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Autore: Adeia Di Elferas    04/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quel 7 febbraio il cielo sopra Roma era di un azzurro terso e pieno. Il sole che splendeva senza alcuna nuvola a infastidirlo stava facendo desiderare follemente a Lucrecia che l'inverno finisse presto e cominciasse la primavera.

Le temperature erano ancora basse e, quando uscì dai suoi appartamenti, dovette coprirsi accuratamente, ma il clima era comunque troppo piacevole per restarsene tutto il giorno al chiuso.

Si sentiva bene e aveva voglia di muoversi. Il figlio che portava in grembo cresceva bene, almeno così dicevano le sue dame di compagnia, che non la perdevano di vista un momento, da quando l'avevano saputa incinta, e quell'aria frizzante le stava mettendo fame non solo di cibo, ma anche di vita.

Alfonso era impegnato e quindi la giovane non poteva nemmeno sperare di passare con lui una mattina di svago. Però c'era un invito, all'inizio da lei ignorato, del Cardinale Lòpez, che le aveva ufficialmente aperto le sue famosissime vigne, affinché, appena l'avesse voluto si concedesse una sana cavalcata immersa nella natura.

Il periodo del Carnevale e l'incombere della Quaresima – non che in Vaticano si avvertisse molto la differenza tra i due periodi – fece decidere la Borja. Pensava che, malgrado i costumi liberi di suo padre e dei suoi parenti, sarebbe apparso inopportuno indulgere in una cavalcata di piacere durante un periodo di penitenza come i quaranta giorni che precedevano la Pasqua.

Così, messe in visibilio tutte le sue dame di compagnia, fece preparare i cavalli e partì alla volta delle vigne di Lòpez.

Il terreno era un po' fangoso, per via di tutta la pioggia caduta nei giorni addietro, ma nel complesso la cavalcata era abbastanza agevole. Dapprima, passando tra le viti, le donne non spronarono le loro cavalcature, anzi, le condussero molto lentamente, approfittando dell'occasione di essere in mezzo alla campagna aperta per abbandonarsi a chiacchiere molto più licenziose del solito.

Lucrecia, però, che non aveva mai amato troppo i discorsi volgari, finì per stancarsene in fretta. Le pareva uno spreco di tempo, ascoltare le sue amiche discutere delle differenze che intercorrevano tra i vari uomini della corte papale e, quando un paio di loro furono sul punto di litigare a causa di un confronto poco lusinghiero fatto tra l'amante di uno di queste e un noto decrepito Cardinale, la Borja decise di movimentare un po' la situazione.

“Vediamo chi mi sta dietro!” esclamò, ridendo e dando un colpo secco col tallone al fianco del suo cavallo.

Questi partì rapido e agile tra i filari, e Lucrecia, abilissima in sella, distaccò subito le poche dame di compagnia che avevano osato lanciarsi al suo inseguimento.

Correndo a quel modo, sotto al sole abbastanza caldo che si avvicinava allo zenit, l'odore della terra umida nelle narici e la sensazione forte ed esaltante del cavallo che galoppava sotto di lei, la giovane riuscì a dimenticarsi per un po' di tutto quanto.

Era così immersa nelle sensazioni che quella selvaggia cavalcata le stava dando, da non accorgersi subito di una irregolarità molto pronunciata del terreno.

Il cavallo, parimenti a lei, se ne avvide troppo tardi e una delle zampe inciampò, storcendosi e spezzandosi con un sordo schiocco, costringendolo a una rovinosa caduta. Lucrecia, per quando si stesse tenendo saldamente alle redini, venne sbalzata via dalla sella, finendo a un paio di metri dalla bestia.

Quando le due dame di compagnia che le erano più vicine la raggiunsero, rischiando anche loro di ruzzolare in terra, dato che le loro cavalcature si impennarono, nel vedere il cavallo della figlia del papa morente in terra, trovarono la Borja priva di sensi sul terreno fangoso.

 

Ottaviano Manfredi teneva i gomiti appoggiati alle ginocchia e osservava attento il cantiere che, come un formicaio, si muoveva incessantemente davanti a lui.

Era seduto su un sacco vuoto, per proteggersi dal terreno freddo e accanto a lui, sistemato in modo analogo, stava Ottaviano Riario.

Se il faentino si stava prendendo una pausa dopo una mattinata lunghissima passata a ritrattare con Caterina i precisi termini del loro accordo per la conquista di Faenza, il forlivese arrivava da ore di totale noia e nullafacenza, così aveva accettato molto volentieri l'invito dell'amico di mangiare e bere qualcosa insieme.

“Potevamo entrare alla rocca, però.” disse il Riario, rigido, a un certo punto, mentre alcuni operai si mettevano a gridare con il capomastro perché in disaccordo con la posa di qualche pietra.

Ad agitare il giovane Conte non era tanto il freddo – pungente, benché non nevicasse – né la presenza tutt'altro che discreta dei costruttori. Era la visione del Paradiso, struttura che a lavoro finito sarebbe stata inclusa nella nuova cittadella, a disturbarlo. Di norma cercava di evitare quella casupola, che gli riportava alla mente lo stalliere, il modo in cui era morto e, soprattutto, il tempo in cui era stato vivo.

Ottaviano poteva ancora rivederlo mentre entrava – secondo lui con discrezione – al Paradiso tenendo per mano la Tigre. Poteva ancora sentirlo parlare, con quel suo tono arrogante, tipico dei poveracci che hanno fatto fortuna per meriti non loro. Poteva ancora scorgere ciò che aveva spiato una volta nel bosco: sua madre che cominciava a spogliare il maledetto Feo e...

“Non mi dirai che un eroe di guerra come te si lascia infastidire da un po' di freddo.” rise Manfredi, risvegliando l'amico dai suoi ricordi.

Il faentino versò un po' di vino nella coppa che aveva portato con sé e, dopo averne bevuta metà, lasciò ciò che restava al Riario, che la sorbì tutta d'un fiato, nemmeno si fosse trattato di un liquore.

Il ventiseienne, nel vedere l'altro in quello stato, un po' si preoccupò. Il suo omonimo non aveva amici, questo gli era stato chiaro fin dai tempi del campo pisano, ma, da quando era a Forlì, non aveva avuto più alcun dubbio in merito.

Conosceva i suoi vizi e intuiva pressoché tutte le sue numerose debolezze, eppure non riusciva a disprezzarlo del tutto. Per certi versi, poteva rivedere in lui ciò che forse egli stesso sarebbe stato, se non fosse stato esiliato da ragazzino da Faenza.

In effetti, da quando Manfredi era tornato in città, lui e il figlio della Contessa avevano passato molto tempo assieme. Quando non era con la Sforza a parlare di affari di Stato o a dedicarsi a lei in altro modo, il faentino trascorreva buona parte delle sue giornate con il suo vecchio compagno d'armi, tanto che aveva sentito dire da qualcuno, alludendo a loro, che 'dove uno è visto, non manca l'aspetto dell'altro'.

“Ho sentito dire che ripartirai presto per il Casentino.” fece il Riario, lo sguardo che passava nervosamente dal cantiere al Manfredi.

“Sì.” rispose quello: “Anche se non vorrei.”

“E non partire, allora.” provò a dire il figlio della Tigre, che, da quando Giovanni Medici era morto, si era sentito sempre più solo, disperando di avere vicino un amico come il faentino: “Tanto scommetto che mia madre sarebbe la prima a essere felice di vederti restare.” soggiunse, non senza una punta di veleno nella voce.

L'altro Ottaviano sollevò un angolo della bocca e commentò: “Ho solo i soldi che mi passa Firenze con il suo ingaggio, non posso permettermi di non avere più nemmeno quell'entrata. E tu lo sai che non voglio gravare su di voi in alcun modo. Tant'è che non vi ho mai chiesto un soldo.”

Il Riario stava per ribattere in qualche modo, magari proponendosi come finanziatore privato dell'amico – benché, da quando sua madre gli aveva ordinato di versare personalmente i soldi per il mantenimento di sua figlia Cornelia a Imola, attingendo dalla somma che gli veniva accordata di mese in mese dal contabile della Contessa, a Ottaviano restassero ben pochi soldi disponibili, la maggior parte dei quali, per altro, già virtualmente impegnati per saldare i debiti contratti con i bordelli di mezza città – quando qualcosa lo distrasse abbastanza da fargli mormorare: “Ma che sta facendo..? Uno zotico come suo padre...”

Manfredi, seguendo lo sguardo del forlivese, vide nel cantiere qualcosa di strano. Si trattava, lo riconobbe quasi subito, di Bernardino, uno dei figli della sua amante. Sembrava stesse scappando e, infatti, poco dopo, videro anche un uomo che lo rincorreva, intimandogli di fermarsi.

Il faentino strinse le labbra, indeciso se intervenire o meno. Da un lato avrebbe voluto acciuffare per primo Bernardino, placare quello che lo inseguiva e portare il bambino dalla madre, affinché decidesse lei se fosse o meno il caso di punirlo in qualche modo.

D'altro canto, però, si sentiva del tutto estraneo alle vicende private della famiglia Sforza Riario e dunque temeva che un suo intervento potesse venire letto come un'ingerenza da parte di Caterina.

Mentre era ancora lì, indeciso sul da farsi, qualcuno del cantiere agì per lui, correndo via, probabilmente per andare a cercare la Contessa.

Il Riario, che non si era mosso di un millimetro fino a quel momento, si alzò e, dandosi qualche colpetto alle brache, per togliere le pieghe, commentò a denti stretti: “Io me ne vado. Non ho voglia di vedere altro...”

L'amico fece un cenno con il capo e il figlio della Tigre allacciò le mani dietro la schiena e si incamminò in direzione opposta alla cittadella del Paradiso. Sentì in lontananza la voce di suo fratello Bernardino, del suo fratellastro Bernardino, che, forse perché catturato, si stava prodigando in volgarità di ogni tipo.

“Peggio di nostra madre...” borbottò il Conte, imboccando con decisione la strada che portava nel cuore della città.

Quando Caterina arrivò al cantiere, scortata dal manovale che era andato a cercarla e dal Capitano Mongardini, trovò Bernardino ancora preda dell'uomo che l'aveva inseguito. Il bambino non stava fermo un istante e smise di sciorinare improperi solo quando vide la madre.

La donna, scura in viso, fece un cenno ai due contendenti di seguirla e poi abbaiò agli operai di riprendere i lavori, dato che lo spettacolo era finito.

Solo a quel punto Manfredi si alzò dal suo sacco vuoto e seguì a passi lunghi e silenziosi la sua amante, cercando di non farsi notare.

La Contessa, trovato un punto tranquillo del cantiere, guardò il figlio e gli chiese, secca: “Che cos'hai combinato, questa volta?”

Bernardino, il viso arrossato e gli occhi in terra, scossa con decisione il capo, ben deciso a non dire nulla.

La Tigre attese un momento, sul punto di ripetere la domanda, magari aggiungendo uno strattone, in modo da indurlo più facilmente a confessare, ma il piccolo, per un istante, sollevò lo sguardo, forse per valutare quanto sua madre fosse realmente in collera con lui. Incrociare i suoi occhi grandi e scorgere una volta di più il suo viso, così simile, quando assumeva quel genere di espressione, a quello di Giacomo, indusse la Sforza a provare un'altra strada.

“Che cosa è successo?” chiese, allora, rivolgendosi all'uomo che, nel momento stesso in cui l'aveva vista arrivare al cantiere, si era sentito spacciato.

Aveva inseguito il ragazzino d'impulso, stanco dal lavoro frenetico di quei giorni e solo quando aveva capito chi fosse in realtà si era reso conto del rischio che aveva corso, nel reagire a quel modo. Ma chi avrebbe potuto pensare, a prima vista, che un ladruncolo, vestito con abiti un po' rovinati e coi capelli tutti arruffati, potesse essere il figlio di una Contessa?

“Io faccio l'armaiolo.” disse piano l'uomo, il capo chino come un penitente e le mani giunte in grembo quasi fosse davanti a un prete per chiedere l'assoluzione.

“Lo so, questo.” fece Caterina, riconoscendo uno degli artigiani a cui aveva affidato gran parte delle commissioni per il suo esercito.

“Ecco... Poco fa ho visto... Ho visto vostro figlio prendere nella mia bottega un pugnale e gli ho gridato di fermarsi, ma lui è scappato e così l'ho inseguito...” spiegò il derubato, così spaventato da mettersi quasi a piangere: “Vi giuro che non avevo capito che fosse vostro figlio... Se l'ho preso per la collottola, l'ho fatto solo perché quel pugnale era un pezzo già venduto e...”

“Basta così.” disse piano la Sforza, tornando a guardare Bernardino e facendo un cenno al Capitano Mongardini: “Controlla se ha con sé il pugnale.”

Il bambino cercò di opporsi, ma al Capitano bastò infilargli una mano nel giacchetto per trovare subito la refurtiva.

“Ecco il vostro pugnale – fece allora la Tigre, facendo restituire il maltolto all'armaiolo – vi farò avere una somma come scusa per l'inconveniente.”

L'uomo, ben felice di non vedersi punire per aver alzato le mani sul figlio della sua signora, ringraziò sentitamente e appena fu certo di poterlo fare, se ne andò.

“Lasciatemi sola con lui.” disse la Sforza, congedando l'operaio e il Capitano.

Manfredi, qualche metro di distanza, restò in ascolto, ma non provò nemmeno ad avvicinarsi. La scena che aveva davanti, in quell'angolo tranquillo del cantiere, lontano dagli sguardi indiscreti dei costruttori, ebbe il potere di calamitare la sua vista, donandogli uno spaccato della Leonessa che non conosceva, se non per sentito dire.

La donna si era chinata davanti al figlio e lo teneva fermo per le braccia, forse temendo di vederselo sgusciare via da un momento all'altro: “Perché l'hai fatto?” gli chiese, con tono fermo, ma non eccessivamente inquisitorio.

Bernardino non rispose, restando imbronciato e sollevando solo per pochi istanti lo sguardo verso quello della madre, come se quel contatto potesse tentarlo abbastanza da fargli dire la verità.

“Avanti, dimmelo. Non ti farò niente, ma voglio saperlo.” insistette Caterina, stringendo appena la presa sulla braccia del figlio.

Quelle, come il resto del suo corpo, erano longilinee e promettevano di fare di lui un uomo alto e probabilmente anche ben proporzionato. Il suo viso, benché la Tigre si ostinasse a vedervi solo lo spettro di Giacomo, era una commistione delle due bellezze dei genitori – così diverse, ma entrambi così sfolgoranti – e quindi, unito a un fisico che negli anni di sarebbe fatto più robusto e adulto, lasciava sperare per lui un aspetto eccezionalmente attraente.

“Galeazzo ha il suo pugnale e anche io ne volevo uno, per farmi rispettare.” fu la risposta del piccolo Feo, che alla fine cedette all'insistenza della madre.

La Contessa si morse il labbro, ricordando come fosse stato Giovanni a regalare un pugnale a Galeazzo e cercò di aggiustare la questione dicendo: “Ti regalerò io un pugnale, quando sarà il momento. Adesso non voglio darti nulla del genere, perché sei ancora troppo giovane per usarlo nel modo corretto.”

“Ma io...” provò a dire Bernardino, la furia che tornava a scaldargli il collo, arrossandolo.

“Ma tu niente. Devi solo smetterla, hai capito?” lo riprese la donna, dandogli un piccolo strattone, come per svegliare ancora di più la sua attenzione su quel che diceva: “Adesso sono arrivata io, ma che sarebbe successo, se non fossero venuti a chiamarmi? Ma lo sai che per un furto così un ragazzino può essere picchiato e potrebbe addirittura essere ucciso, se finisce nelle mani sbagliate?”

Il Feo tacque, serio in viso e un po' spaventato da come la madre lo stava fissando.

Caterina, seguendo l'istinto del momento, lo tirò a sé e l'abbracciò: “Devi stare attento. Non voglio rinchiuderti in una rocca, questo no...” sussurrò al suo orecchio, pensando a come anche con Bianca, a volte, la tentazione di ridurre le sue libertà, per il suo bene, fosse forte: “Tu mi somigli e so che non sopporteresti a lungo di stare in gabbia, ma non voglio nemmeno che uno di questi giorni arrivi qualcuno a Ravaldino a dirmi che sei rimasto ucciso in uno stupido scontro tra ragazzini o perché hai rubato qualcosa in qualche bottega.”

Manfredi non riusciva più a sentire cosa la Tigre stesse borbottando nell'orecchio del figlio, ma quando la donna si staccò un po' da lui, per vederlo in volto, finalmente alzò di nuovo la voce e il faentino poté tornare a origliare.

“Amo ancora troppo tuo padre, per permettere che ti capiti qualcosa. Non lo sopporterei, se ti perdessi. Sei l'unica cosa che mi resta di lui.” concluse la Contessa, rimettendosi in piedi e accarezzando la testa del figlio.

“Allora cercherò di essere il più bravo di tutti a fare a pugni.” commentò il bambino, in un pallido tentativo di alleggerire l'atmosfera.

Caterina, comprendendo il goffo sforzo del piccolo, gli diede una piccola pacca sulla spalla e sorrise, un po' triste: “Bernardino, ti prego, cerca di calmarti. So come ti senti e capisco il fuoco che ti brucia dentro, ma più lo lascerai ardere, più di scotterai. Fidati di me, che mi sono scottata anche troppe volte.”

Il Feo annuì, con una serietà che sul viso di un bambino di otto anni compiuti relativamente da poco era quasi comica, e così la Sforza lo lasciò andare con un ultimo buffetto, convinta, comunque, che non sarebbero bastate quelle poche parole a cambiare suo figlio.

Non appena Bernardino fu lontano, Manfredi decise di palesarsi. Con passo leggero e andatura casuale, si presentò davanti alla Leonessa, le sopracciglia sollevate.

“Niente male, Tigre – le disse, mentre lei appariva sorpresa di vederlo lì – meglio di un oratore dell'antica Roma.”

“Stai zitto, Manfredi.” fece lei, irritandosi all'istante.

Ancora non riusciva a decifrare ciò che la presenza di quel faentino causava in lei. Da un lato lo trovava un uomo pressoché insopportabile e non apprezzava minimamente ciò che lui faceva o diceva nell'intento di apparire più simpatico o attraente. Eppure, dall'altro lato, lo trovava l'uomo più desiderabile sulla piazza, tanto da essere pronta a mettere a rischio parecchie cose, pur di poterlo avere ancora nel suo letto. La certezza di poterlo avere pressoché ogni volta in cui lo voleva, l'aiutava a stare più calma, permettendole di concentrarsi meglio sugli affari di Stato e sui pericoli che stavano attanagliando le sue città.

