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Autore: walls    06/11/2018    1 recensioni
«So I wrote her a poem, but she didn’t like it.»
«Why? Was it that bad?»
«Well, it was like:
“Dear Katy,
I’m so tall,
I’ll fuck you hard
against the wall”».
«Wow, I wonder why she didn’t like it.»

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Cosa resta della nostra età se togli la rivolta, la rabbia, la musica, la fame, la voglia di scrivere da capo una storia irrisolta?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Uno – Screwed Up
(circa cinque mesi prima)




 

Il cappuccino di quella mattina bruciava decisamente più del solito, al punto che la signora Martin si vide costretta ad avvolgere la sua tazza fumante in un paio di tovaglioli bianchi per non scottare i propri polpastrelli già sensibili, e quando i capelli mossi rischiarono di scivolare nella bevanda mentre portava il caffelatte alle labbra, Mace evitò l'ennesima catastrofe della giornata infilando prontamente un paio di ciocche color grano dietro l'orecchio. Solo pochi minuti prima, stirando, si era scottata una mano.
La donna sospirò, il capo chino sul bancone della cucina e la consapevolezza di essere un completo disastro ad incurvare le labbra sottili. Era incredibile con quanta facilità riuscisse a mettersi nei guai pur compiendo pochi, essenziali, gesti quotidiani; i suoi figli non facevano che ripeterglielo, e lei, suo malgrado, non poteva che essere d’accordo con loro.
A quell’ora del mattino, la casa era immersa nel silenzio. Nella stanza, la fioca luce dell’alba filtrava attraverso le persiane accostate, irradiando di fasci luminosi ogni ripiano che riuscisse a raggiungere, e profilava i mobili di un oro tale che Mace non riuscì a distogliere lo sguardo, incantata: quella di essere proprietaria di una casa così confortevole e accogliente, era una sensazione talmente meravigliosa da togliere il fiato; la ripagava di tutti gli sforzi fatti per acquistarla e dei sacrifici che continuava a compiere per mantenerla.
Con un passo verso i fornelli, posò la propria tazza usata sul fondo del lavandino vuoto, salvo lavarsi successivamente le mani e lanciare un’occhiata fugace all’orologio digitale che svettava sopra gli armadietti che costituivano la dispensa, dirigendosi verso il soggiorno. Lì si lasciò cadere sul bordo del divano, chiudendo gli occhi nella speranza di riuscire ad addormentarsi: dopo una nottata passata fra computer e scartoffie in ufficio, un po’ di sano riposo era quello che ci voleva per riacquistare le forze.
«Mamma?»
Mace sobbalzò guardandosi attorno, spaventata da quel richiamo.
La figura che aveva solo vagamente notato prima di gettarsi sul bracciolo, adesso cominciò ad agitarsi, liberando le gambe dal groviglio di lenzuola entro cui erano avviluppate, e un paio di occhioni assonnati sbucarono da quello che lei sapeva essere il copridivano, ora compresso e ridotto ad un piccolo cuscino di fortuna.
Paige Martin sbadigliò, facendo scorrere le dita sottili sul viso arrossato sotto lo sguardo intenerito di sua madre. «Ciao» mormorò, inumidendo le labbra leggermente più gonfie del solito. «Pensavo fossi ancora a lavoro».
Mace sorrise, accarezzandole con dolcezza i capelli arruffati: «Sono tornata da poco», disse.
«Capisco». Paige batté le palpebre un paio di volte, il pigiama a trama floreale largo sul corpo esile e le braccia stese sopra la testa nel tentativo di scaricare la tensione accumulata durante la notte. Mace la guardò a lungo, studiando ogni dettaglio del suo viso mentre le scivolava accanto, sul divano: le iridi ambrate erano contornate da ciglia più scure, che crescevano in lunghezza al di sotto di un paio di sopracciglia scure perfettamente definite; i capelli di un castano dorato, morbidi, e il naso dritto spruzzato di lentiggini chiare. Era bellissima, nel fiore dei suoi quindici anni.
«Cos’avete fatto ieri sera?» le domandò, accucciandosi contro di lei.
«Ho invitato Ollie e Vic. Abbiamo cenato, e poi siamo rimaste in soggiorno a guardare un film finché i loro genitori non sono venuti a prenderli». Paige sventolò una mano smaltata di rosso a mezz’aria, come a voler sottolineare la relativa importanza del suo racconto. «Niente di eccezionale, insomma».
Mace annuì, «Spero solo che tu abbia lasciato tutto in ordine», e sospirò. Allungate le gambe toniche su quel che rimaneva del giaciglio improvvisato su cui sua figlia aveva evidentemente dormito, incrociò le braccia al petto e gettò la testa all’indietro in un moto di stanchezza. Aveva davvero, davvero bisogno di riposare.
«E Noah?» domandò tuttavia, curiosa di sapere cosa ne fosse stato del suo primogenito.
La ragazzina corrugò la fronte, mordendosi il labbro inferiore, assorta. «Credo che fossero le quattro, quando è rientrato, e c’era anche Charlie con lui, come sempre. Vuoi che vada a svegliarli?» si propose, palesemente elettrizzata al solo pensiero.
Mace la spiò di sottecchi. Che l’idea di dar fastidio a Noah, magari saltandogli addosso proprio mentre era nel bel mezzo di un sogno, l’allettasse a tal punto? Non ne era troppo convinta: nonostante fosse a conoscenza del rapporto precario che vedeva i due fratelli costantemente schierati l’uno contro l’altra, dubitava che le intenzioni di sua figlia prevedessero dei semplici dispetti. Dopotutto, quel povero ragazzo non aveva ancora potuto fare nulla che potesse incrinare il suo umore.
«No, lasciali dormire… Sali in camera e avverti solo tuo fratello che sono tornata», rispose dunque, cauta, mentre cercava di capire quale fosse il reale motivo di tanta irrequietezza.
Paige annuì mestamente, nascondendo per un secondo il viso dietro le coperte leggere prima di tirarle via con un calcio vigoroso e dirigersi verso la scalinata che portava al piano superiore.
«Va bene», asserì, salendo con calma i primi gradini.
Ma l’espressione sul suo viso, dapprima gioiosa, era cambiata.







