere dichiaravano meno dell'effettivo guadagno, messi alla gogna solo perché non conniventi. Fin'ora ho chiuso un occhio per il quieto vivere, ma se in uno Stato vige l'ingiustizia, chi è da biasimare, se non chi lo comanda?”

Luffo aveva le labbra appena schiuse, mentre la confusione tutt'attorno a loro aumentava. Non sapeva come controbattere e, in fondo, non capiva quale fosse il reale piano della sua signora.

“Io non voglio avere altri rimorsi, Numai.” concluse la Sforza, allargando un po' le spalle: “Ho aspettato anche troppo, ma adesso ho deciso che voglio un governo che sia giusto, non solo forte o temuto. Non mi piace quello che sta succedendo al confine, con il Conte di Sogliano che aspetta a un passo dalle mie terre, né l'atteggiamento di Firenze, tanto meno quello di Milano. Avete sentito che il figlio del papa sposerà una francese? Cosa credete che stia facendo, alla corte di Luigi? Presto arriverà una tempesta, e quale che sia il primo fulmine che ci colpirà, io voglio uno Stato solido, e la corruzione e i favoritismi non fanno che minarlo. Che mi odino pure, l'importante è che facciano quello ordino io.”

A quel punto, Luffo deglutì e annuì appena, soggiungendo: “Siete sempre molto saggia, mia signora, ma...”

“Ma?” chiese la donna, lanciando un'occhiata al Consiglio, che continuava ad accapigliarsi, chi in difesa della nuova legge, chi in contrasto.

“Ma una riforma come questa potrebbe destabilizzare il vostro potere.” fece notare l'uomo.

A quel punto la Tigre guardò un momento il figlio, e, nel vederlo apparentemente tranquillo, ma dall'occhio sperso, si schiarì la voce e dichiarò, sperando di suonare abbastanza convincente: “Ho creato questa classe di comando dal nulla, Numai, ricordatevelo. Se il mio governo dovesse rivoltarsi contro di me, vi assicuro che ho la forza e la cattiveria necessaria per spazzare di nuovo via tutti, come alla morte di mio marito Giacomo. Decido io quali cani tenere al guinzaglio. Il primo che mi morderà la mano, verrà ucciso e rimpiazzato.”

Il Consigliere chinò il capo, in segno di ubbidienza, e non osò dire una parola di più.

Stufa di sentire i membri del Consiglio Cittadino battibeccare, la Tigre si alzò di scatto, battendo una mano sul tavolo e dichiarò: “La seduta è tolta.”

Galeazzo, a quel punto, restò basito nel vedere la reazione degli uomini più potenti e facoltosi della città. In tutta franchezza si era atteso che quella dichiarazione scatenasse un altro scoppio di urla e recriminazioni, o che, quanto meno, qualcuno cercasse di contrastare le decisioni della Contessa ancora una volta.

Invece, quando la Sforza aveva parlato, tutti si erano zittiti all'istante e, il viso coperto da una coltre di timore, erano usciti ordinatamente uno dopo l'altro, salutando con l'inchino d'etichetta.

Appena furono tutti fuori e nel salone rimasero solo Numai, Galeazzo, l'Oliva, Mongardini e il cancelliere Cardella, la donna si lasciò ricadere sul suo scranno, una mano alla fronte, e disse, chiamando a sé il capo delle sue spie: “Tenete sotto controllo tutti i nobili della città e tutti i funzionari. Al minimo segno di pericolo, dite alle guardie di procedere con l'arresto.”

L'Oliva annuì: “Sarà fatto, mia signora.”

Dopodiché la Tigre chiese a tutti di lasciarla, eccezion fatta per Galeazzo. Il ragazzo, al suo posto fin dall'inizio, osservava la madre con attenzione. La vedeva tirata e scontenta. Non era come quando era morto il Barone Feo, ma ci andava molto vicino. Se all'epoca era stata la furia, a tenerla viva, adesso quella molla mancava e restava solo la mestizia della paura di sbagliare.

“Hai capito perché l'ho fatto?” gli chiese, dopo un lungo silenzio.

“Sì, madre.” annuì subito il Riario.

“Non puoi essere un buon comandante, se permetti alle tue truppe di non avere una morale.” andò avanti la donna, quasi tra sé: “La macchina dello Stato è come un esercito. Per avere buoni soldati, devi avere ottimi comandanti.”

Il ragazzino annuì di nuovo. La madre parve sul punto di dirgli ancora qualcosa, ma poi si trattenne. In quel momento, alla luce fredda di quella giornata di febbraio che filtrava dai finestroni, Galeazzo le pareva solo un bambino spaventato.

“Avanti, adesso torniamo alla rocca.” sospirò: “Ci aspettano ancora molte cose da fare. Ma prima voglio passare un momento da tuo fratello Giovannino.”

Il Riario seguì la madre fino a Ravaldino e lì, quando arrivarono alla stanza del piccolo, capì che la donna preferiva essere lasciata sola con i suoi pensieri, così la salutò, chiedendole se l'avrebbe vista nel pomeriggio nel cortile d'addestramento.

Caterina disse di sì e poi andò da Giovannino, congedò la balia e rimase sola con il suo figlio più piccolo. Lo strinse al cuore con forza, e poi, lasciandolo giocare accanto a sé, davanti al camino, si perse nelle sue congetture, domandandosi se avesse davvero fatto la cosa giusta.

Di quando in quando guardava il piccolo che, gli occhi dal taglio così simile a quello del padre, ricambiava il suo sguardo con una fermezza rara in un bambino che aveva appena compiuto dieci mesi.

“Ti auguro di assomigliare a tuo padre più di quanto dicono somigli a me.” gli disse, dopo un po' e Giovannino, in tutta risposta, tese le bracciotte verso di lei, convincendola a prenderlo di nuovo in braccio.

Nel prenderlo, l'occhio della milanese ricadde per un istante sul nodo coniugale che portava al dito e che, come una fiammella esso stesso, aveva brillato per un secondo grazie al riflesso del fuoco del camino.

Così, sentendo la presenza di Giovanni accanto a sé, con il figlio tra le braccia, la Tigre, con un sorriso malinconico nel ricordare le lunghe chiacchierate con il marito a immaginarsi il bambino che ancora doveva nascere, specificò: “Anche se, a dire il vero, tuo padre un po' ci sperava, che somigliassi tanto anche a me.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas