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Autore: Adeia Di Elferas    06/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La riunione del Consiglio ristretto era andata ben oltre l'orario sperato dai suoi partecipanti. La sera era arrivata e si era trasformata in notte, eppure la discussione era ancora molto accesa.

“Io dico che se Firenze si è permessa di avanzare tanto in fretta dei sospetti tanto decisi verso Dionigi Naldi – stava dicendo Tommaso Numai, battendo con forza il pugno contro il tavolo – vuol dire che sapevano già che Corbizzi sarebbe stato ucciso! I fiorentini sono tutti falsi e opportunisti, pronti a saltare sul carro del vincitore e a far affondare le navi che imbarcano acqua!”

“Ma come vi permettete!” scattò a quel punto Simone Ridolfi, nuovo Governatore di Forlì che, fino a quel momento, aveva preferito tacere, anche quando aveva sentito tacciare la sua città d'origine di malafede e slealtà: “Mi sento personalmente offeso dalle vostre parole!”

“E perché mai vi sentite offeso?” ribatté secco Bartolomeo Maldenti, il Primo Capitano delle Guardie cittadine: “Voi da tempo siete un cittadino di questo Stato. O mi state dicendo che la vostra fedeltà va ancora a Firenze?”

“Giusto!” si agitò Bartolomeo Codiferro, annuendo con decisione: “Dobbiamo sapere se abbiamo in casa delle spie del nemico!”

“Nemico?!” a quel punto anche Ottaviano Manfredi, che aveva cercato di non alzare mai la voce, tranne quando gli era stato chiesto di difendersi apertamente dalle accuse mosse contro di lui dalla Signoria in merito all'omicidio di Corbizzo, non riuscì più a tacere: “Se ragionate così, abbiamo perso in partenza! Firenze è nostra alleata e di sicuro se hanno avanzato dei sospetti si tratta solo di un malinteso!”

“Voi difendete la Signoria – fece velenoso Francesco Numai – solo perché è Firenze che vi paga!”

Caterina non li stava ascoltando. Stava ancora ragionando su quanto insinuato da Tommaso Numai, ovvero che se Firenze aveva, per mezzo di Andrea Pazzi, reso noti i propri sospetti verso Dionigi Naldi e, in misura minore, verso Ottaviano Manfredi, qualcosa sotto doveva esserci. Era mancato il tempo materiale di far arrivare la notizia alla Signoria, aprire una discussione a riguardo e rispedire a Forlì la conclusione di quel dibattito. A ben pensarci, pareva davvero che i fiorentini sapessero già cosa sarebbe capitato al povero Corbizzi e che avessero la reazione pronta.

La situazione, nella sala delle armi, stava sfuggendo di mano. L'aria era calda, satura dell'odore del camino acceso, delle candele e di tutti gli uomini che vi si erano radunati. Rispetto al solito, la Sforza aveva aumentato il numero di partecipanti e il risultato era che si erano ritrovati stipati come sardine.

La Contessa era ancora immersa nei suoi pensieri, quando si rese conto che davanti ai suoi occhi stava per scoppiare una rissa tra Ottaviano Manfredi e Simone Ridolfi da un lato e i Numai dall'altro.

“Smettetela immediatamente!” gridò, abbastanza forte da coprire tutte le voci che si affastellavano nella sala e ottenere un immediato e religiosissimo silenzio.

Galeazzo, che era stato tra i primi convocati alla riunione, era accanto alla madre e osservava in silenzio. La Tigre aveva voluto che ci fosse anche lui per due motivi. Prima di tutto, aveva il presentimento che il tempo cominciasse a stringere, non sapeva dire perché, ma da un po' le sembrava fosse necessario fare il possibile per prepararsi al peggio e, tra i provvedimenti necessari c'era anche perfezionare l'istruzione di quel figlio insegnandogli di persona alcune sfaccettature del mestiere. Dall'altro, sapere che Galeazzo era lì accanto e la osservava con attenzione, la incentivava a tenersi a freno, evitando colpi di testa. I temi che stavano affrontando erano tra i più delicati del momento e la Tigre temeva di lasciarsi trascinare dalla rabbia, prendendo decisioni scorrette.

Così, avvicinandosi alla mappa che rappresentava l'Italia intera, la donna fece spostare quelli che vi si erano accalcati attorno e cominciò a indicare con precisione alcuni punti caldi del fronte: “Il perché Firenze abbia mosso accuse tanto precise e tanto in fretta sarà mia premura capirlo, ma per il momento dobbiamo pensare all'immediato, non perderci in congetture. Dionigi Naldi è ancora impegnato contro alcune colonne veneziane. Se fosse stato lui, come sostengono, avrebbe dovuto pagare dei sicari.”

La Contessa si voltò un momento, come a cercare la collaborazione dei suoi Consiglieri e il suo sguardo si posò inavvertitamente su Ottaviano Manfredi.

Era ancora accaldato, i capelli un po' in disordine e negli occhi si intravedeva ancora la luce combattiva che l'aveva acceso poco prima. Caterina, per distogliere l'attenzione da lui, dovette schiarirsi la voce e sforzarsi di tornare presente a se stessa.

“Per di più, Naldi ha da poco fermato Niccolò Orsini, che cercava di andare in soccorso dei suoi parenti.” proseguì la Leonessa, tornando a osservare la mappa: “Mentre Paolo Vitelli, da quel che sappiamo, ha concesso il salvacondotto a Guidobaldo da Montefeltro, che ha potuto così lasciare il campo senza problemi e ritirarsi per rimettersi. Antonio Maria Ordelaffi e Pandolfo Malatesta restano sul confine orientale, a mio dire pronti a coordinare l'azione del Conte di Sogliano. Tutti quei soldati nel ravennate non possono essere stati stanziati lì per niente.”

Nessuno osava fiatare davanti al breve riassunto della situazione che la Sforza stava facendo.

“Pensate che Firenze farà arrestare Naldi? Le vostre spie hanno avuto questa impressione?” chiese la donna, occhieggiando verso l'Oliva.

L'uomo scosse un po' il capo, ma rispose restando sul vago: “In realtà non sono riusciti a capire cosa voglia fare Firenze.”

Caterina sfiorò con la punta dell'indice la scritta Firenze sulla mappa e poi soffiò: “Teniamoci pronti a qualsiasi cosa, dunque, ma per il momento aspettiamo.”

La riunione si trascinò ancora per una mezz'ora, durante la quale vennero definiti alcuni dettagli di ordine pratico, e alla fine la Contessa lasciò tutti quanti liberi di andarsene.

“Per conto mio – disse Manfredi alla Sforza, mentre anche loro si avviavano all'uscita – in tutta questa storia c'è la mano di Castagnino e di mio cugino Astorre.”

La Contessa salutò con un cenno del capo Galeazzo che, molto provato da quelle lunghe ore, accettò il tacito congedo della madre e ricambiò il saluto, ben felice di poter andare a coricarsi.

Tornando poi a guardare il suo amante, la donna ribatté: “No, è un'ipotesi che non mi convince. Se così fosse, non si spiegherebbe comunque la rapidità con cui Firenze ha accusato Naldi e te. Che per altro...” Caterina scosse la testa con uno sbuffo: “Hanno accusato entrambi benché non c'entriate nulla l'uno con l'altro.”

“Se non per il fatto che rispondiamo a te.” fece notare Ottaviano, mentre si incamminavano verso la tana della Tigre, senza che vi fosse bisogno per nessuno dei due di mettersi d'accordo su come finire quella lunga giornata.

La Leonessa non commentò, dando silenziosamente ragione al faentino. Anche lei, in fondo, si era convinta che chiunque vi fosse dietro, avesse deciso di puntare il dito su Manfredi o su Naldi solo per poi avere la scusa per accusare indirettamente lei.

Arrivarono in camera senza dire altro. La Sforza si affaccendò per accendere qualche candela e ravvivare il camino, mentre Ottaviano guardava fuori dalla finestra, pensieroso.

“Davvero hai intenzione di non fare nulla?” chiese l'uomo, dopo un po', quando la donna aveva ormai finito di illuminare e scaldare l'ambiente, e si stava già occupando dei lacci del suo giaccone.

“In realtà so cosa fare, ma non ne volevo parlare in Consiglio.” rivelò Caterina, smettendo per un istante di spogliarlo: “Prima di tutto, dobbiamo dimostrare un po' di buona volontà verso Firenze. Io sono sicura che stanno facendo delle manovre di cui non vogliono mettermi a parte e ho il terrore di quello che mio cognato Lorenzo potrebbe fare. Siamo alleati, sulla carta, ma sono certa che se ci fosse il modo di fare il bene di Firenze e al contempo schiacciare me, non esiterebbe un solo istante a firmare documenti, comprare membri della Signoria e falsare le votazioni.”

Manfredi l'ascoltava con attenzione, già intuendo quale sarebbe stato il prossimo punto del suo piano.

“Quindi, prima di tutto, visto che mi hanno accusata di volerti tutto per me e di ledere così le casse del loro Stato, appropriandomi di un comandante al loro soldo, partirai subito per il Casentino.” fece la Contessa, ricominciando a svestire il suo amante, ma questa volta con gesti secchi: “Tra due o tre giorni al massimo. Tornerai al campo fiorentino e ti dimostrerai entusiasta. Se proprio insisteranno per sapere come mai sei rimasto da me, di' loro che hai avuto problemi di salute di cui io, per rispetto al tuo onore da guerriero infaticabile, ho voluto tacere. Mettila giù come una debolezza da donna, a molti uomini piace sentirsi superiori... Una scusa del genere farà sentire loro più intelligenti e magari ti eviterà domande scomode.”

Il faentino annuì, non trovando il coraggio di opporsi. Sapeva che la Tigre aveva ragione, ma, fosse dipeso da lui, non sarebbe mai più andato via da Forlì, a costo di morire di fame.

“Ma prima...” sussurrò Caterina, liberando finalmente le spalle larghe del suo amante dal pesante giubbone: “Dobbiamo rendere noto il tuo impegno con mia figlia. Lo faremo la sera prima della tua partenza. Non voglio che la notizia arrivi a Faenza mentre sei ancora qui. Paradossalmente, appena dopo che si saprà, sarai più al sicuro con Paolo Vitelli e tutti i suoi uomini che non accanto a me...”

Deglutendo rumorosamente, anche Ottaviano aveva finalmente cominciato a spogliare Caterina, anche se la paura per quello che li aspettava stava, in quel momento, superando il desiderio che provava per lei.

La strinse tra le braccia con lentezza, senza la solita voracità, premendo il viso contro il suo collo, il respiro un po' spezzato, come se stesse per mettersi a piangere.

“Fosse per me – gli disse Caterina, ricambiando l'abbraccio quasi con dolcezza – ti terrei al mio fianco per sempre. Ma non si può.”

Il faentino si prese ancora qualche minuto e poi sciolse la sua stretta. I suoi occhi azzurri erano un po' lucidi e dovette tossicchiare due volte, prima di riuscire a parlare.

“Ce la faremo, Tigre.” disse, poi e, aiutato dalla Contessa, che voleva togliersi dalla testa tutti i pensieri almeno fino al mattino dopo, lasciò che la passione spegnesse tutto il resto, perfino la profonda malinconia che già l'aveva preso al pensiero che in pochi giorni sarebbe stato di nuovo in un campo militare, al freddo, da solo e con la morte che, come per ogni soldato, aspettava fedelmente appena fuori dalla tenda, con le infide sembianze di un soldato dell'esercito nemico.

 

“Dunque questa è finalmente la lista corretta.” disse Spinuccio Aspini, ripiegando il foglio che il cancelliere di Giovanni Bentivoglio gli aveva appena porto: “Visto? Non era così difficile, alla fine...”