 

Noah era ancora sdraiato di traverso, il petto scoperto e i muscoli poco scolpiti dell’addome che andavano contraendosi al ritmo dei suoi respiri irregolari, probabilmente dovuti alla mancanza d’aria che il cuscino premuto sul viso imponeva; le gambe nude poggiavano sulle lenzuola ammucchiate alla fine del letto e le braccia erano piegate sotto la testa, in una posizione che sembrava del tutto naturale: Charlie fu felice di constatare che il proprio brusco risveglio non avesse disturbato affatto il sonno del suo migliore amico.
Seduto sul bordo dello stesso letto, alzò di poco lo sguardo fino ad incontrare il proprio riflesso nello specchio affisso alla parete di fronte, e corrugò le sopracciglia di fronte a quello che non era decisamente un bello spettacolo. Sul viso, un lieve accenno di barba - che prima d’allora non aveva mai lasciato crescere - gli donava un’espressione assente e gli occhi, stanchi, erano contornati da solchi scuri quanto le sue iridi. La stanza stessa, osservò, immersa nella penombra, dava anch’essa l’impressione di essere trasandata: vestiti e cibo erano sparsi ovunque, il letto era un disastro, e nell’aria aleggiava un’insopportabile odore di chiuso.
Charlie si chiese come avessero potuto ridursi in quel modo, dal momento che nemmeno Noah gli era sembrato tanto a posto, quando avevano fatto il loro (pietoso) ingresso in casa Martin la sera precedente. Erano devastati, e non ricordarne il motivo era di certo la cosa che più lo preoccupava: perché, quando, ma soprattutto come fossero tornati a casa, rimaneva un mistero. Ricordava vagamente di aver messo piede in una discoteca del centro e aver ballato con un paio di belle ragazze, poi di essere andato incontro ad un tripudio di colori, di fanali e… vetri, forse?, ma le immagini che la sua memoria metteva a disposizione erano insufficienti, e in più di pessima qualità; Charlie non avrebbe saputo dire se quella fosse stata la realtà o solo un altro dei suoi sogni sfrenati. L’unica verità che sapeva essere tale, al momento, era esclusivamente il fastidioso mal di testa che lo opprimeva.
«Dormito male?»
Il ragazzo scosse la testa, facendo scorrere le dita affusolate tra i capelli biondo scuro nell’inutile tentativo di placare il dolore alle tempie, e sorrise al riflesso della ragazzina che lo guardava a braccia conserte attraverso lo specchio, indisponente: «E’ stata la notte peggiore di tutta la mia vita» ribatté, «Comunque grazie per l’interessamento, piccolina».
Paige alzò gli occhi al cielo, sforzandosi di celare quanto più possibile il suo fastidio nell'udire quell'ultima parola: mentre la porta aperta alle sue spalle cigolava silenziosamente, decise che sarebbe stato meglio ripagarlo con la stessa, sottile ironia piuttosto che dare in escandescenza alle prime ore del mattino e rischiare di svegliare Noah. Non aveva proprio voglia di litigare.
«Questo perché tu sei un grande uomo vissuto, giusto?» lo sfidò, inarcando le sopracciglia spesse in modo provocatorio. Lui rise piano, gli occhi scuri fissi nei suoi. «Hai sempre la risposta pronta» disse, come se quel dato di fatto fosse lampante, ma impossibile da accettare. «E’ assurdo» aggiunse, studiando i dettagli della sua espressione vittoriosa.
Paige curvò gli angoli della bocca, la testa inclinata di lato in un moto di autostima: «Lo so..» concordò, lasciando volutamente che la frase si dissolvesse nel silenzio.
Charlie ne approfittò per prendere un lungo sospiro e voltarsi completamente, mettendo da parte il loro discorso almeno per un primo momento. «Se tu non fossi così esasperante, probabilmente saresti la mia ragazza» ragionò piuttosto, gli occhi che si alzavano per scontrarsi con i suoi senza la superficie dello specchio a fare da filtro. «Dico davvero» aggiunse, quando lei storse la bocca, evidentemente contrariata.
«Non mi metterei con te nemmeno se fossi l’ultimo essere di sesso maschile al mondo».
«Ah, davvero?» chiese lui, apparentemente tranquillo. La ragazzina annuì: «Puoi starne certo».
«Come mai?»
«Sei troppo fastidioso per i miei gusti».
Charlie sembrò sorpreso. «Capisco» disse, con un tono di voce abbastanza equivoco.
Paige gonfiò le guance, l’espressione corrucciata di chi non è in grado di analizzare la situazione a fondo: «Come, prego?» chiese, stupita dal fatto che Charlie Davies, supremo vincitore di stupidi battibecchi, per una volta gliel’avesse data vinta senza tante storie. «Stai scherzando?»
Lui scosse la testa: «Assolutamente».
«Eppure mi sà tanto di presa in giro...»
Questa volta il ragazzo sorrise, i denti bianchissimi in bella mostra: «Infatti lo è».
Senza alcun preavviso, Charlie afferrò Paige per le braccia facendo scontrare i loro corpi ancora caldi di coperte, e la tenne stretta per un lasso di tempo che parve interminabile mentre lei si dimenava, pregando sottovoce (e inutilmente) di essere liberata: «Perché?» le sentì chiedere ad un certo punto, stremata.
«Perché non è vero che sono troppo fastidioso per i tuoi gusti e, anzi, ti piaccio da morire» sussurrò lui schietto, per niente toccato dai modi scortesi che la più piccola dei Martin non mancava mai di riservargli. «Direi che sei semplicemente troppo orgogliosa per ammetterlo» continuò, incastrando meglio le mani dietro la schiena della ragazzina.
Paige rabbrividì inevitabilmente – più per gli spifferi, si disse, che per altro -, aggrappandosi alle sue spalle: «Lasciami», protestò. Charlie si morse le labbra.
«Io sarò anche fastidioso, ma tu sei veramente bella» esordì all’improvviso, sottovoce, non riuscendo a smettere di guardarla. «Magari saccente, testarda e un tantino antipatica...» provò ancora, ma fu costretto a bloccarsi nel bel mezzo della sua appassionata confessione quando Noah, dall’altro lato del materasso, tossicchiò in un tacito ammonimento. La ragazzina arrossì di colpo e spinse via l’amico di suo fratello, cercando invano di non fare altro rumore.
Sciogliendosi in fretta dalla presa di quell’abbraccio un po’ maldestro, arretrò di parecchi passi con le dita che correvano a sistemare il pigiama paurosamente accartocciato sui fianchi, e s’ inumidì le labbra, disperata: quei pochi centimetri che li avevano divisi erano stati il fattore determinante per scatenare una serie di sensazioni che Paige reputò decisamente poco piacevoli.
«Sei uno stupido, Creep!» bofonchiò a mezza voce, alludendo esplicitamente a quei suoi comportamenti per niente adeguati. Charlie le sorrise con noncuranza, avvolto nella sua t-shirt grigia e smessa: a guardarlo, con quelle mani sulla nuca e lo sguardo malizioso, si sarebbe potuto dire che molestare ragazzine in piena crisi adolescenziale fosse uno dei suoi passatempi preferiti.
E tu resti bella.