“Sai, Tigre, io l'avevo visto... Ero seduto lì con tuo figlio Ottaviano – riprese Manfredi, indicando il punto in cui giaceva ancora il sacco vuoto che gli aveva fatto da trono – e ho assistito all'inseguimento, ma mai avrei creduto che uno dei tuoi pargoli potesse essere un ladruncolo.”

Il tono dato dal faentino a quella frase avrebbe voluto essere leggere, forse ridicolo, ma la Sforza non era dell'umore giusto per quel genere di facezie.

“Se hai visto tutto fin dall'inizio – ribatté, con durezza – perché non hai fatto nulla? Avresti potuto intervenire, evitando che tutti capissero cos'era successo.”

“Non sono affari miei.” fece lui, allargando appena le lunghe braccia e cambiando atteggiamento.

“Se ci fosse stato Giovanni, non ci avrebbe pensato un momento a fare quel che andava fatto.” fu il secco commento della Contessa: “Comunque sia, già che ci sei, sappi che ho indetto un Consiglio ristretto straordinario. Ci sono notizie dal fronte. Ti aspetto nella sala della Guerra al tramonto.”

Manfredi, che ultimamente non era mai stato interpellato per quel genere di riunione, rimase sorpreso e, chinando il capo, disse forzatamente ossequioso: “Come Sua Signoria comanda.”

“Vai al diavolo, Manfredi.” fece Caterina, ma, quella volta, sulle sue labbra il faentino poté scorgere l'ombra di un sorriso.

 

“Cosa volete che me ne importi, adesso!” sbottò Alessandro VI, scansando in malo modo il suo segretario personale, che stava balbettando qualcosa in merito a delle notizie molto importanti arrivate giusto quella sera dalla Francia: “Levatevi di mezzo!”

Il papa stava cercando di raggiungere le stanze della figlia, dove Lucrecia era stata appena portata, seguita da un codazzo di medici, dame di compagnia e servitù.

All'inizio, era stato detto a Rodrigo, i soccorritori non avevano osato spostarla, temendo che ogni movimento potesse esserle fatale, poi, però, aveva ripreso conoscenza e si era deciso di fare un tentativo.

Riportata nei suoi appartamenti, si stava facendo tutto il possibile per capire come stesse e, tra le altre cose, come stesse il figlio che aveva detto di portare in grembo.

Quando finalmente arrivò al portone della stanza da letto di Lucrecia, però, trovò Alfonso d'aragona e la maggior parte delle ancelle della giovane fermi dinnanzi all'ingresso, preoccupati e tesi.

All'improvviso, la voglia di vedere coi suoi occhi in che stato fosse sua figlia, si spense, annaffiato dalla doccia gelida della paura.

“Lucrecia... Lei è... È ancora viva?” ebbe appena la voce di chiedere.

Un paio di dame di compagnia scoppiarono a piangere, ma Alfonso, il naso gonfio e arrossato, come se anche lui avesse pianto parecchio, si schiarì la voce e riuscì a dire: “Sembra che stia meglio, ma i dottori ci hanno fatto uscire, perché sanguinava. Si teme per la vita del bambino.”

Proprio in quel momento, come a dare conferma di quanto l'Aragona aveva appena riferito, si sentì un urlo profondo arrivare dalla stanza, seguito poco dopo da altri lamenti e da altre grida, intercalate da un pianto dirotto.

Alfonso, le mani tra i capelli biondi, alla fine non resistette più: “Scusatemi.” disse e, ignorando quelli che gli intimavano di fermarsi, sgusciò di nuovo in camera.

Quando entrò, lo spettacolo che si trovò davanti fu tragico. Lucrecia, come una partoriente, era a gambe divaricate, una mano stretta a quella di una sua amica e l'altra che si aggrappava al lenzuolo.

Le lenzuola, sotto di lei, erano fradicie di sangue e la sua fronte grondava di sudore. Gli occhi erano serrati e si mordeva le labbra, lasciando scappare, a ogni contrazione, un grido di dolore.