Il signore di Bologna, seduto sul suo scranno, guardò l'emissario della Leonessa di Romagna con odio, ma evitò di parlare.

Il forlivese, che in realtà si stava quasi divertendo nel vedere quell'uomo tanto tronfio messo così in difficoltà, fece un ampio sorriso e insistette nella sua recita: “Ora che finalmente avete compreso quanto fosse importante avere una lista dettagliata degli effetti personali di vostro figlio, al fine di controllare se mai qualcuno di codesti oggetti sia erroneamente finito in mezzo a quelli dei suoi accompagnatori, la mia signora potrà mettere da parte suddetti oggetti e farveli avere in men che non si...”

“Smettetela con questa pantomima da guitti!” esplose il Bentivoglio, che non ne poteva più di vedersi girare per il palazzo quell'uomo insopportabile: “Avete ottenuto quello che volevate e lo avete fatto per sfinimento!”

Aspini, le sopracciglia appena sollevate, ascoltava impossibile, annuendo con lentezza, come se si trovasse pienamente d'accordo.

Quell'atteggiamento fece arrabbiare ancora di più il bolognese che, indicando la porta, esclamò, sputacchiando: “Andatevene! E sappiate che la questione è tutt'altro che chiusa!”

“Mio signore, è stato un piacere essere vostro ospite.” ringraziò Spinuccio, con un profondo inchino e avvicinandosi all'uscita con passo molto lento e con un sorrisetto serafico sulle labbra.

“Parola mia – bofonchiò Giovanni Bentivoglio, mentre il forlivese ancora indugiava sulla porta, come se non avesse di meglio da fare – se non fosse che ho cosa più importanti da far filar lisce, lo sgozzerei di persona qui dove si trova!”

 

Lorenzo mescolò il brodo con il cucchiaio, gli occhi appannati, la mente lontana. Sentiva i suoi familiari discutere, tutt'attorno a lui, ma non stava ascoltando nemmeno una parola.

Quel giorno non si era fatto altro, al governo, se non parlare di quello che la la Francia e Venezia avrebbero deciso proprio in quei giorni. Anche Firenze era stata interpellata, ma il Medici era sicuro che a Blois i portavoce della Signoria avrebbero retto bene il gioco, strappando per la Repubblica un permesso di neutralità, con però tutti i vantaggi di un alleato de facto.

Venezia voleva espandere i suoi confini e probabilmente avrebbe chiesto Cremona, in cambio del sostegno a Luigi XII e dell'appoggio in merito alla questione di Milano. Era il Borja, il vero pericolo.

I francesi, con i loro ambasciatori, non avevano fatto mistero alla Signoria del fatto che il re di Francia avrebbe aiutato il figlio del papa – in cambio dell'alleanza con Roma – a prendere la Romagna.

La sola idea al Popolano pareva un'enormità e si era spaventato, nel sentire che Oltralpe si apparecchiava una simile guerra, ma aveva cercato di vedere il lato positivo. Gli ambasciatori del re avevano assicurato che, se Firenze e Venezia avessero trovato un accordo, la Francia si sarebbe prodigata per trovare un degno intermediario che trovasse un modo di terminare la guerra tra i due Stati in un modo che si rivelasse vantaggioso per entrambi.

L'orgoglio ferito dei fiorentini aveva digerito male l'idea, in un primo momento, ma poi tutti avevano dato ragione a Lorenzo, quando aveva fatto notare che Firenze, malgrado gli ultimi successi, non aveva più fondi né possibilità per sostenere quella guerra e che, in attesa di trovare nuove armi e soprattutto nuove fonti di guadagno, una pace era l'unica cosa auspicabile.

Secondariamente, e di questo il Popolano se ne vergognava abbastanza da non aver esposto a nessuno il suo vero sentire, la prospettiva di vedere l'intera Romagna, in particolare le terre della Tigre, tornare nelle mani del papa gli dava una scossa di ottimismo. Non augurava una guerra a nessuno, ma la Sforza, con la sua boria e la sua arroganza, con il suo esercito modello che sbandierava come fosse l'ottava Meraviglia del mondo, si meritava di sbattere il muso contro un'invasione vera e propria.

