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Autore: Nadine_Rose    03/11/2018    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Capitolo 3

 

Fra tormento e rimpianti

 

“T’amo e non t’amo come se avessi nelle mie mani le chiavi della gioia e un incerto destino sventurato. Il mio amore ha due vite per amarti. Per questo t’amo quando non t’amo e per questo t’amo quando t’amo.”

Pablo Neruda, Sonetto XLIV

 


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Immagine dal film “Schindler’s List”

 

Il ricordo del primo incontro con Hermann, come un vortice, attanagliò lo stomaco di Sarah che si precipitò nel bar, intenta a farsi sostituire. Il giovane pescatore, senza volerlo, aveva fatto riemergere in lei molteplici sentimenti: il dolore e la malinconia, il senso di colpa e la vergogna di un amore malato, la paura e la repulsione di essere ancora desiderata.

“Hannah, scusami, potresti sostituirmi ai tavolini fuori? Credo di non sentirmi molto bene e ho bisogno di andare al bagno”, chiese alla sua collega e amica.

“Certo! Ma vuoi che ti accompagni? Non hai una bella cera”, fece Hannah con apprensione, notando il suo improvviso pallore.

“No, non preoccuparti, vado da sola”, rispose per poi correre in bagno e, piegatasi sul lavandino, vomitò.

Vomitò con forza come per liberare le proprie viscere dal ricordo di Hermann, della sua voce calda e autoritaria in un italiano stentato, del suo profumo intenso e avvolgente, dei suoi occhi insondabili come l’oceano, delle sue mani che l’avevano salvata facendole del male.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

 

Tenendola per il mento, il tenente iniziò a muoverle il viso da un lato all’altro, squadrandola con seria attenzione.

“Quanti anni hai?” le domandò, mantenendo un tono di sufficienza mentre Sarah cercava di tenere lo sguardo fisso su un punto che non fosse il verde dei suoi occhi glaciali.

“Venti”, rispose con voce fioca e rotta dalla paura.

Poi le passò il pollice sulle labbra, socchiudendogliele leggermente e facendole ingoiare l’odore forte del guanto in pelle. Il respiro di Sarah divenne più affannoso.

“Puoi sederti”, le disse con improvvisa e sospetta gentilezza, indicandole il letto.

Si tolse il cappello, i guanti, la giacca e, allentando il colletto della camicia, proseguì risoluto: “Con quanti uomini sei stata?”

Sarah trasalì di vergogna e paura e capì le vere intenzioni del tenente.

“Nessuno”, balbettò, domandandosi come avrebbe potuto salvarsi da quel pericolo.

Il tenente emise un ghigno sarcastico.

“Voi stupide ebree italiane, che giocate a fare le puritane, siete le peggiori di tutte”, disse, versandosi un bicchiere di vodka.

Sarah si alzò di scatto, mossa da un coraggio che non credeva di avere in un simile frangente. Soffrire la fame, il freddo, abbandonarsi all’incertezza di una nuova destinazione, forse in un campo di lavoro forzato in Germania, sarebbe stato meglio che perdere se stessa.

“Io rinuncio a qualsiasi trattamento di favore”, esordì impaurita ma, allo stesso tempo, con tono deciso mentre l’espressione del tenente divenne ancor più dura, accendendosi di rabbia.

Di certo non si aspettava una reazione del genere e, con uno schiaffo fortissimo, la scaraventò a terra.

“Come osi sputare nel piatto che ti offro da mangiare?!” le urlò contro, incespicando nel suo italiano.

Sarah rimase immobile, pietrificata dal dolore e dalla paura a guardare, attraverso il velo di lacrime, le gocce di sangue dal naso cadere sul pavimento.

 

“Sarah! Sarah! Stai bene?!” fece Hannah preoccupata, picchiando forte alla porta del bagno.

Quella voce amica la riportò alla realtà presente.

“Sì!” rispose stordita, sciacquandosi vigorosamente la bocca. “Un attimo, Hannah!”

Aperta la porta, Sarah si ritrovò addosso due occhi sgranati di apprensione.

“Il signor Gennaro dice che puoi tornare a casa, se non ti senti bene”, le disse Hannah, scrutandola impensierita.

“Sì, credo proprio che tornerò a casa”, ribatté Sarah con un sospiro, portando le mani sulla fronte e poi fra i capelli, nel tentativo di sistemare dietro alle orecchie i ciuffi sfuggiti dallo chignon.

“Ah! Quasi dimenticavo.” Hannah frugò nella tasca della gonna, tirando fuori e porgendole un biglietto. “Ho trovato questo per te.”

Sarah prese il biglietto e, a sua volta, lo conservò in tasca, senza neanche chiedersi di cosa si trattasse.

“Grazie”, rispose in tono quasi assente.

Tornata a casa, Sarah si sfilò le scarpe e, con la schiena appoggiata alla parete del corridoio, si lasciò scivolare a terra. Sciolse lo chignon scompigliato e, con entrambe le mani, massaggiò la testa appesantita, incapace di aggrapparsi a un pensiero che non fosse Hermann. Per quanto si sforzasse di mandarlo via, lui restava lì, tra le pieghe del suo cuore, in ogni angolo del suo corpo, fino a raggiungere le profondità del suo essere, diviso tra angoscia e nostalgia. Amava ancora il suo carnefice e questa era l’assurda e vergognosa verità che da due anni cercava di nascondere a se stessa. Lo amava fra il tormento dei sensi di colpa e del suo sentirsi sporca, fra il dolore per le ferite da lui inferte e il rimpianto di ciò che erano diventati assieme. Mise la mano nella tasca della gonna in cerca del biglietto, in cerca di un diversivo ai suoi pensieri e, apertolo, lesse le poche parole di una scrittura imprecisa e piena di errori ortografici.

«Per Sarah. Perdonatemi se vi ho mancato di rispetto. Da Matteo.»

Accartocciò il biglietto e, con uno sbuffo, lo gettò, lanciandolo lontano sul pavimento.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

 

Afferrandola per il braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal pavimento.

“Tu farai quello che voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio fino a quasi imprimere le dita nelle sue ossa.

Sarah sapeva benissimo di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro tanta violenta forza ma era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la sua integrità. Tra lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il tenente l’afferrò da dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le mancò il respiro e credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla ricerca smaniosa delle sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per zittirne le flebili urla. Poi il tenente le strappò di dosso il vestito, graffiandole la pelle, lacerandole l’anima e, come se pesasse poco più di una piuma, la gettò sul letto, schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò ancora di resistergli scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette arrendersi dopo due forti schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore accresceva, chiuse gli occhi per evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le orecchie per non sentire i suoi spasimi di piacere. Tra le sue mani era come una bambolina di pezza da girare e rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a quando non fu stanco di giocarci.

 

Strisciando sul pavimento, Sarah raccolse il biglietto e, stiratolo, lo lesse di nuovo. Si sentiva sola ma, nonostante fosse una pazzia, non riusciva a immaginarsi accanto a un uomo che non fosse il suo Hermann.

 

Matteo distolse lo sguardo dalla rete che stava riparando per rivolgerlo alla ringhiera della banchina ma, questa volta, Sarah non era lì.

“T’avev ritt je”[1], gli disse il compare con tono canzonatorio, calpestando il suo dispiacere.

 

“Tu sarai per sempre

il mio peccato originale.

In questa corsa per la vita

tu sei il mio lavoro nero.

Ed io non posso farne a meno

farmi di te e farmi male,

far tardi a leggere la notte

i tuoi pensieri col pensiero.”

 

Claudio Baglioni, Niente più



[1]“Te l’avevo detto io.”

   
 
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