Capitolo
3
Fra
tormento e rimpianti
“T’amo e non
t’amo come se avessi nelle mie mani le chiavi della gioia e un incerto destino
sventurato. Il mio amore ha due vite per amarti. Per questo t’amo quando non
t’amo e per questo t’amo quando t’amo.”
Pablo Neruda,
Sonetto XLIV
Immagine dal film “Schindler’s List”
Il
ricordo del primo incontro con Hermann, come un vortice, attanagliò lo stomaco
di Sarah che si precipitò nel bar, intenta a farsi sostituire. Il giovane
pescatore, senza volerlo, aveva fatto riemergere in lei molteplici sentimenti:
il dolore e la malinconia, il senso di colpa e la vergogna di un amore malato,
la paura e la repulsione di essere ancora desiderata.
“Hannah,
scusami, potresti sostituirmi ai tavolini fuori? Credo di non sentirmi molto
bene e ho bisogno di andare al bagno”, chiese alla sua collega e amica.
“Certo!
Ma vuoi che ti accompagni? Non hai una bella cera”, fece Hannah con
apprensione, notando il suo improvviso pallore.
“No,
non preoccuparti, vado da sola”, rispose per poi correre in bagno e, piegatasi
sul lavandino, vomitò.
Vomitò
con forza come per liberare le proprie viscere dal ricordo di Hermann, della
sua voce calda e autoritaria in un italiano stentato, del suo profumo intenso e
avvolgente, dei suoi occhi insondabili come l’oceano, delle sue mani che
l’avevano salvata facendole del male.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Tenendola per il mento,
il tenente iniziò a muoverle il viso da un lato all’altro, squadrandola con
seria attenzione.
“Quanti anni hai?” le
domandò, mantenendo un tono di sufficienza mentre Sarah cercava di tenere lo
sguardo fisso su un punto che non fosse il verde dei suoi occhi glaciali.
“Venti”, rispose con
voce fioca e rotta dalla paura.
Poi le passò il pollice
sulle labbra, socchiudendogliele leggermente e facendole ingoiare l’odore forte
del guanto in pelle. Il respiro di Sarah divenne più affannoso.
“Puoi sederti”, le
disse con improvvisa e sospetta gentilezza, indicandole il letto.
Si tolse il cappello, i
guanti, la giacca e, allentando il colletto della camicia, proseguì risoluto: “Con
quanti uomini sei stata?”
Sarah trasalì di
vergogna e paura e capì le vere intenzioni del tenente.
“Nessuno”, balbettò,
domandandosi come avrebbe potuto salvarsi da quel pericolo.
Il tenente emise un
ghigno sarcastico.
“Voi stupide ebree
italiane, che giocate a fare le puritane, siete le peggiori di tutte”, disse,
versandosi un bicchiere di vodka.
Sarah si alzò di
scatto, mossa da un coraggio che non credeva di avere in un simile frangente.
Soffrire la fame, il freddo, abbandonarsi all’incertezza di una nuova
destinazione, forse in un campo di lavoro forzato in Germania, sarebbe stato
meglio che perdere se stessa.
“Io rinuncio a
qualsiasi trattamento di favore”, esordì impaurita ma, allo stesso tempo, con
tono deciso mentre l’espressione del tenente divenne ancor più dura,
accendendosi di rabbia.
Di certo non si
aspettava una reazione del genere e, con uno schiaffo fortissimo, la scaraventò
a terra.
“Come osi sputare nel
piatto che ti offro da mangiare?!” le urlò contro, incespicando nel suo
italiano.
Sarah rimase immobile,
pietrificata dal dolore e dalla paura a guardare, attraverso il velo di
lacrime, le gocce di sangue dal naso cadere sul pavimento.
“Sarah!
Sarah! Stai bene?!” fece Hannah preoccupata, picchiando forte alla porta del
bagno.
Quella
voce amica la riportò alla realtà presente.
“Sì!”
rispose stordita, sciacquandosi vigorosamente la bocca. “Un attimo, Hannah!”
Aperta
la porta, Sarah si ritrovò addosso due occhi sgranati di apprensione.
“Il
signor Gennaro dice che puoi tornare a casa, se non ti senti bene”, le disse
Hannah, scrutandola impensierita.
“Sì,
credo proprio che tornerò a casa”, ribatté Sarah con un sospiro, portando le
mani sulla fronte e poi fra i capelli, nel tentativo di sistemare dietro alle
orecchie i ciuffi sfuggiti dallo chignon.
“Ah!
Quasi dimenticavo.” Hannah frugò nella tasca della gonna, tirando fuori e
porgendole un biglietto. “Ho trovato questo per te.”
Sarah
prese il biglietto e, a sua volta, lo conservò in tasca, senza neanche
chiedersi di cosa si trattasse.
“Grazie”,
rispose in tono quasi assente.
Tornata
a casa, Sarah si sfilò le scarpe e, con la schiena appoggiata alla parete del
corridoio, si lasciò scivolare a terra. Sciolse lo chignon scompigliato e, con
entrambe le mani, massaggiò la testa appesantita, incapace di aggrapparsi a un
pensiero che non fosse Hermann. Per quanto si sforzasse di mandarlo via, lui
restava lì, tra le pieghe del suo cuore, in ogni angolo del suo corpo, fino a
raggiungere le profondità del suo essere, diviso tra angoscia e nostalgia.
Amava ancora il suo carnefice e questa era l’assurda e vergognosa verità che da
due anni cercava di nascondere a se stessa. Lo amava fra il tormento dei sensi
di colpa e del suo sentirsi sporca, fra il dolore per le ferite da lui inferte
e il rimpianto di ciò che erano diventati assieme. Mise la mano nella tasca
della gonna in cerca del biglietto, in cerca di un diversivo ai suoi pensieri
e, apertolo, lesse le poche parole di una scrittura imprecisa e piena di errori
ortografici.
«Per
Sarah. Perdonatemi se vi ho mancato di rispetto. Da Matteo.»
Accartocciò
il biglietto e, con uno sbuffo, lo gettò, lanciandolo lontano sul pavimento.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Afferrandola per il
braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal pavimento.
“Tu farai quello che
voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio fino a quasi imprimere le
dita nelle sue ossa.
Sarah sapeva benissimo
di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro tanta violenta forza ma
era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la sua integrità. Tra
lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il tenente l’afferrò da
dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le mancò il respiro e
credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla ricerca smaniosa delle
sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per zittirne le flebili urla. Poi
il tenente le strappò di dosso il vestito, graffiandole la pelle, lacerandole
l’anima e, come se pesasse poco più di una piuma, la gettò sul letto,
schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò ancora di resistergli
scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette arrendersi dopo due forti
schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore accresceva, chiuse gli occhi per
evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le orecchie per non sentire i suoi
spasimi di piacere. Tra le sue mani era come una bambolina di pezza da girare e
rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a quando non fu stanco di giocarci.
Strisciando
sul pavimento, Sarah raccolse il biglietto e, stiratolo, lo lesse di nuovo. Si
sentiva sola ma, nonostante fosse una pazzia, non riusciva a immaginarsi
accanto a un uomo che non fosse il suo Hermann.
Matteo
distolse lo sguardo dalla rete che stava riparando per rivolgerlo alla
ringhiera della banchina ma, questa volta, Sarah non era lì.
“T’avev
ritt je”[1],
gli disse il compare con tono canzonatorio, calpestando il suo dispiacere.
“Tu sarai per
sempre
il mio peccato
originale.
In questa corsa
per la vita
tu sei il mio
lavoro nero.
Ed io non posso
farne a meno
farmi di te e
farmi male,
far tardi a
leggere la notte
i tuoi pensieri
col pensiero.”
Claudio
Baglioni, Niente più