Quella donnaccia credeva di poter fare la voce grossa con gli uomini che governavano il mondo, ma non si era mai misurata davvero con una potenza da sola. Era sempre stata capace di tirare l'acqua al suo mulino, ma riuscendoci sempre con accordi dell'ultimo minuto e con enormi truffe, facendo credere a tutti di avere alle spalle ora Milano, ora Roma, ora Firenze, senza mai avere in realtà nessuno di loro al proprio fianco.

Il re di Francia non si sarebbe certo fatto impensierire da una donna sola come lei. Se la Leonessa poteva fornire un esercito anche di seimila uomini addestrati meglio di stradiotti o picchieri svizzeri, ebbene, Luigi le sarebbe piombato sul collo con le zanne di sessantamila soldati e centinaia di cannoni e bombarde.

E a quel punto, con lo Stato già in pericolo per il ferro nemico, con che coraggio la Sforza avrebbe accettato di pubblicare il suo matrimonio con Giovanni? Di sicuro si sarebbe liberata volentieri del suo figlio più piccolo, pur di non vedere messa in discussione la legittimità del suo governo. Era stata lei stessa, in fondo, quando, più di dieci anni addietro, aveva visto i figli minacciati di morte, ad alzare le sottane e dire che poteva benissimo farne degli altri. Quindi, difficilmente con l'ultimo avrebbe ragionato in modo diverso.

Con l'avanzata del figlio del papa, non solo avrebbe perso tutto quanto, ma prima avrebbe anche rinunciato al suo ultimogenito e il Medici avrebbe avuto la strada spianata, potendosi finalmente prendere l'eredità di suo fratello in modo pulito e legale.

“Non lo credi anche tu, Lorenzo?” la voce di Semiramide arrivò tanto lontana, alle orecchie del Medici, che l'uomo la guardò stranito fino a che la moglie non capì di dovergli riassumere a grandi linee l'argomento che si stava discutendo: “Stavamo dicendo che Sandro sta facendo un ottimo lavoro, nel sistemare gli affreschi della villa di Castello...”

“Sì, sì, immagino di sì.” fece allora il Popolano, tanto per togliersi di impiccio, sorbendo un paio di cucchiaiate di minestra, trovandola insapore, anzi, quasi amara.

L'Appiani fece un sorriso di circostanza, già pentita di aver tirato in mezzo anche il marito, e soggiunse: “Quella villa è una delle più belle ville della Toscana in assoluto, secondo me. Quel vecchio quadro di Sandro, poi, quello della nascita di Venere, è uno dei miei preferiti.”

“Anche a nostro zio piaceva molto, vero, padre?” chiese a quel punto Pierfrancesco, gli occhi che, con un vago timore, correvano a Lorenzo.

Questi, nel ricordare in modo vivido Giovanni che perdeva anche delle intere ore a osservare quel dipinto, come faceva con la Primavera, strinse le labbra e, tuffando ancora una volta il cucchiaio nel brodo, annuì, secco: “Sì, gli piaceva.”

Sentir nominare così improvvisamente il fratello e i dipinti di Botticelli, gli fece tornare alla mente un episodio a cui non ripensava mai.

Era stato quando lui e Giovanni erano stati arrestati e portati nell'albergaccio, alla torre. Non sapevano se sarebbero mai usciti vivi da lì, né loro, né Ruccelai, né tanto meno Soderini.

C'era stata una sera, la seconda, forse, o la terza da quando erano stati presi, in cui i due Medici, seduti l'uno accanto all'altro sulla branda che era stata loro concessa, si erano messi a confrontarsi sul futuro, mettendo sul piatto anche la possibilità di essere condannati a morte.

“La cosa che mi dispiacerebbe di più – gli aveva sussurrato Giovanni, dopo un po' – sarebbe non poter più rivedere i miei nipoti, mia cognata, Firenze e i quadri di Sandro.”