La levatrice, che era stata chiamata inizialmente solo per una valutazione, si stava trovando impegnata in una delle cose che odiava maggiormente: aiutare una donna a eliminare un feto morto.

Quando Alfonso capì cosa stava realmente accadendo, sentì la terra mancargli sotto i piedi. Però, proprio in quel momento, con in sottofondo la levatrice che dava indicazioni alla Borja e la dama di compagnia che cercava di incoraggiarla, tra le lacrime, Lucrecia spalancò gli occhi e lo vide.

La paura che l'Aragona lesse nello sguardo della moglie lo spronò a essere coraggioso. Qualcuno doveva esserlo, in quel frangente.

Così, ammantandosi di una sicurezza che sentiva di avere solo in parte, si avvicinò e le si mise accanto, afferrando con forza la mano che prima stringeva la coperta e le premette le labbra sulla fronte, mentre un'altra contrazione la straziava.

Alfonso non avrebbe saputo dire quanto tempo rimasero chiusi in quella stanza. L'odore del sangue lo permeava, il suono del dolore della moglie lo assordava ancora, ma, di fatto, quando le campane, in lontananza, batterono le nove di sera, Lucrecia riuscì a liberarsi di quel che restava del bambino.

“Era un maschio o una femmina?” ebbe la forza di chiedere.

La levatrice, che aveva fatto sparire in fretta il fagottino inerme, borbottò: “Troppo presto per esserne sicuri.”

La Borja riprese a piangere, questa volta silenziosamente, le lacrime che scendevano sulle guance come due rigagnoli desolati.

“Adesso dobbiamo assicurarci che non sanguini più.” fece il medico, parlando con i suoi assistenti.

Tutti i presenti cercarono di convincere l'Aragona ad andarsene, ma l'uomo non si spostò, restando per tutto il tempo, aiutando a pulire la moglie e a sistemarla. Quando finalmente i dottori dissero che restava solo di aspettare e vedere come la giovane si sarebbe ripresa da quel trauma, Alfonso chiese loro di poter restare da solo con lei.

Steso a letto al suo fianco, una mano stretta in quella di lei, non appena la stanza tornò tranquilla le disse piano: “Andrà tutto bene. Starai di nuovo bene.”

Lo sguardo di Lucrecia, però, era distante, quasi vitreo. Non piangeva più da un po', ma l'espressione che aveva preso il posto di quella addolorata e disperata era anche peggiore.

“Appena mi sarò ripresa da questa giornata d'inferno – disse la diciottenne, atona – dovremo farne un altro. Ci serve un figlio, Alfonso. Dobbiamo farne un altro subito.”

L'Aragona non commentò. Il modo in cui la moglie gli aveva parlato quasi lo spaventava. Le diede un leggero bacio sulla guancia e poi le accarezzò la fronte, ancora umida di sudore e la invitò a riposarsi e riprendersi, per il momento.

Per quanto combattiva, dopo qualche minuto la Borja cedette alla debolezza. Aveva perso tantissimo sangue e anche emotivamente si sentiva del tutto svuotata. Si addormentò prima che potesse accorgersene.

Si trattava di un sonno tanto pesante e sordo, che la giovane non si ridestò nemmeno quando da oltre la porta si sentì un disperato 'no' ululato dal papa che, probabilmente, era stato messo a parte di quanto accaduto.

Alfonso rimase al fianco della sua donna, sfiorandola appena e guardandola respirare lentamente, pregando che si salvasse e si riprendesse.

Non sapeva ancora dire che peso avrebbe avuto quell'episodio sul loro matrimonio, ma già intuiva quanto ne avesse su di lui. Nell'arco di poche ore, quel 7 febbraio il diciassettenne napoletano sentiva di non essere più un ragazzo. Era diventato un uomo da un momento all'altro, e sulle sue spalle, quella consapevolezza, era già opprimente come una cappa tessuta con l'acciaio.

 

 
   
 
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