Quell'ordine aveva colpito molto Lorenzo, perché sapeva che si trattava di una classifica d'importanza. L'aveva abbracciato, cercando di fargli forza, benché anche lui fosse in un momento di profonda crisi.

“La bellezza di quei dipinti – aveva aggiunto il Popolano più giovane, gli occhi chiarissimi che si accendevano in un sorriso un po' triste – è come l'amore della propria famiglia: fa sperare che al mondo ci sia davvero qualcosa di buono.”

A quel punto Lorenzo l'aveva stretto a sé di nuovo, questa volta con più convinzione e gli aveva promesso: “Saremo sempre uniti, fratello, te lo giuro. Insieme supereremo anche questa.”

“Ti voglio bene anche io.” aveva detto di rimando Giovanni, e da lì avevano ripreso a pianificare le loro mosse, a seconda che la Signoria decidesse per loro una condanna o un esilio.

Ripensare a quella promessa, che entrambi avevano poi calpestato, strinse lo stomaco del Popolano fino a rendergli del tutto indigesta la brodaglia che sua moglie aveva pomposamente chiamato 'minestra di maccheroni e verdure'.

Quasi lanciando il cucchiaio sul tavolo, il Medici si alzò di scatto, grattando con la sedia sul pavimento di cotto e dichiarò, con voce roca: “Sapete parlare solo di cose inutili. Sono stufo di sentirvi. Me ne vado a dormire.”

Semiramide lo osservò mentre lasciava la sala a passo di marcia e non disse nulla. Non si alzò nemmeno per seguirlo e chiedergli in privato che cosa avesse, come, invece, avrebbe fatto un tempo.

Bevve due lunghi sorsi di vino, invece, e poi, tentando di fare del suo meglio per levare dai visi dei suoi figli l'espressione preoccupata – anzi, spaventata – che li aveva adombrati, parlò come se non fosse successo assolutamente niente: “Allora, Pierfrancesco, il tuo precettore mi ha detto che oggi hai imparato a fare calcoli molto complessi. Ti prego, parlacene.”

Il tredicenne si sistemò un po' sulla sedia e poi, dopo un'occhiata ai fratelli minori, specialmente a Ginevra e Laudomia, entrambe tanto attonite per il comportamento del padre da essere quasi al pianto, colse il tentativo materno e rispose, ostentando anche lui una grande tranquillità: “Certo, madre.” e cominciò a spiegare, come meglio poteva, le lezioni che aveva seguito quel giorno.

 

Tommaso Feo fissava in silenzio Cesare Riario, che non accenna a muoversi da dov'era. Il ragazzo si era aspettato un'accoglienza un po' fredda, ma quel mutismo lo aveva preso alla sprovvista.

La tenuta del Bosco, quel giorno, era immersa in una nebbia abbastanza fitta e il figlio della Tigre, per quanto fosse partito di buon'ora da Milano, non era riuscito a rintracciare la casa padronale del Feo fino a mezzogiorno passato.

“Che volete?” disse alla fine Tommaso, mentre i suoi occhi scuri andavano oltre le spalle del Riario, verso la discreta quantità di uomini che lo scortavano e che erano rimasti un po' indietro per non apparire invadenti: “Non ho posto per ospitarvi tutti.” soggiunse l'uomo.

“Non sono qui per chiedere ospitalità.” si schermì Cesare, per quanto un po' ci avesse sperato, in una sosta improvvisata, visto che il freddo, che saliva dalla terra sotto forma di nebbia, gli aveva già intorpidito gambe e braccia: “Sono qui perché vorrei parlarvi di una cosa.”

Tommaso lo squadrò per un bel pezzo, prima di dire, secco: “Se proprio ci tenete.” e lo lasciò entrare, chiudendo subito la porta alle loro spalle.

Fece accomodare l'ospite in una sala ben riscaldata, ma un po' scialba. Tutto, in quella casa, dall'arredamento ai dettagli più minuti, lasciava trasparire un certo grado di abbandono, lo stesso che si poteva ritrovare anche nello stesso Feo.

Cesare lo ricordava bene, quando era più giovane, accanto a sua madre come uomo di fiducia. Di quell'uomo forte e sempre ordinato era rimasto ben poco. Portava la barba lunga e i capelli non venivano tagliati da un po', i suoi abiti erano vecchi e non indenni da piccoli rattoppi. Perfino il suo modo di camminare e di parlare aveva un che di trasandato che lo rendeva quasi irriconoscibile.

Il Riario, però, cercò di non dar peso a tutti quei segni del tempo trascorso e, restando in piedi, benché Tommaso gli avesse indicato una poltroncina dall'aria abbastanza comoda, cominciò a sciorinare il discorso che si era preparato per giorni.

Il Feo lo ascoltò attentamente, senza che il suo viso venisse attraversato da una sola reazione. Era come una maschera e questo preoccupò non poco Cesare. Anche se il giovane voleva essere ottimista e credere nel perdono del fratello di Giacomo, quando smise di parlare capì di non aver avuto alcun successo.

Sulla fronte di Tommaso si era creata una ruga profonda e i suoi occhi avevano cominciato a vagare irrequieti, quasi stesse cercando qualcosa, mentre fino a poco prima erano stati fissi sul figlio della Tigre.

“Non ho osato chiedere così schiettamente il perdono a mia madre – provò ad aggiungere Cesare, nella speranza che tanta sincerità potesse far breccia nel cuore di quell'uomo e consentirgli di ottenere il perdono che tanto desiderava per poter cominciare la sua nuova vita senza macchie sulle coscienza – ma so che voi, al suo contrario, siete un uomo generoso e molto più comprensivo.”

“Io volevo ucciderti.” sussurrò Tommaso, grattandosi la fronte e guardando altrove: “Quando abbiamo saputo che tu e tuo fratello eravate i colpevoli, io volevo ucciderti.”

Il Riario sorvolò sul tono e sul modo in cui il Feo gli stesse dando del tu. Era disposto anche a quello, pur di avere ciò che cercava.

“E l'avrei fatto senza pensarci due volte, se solo tua madre non me l'avesse impedito.” concluse Tommaso, tornando finalmente a guardarlo: “Quindi, prete, hai scelto la persona sbagliata a cui chiedere perdono.”

Cesare schiuse le labbra e provò a dire: “Io vi sto implorando di...”

“La porta è là.” fece l'uomo, indicandogli l'uscio con una mano: “Conosci la strada, non ho tempo di accompagnarti.”

Il figlio della Tigre attese appena un secondo, ma quando incrociò gli occhi infuocati di Tommaso capì che se non se ne fosse andato all'istante, probabilmente il Feo ne avrebbe approfittato per prendersi la vendetta che non aveva potuto prendersi nel 1495.

Quasi di corsa, con il crocifisso che batteva sul suo petto scarno a ogni passo, Cesare uscì dalla casa dell'uomo da cui si era illuso di poter avere l'assoluzione piena per il suo peccato più grande e, data voce a quelli che lo scortavano, si rimise subito in cammino.

 

“Se vi ho chiesto di essere tutti qui presenti, questa sera – disse Caterina, alzandosi in piedi – è perché voglio che sappiate che Ottaviano Manfredi ha accettato di sposare mia figlia Bianca.”

Nella sala dei banchetti, quella sera, erano presenti, oltre ai figli della Contessa, alcuni dei maggiori notabili della città, nonché tutti i membri più importanti del Consiglio Cittadino e del Consiglio ristretto della Tigre.

La convocazione alla rocca era apparsa tutti strana, soprattutto perché un banchetto in tempo di Quaresima appariva a tutti fuori luogo, ma finalmente gli invitati capivano il motivo di quella riunione estemporanea.

Siccome molti cominciarono a vociare, la Sforza si sentì in dovere di precisare: “Messer Manfredi ha promesso – e lanciò uno sguardo a Ottaviano, che, seduto alla sua destra, accanto a Galeazzo, annuì – di uccidere Astorre, signore di Faenza, per conquistarne lo Stato e farne un nostro solido alleato per matrimonio.”

Quella spiegazione riaccese l'entusiasmo dei presenti e le chiacchiere che ne nacquero erano di natura molto diversa da quelle di poco prima.

“Quindi adesso beviamo e mangiamo – concluse la Contessa, sollevando il calice e spostandosi, in modo da lasciare che Bianca si sedesse al suo posto, per stare accanto al promesso sposo – e auguriamoci che questa guerra con Venezia finisca presto.”

Tutti i presenti risposero al brindisi e così Caterina si risedette. Non c'era musica, quella sera, né altre distrazioni, ma il cibo era ottimo e, per l'occasione, la Tigre aveva deciso di servire il vino delle sue botti migliori.

Anche se quello tra sua figlia e Ottaviano sarebbe stato solo un matrimonio di facciata, voleva che fosse chiaro quanto ci teneva. Quell'unione poteva sancire, finalmente, non solo una reale pace con Faenza, ma una promessa di tempi più prosperi per Imola e Forlì che, negli anni, si erano trovate a soffrire sempre di più della divisione dovuta alla presenza di uno Stato estraneo tra loro.

Anche la stessa Leonessa cercò di rilassarsi e godersi la cena, come aveva invitato tutti a fare, tuttavia, mentre assaggiava il vino e si serviva la carne, il suo sguardo continuava a correre a Manfredi e Bianca che, seppur solo per salvare le apparenze, si sorridevano di continuo.

Ottaviano, addirittura, arrivò a prendere la mano della promessa sposa e tenerla stretta nella sua, in bella vista sulla tavola. Anche quello, pensò la Sforza, era un simbolo e nulla di più, però il modo in cui Bianca stringeva le dita attorno a quelle di Manfredi lasciò uno strano senso di amaro in bocca alla Contessa.

Distogliendo lo sguardo dagli occhi blu di Bianca, che non facevano altro che fissarsi sul bel viso del faentino, la donna prese il calice tra le mani e cercò di distrarsi con il vino.

Bianca, tutt'altro che insensibile alla reazione della madre, restò ancora un momento con la mano stretta in quella di Manfredi, apprezzandone la presa salda e il calore della sua pelle, ma poi la lasciò.

Sorrideva, chiacchierava con Galeazzo e di quando in quando con altri commensali, aveva anche scambiato un paio di brindisi silenziosi con suo fratello Ottaviano, che pareva approvare molto quella situazione, e assaporava il cibo con gusto, ma i suoi occhi continuavano a saettare verso la Tigre. La vedeva tesa, come se fosse già pentita della sua decisione, e questo atteggiamento alla Riario metteva ansia.

Le piaceva fingere di essere la promessa sposa di Manfredi, anche se sapeva che il loro non sarebbe mai stato un reale matrimonio. Quell'uomo l'aveva attratta fin dal primo momento e, forse, se non fosse stato l'amante di sua madre, non le sarebbe spiaciuto diventarne davvero la moglie. Lei entrava nell'anno dei diciotto, lui dei ventisette: anche come età sarebbero stati una coppia abbastanza bilanciata.

Però la ragazza sapeva che l'uomo che aveva accanto era la preda di qualcun altro e non avrebbe mai osato provare a toglierlo dalle fauci di una Tigre.

Così, decisa a godersi almeno la farsa di quella serata, Bianca si accontentò di averlo accanto e di sentirlo, ogni tanto, lodarla e sottolinearne la bellezza, proprio come se lui fosse intenzionato a conquistare Faenza e uccidere Astorre al solo scopo di poterla avere in moglie, quando, invece, tutti i presenti – chi più chi meno – sapevano che quel faentino passava quasi tutte le notti nella tana della Contessa e non certo a sospirare per la giovane Riario.

 

 
   
 
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