 

Non si preoccupò nemmeno di alzare lo sguardo, quando accadde. Lo scricchiolio sinistro delle assi del parquet era cessato nell’esatto momento in cui il peso di un pugno si era abbattuto con violenza sulla porta della sua stanza; sapeva che non poteva trattarsi di un errore. Il familiare percorso fino alla sua camera era stato tracciato dagli stessi passi malfermi e impetuosi che, almeno in genere, preannunciavano l’inizio della fine: sperare che dietro quello strato di costoso legno lavorato non si celasse la figura autoritaria di Alan Miller sarebbe stato assurdo, nonché inutile.
Daz sospirò lentamente, le labbra serrate in una linea dura. Nonostante non fosse decisamente una situazione nuova per lui, il fastidioso tremolio che si stava diffondendo tra i nervi delle sue mani tradiva una certa inquietudine: i palmi aperti contro la superficie della scrivania erano tesi, impazienti di torturare qualsiasi cosa pur di azzardare un movimento, eppure così immobili da sembrare elementi di una statua. Con il passare del tempo, era diventato un vero maestro nel confinare le proprie emozioni; aveva imparato a controllarsi, dosando la forza con la temperanza, e a trattenersi senza altro che non fosse un po’ di volontà, almeno quando il caso lo richiedeva: reagire, si ripeteva, avrebbe significato solo conseguenze peggiori. O almeno, così pensava.
«E’ chiusa» proruppe, tenendo lo sguardo ancorato alle pagine del libro che stava leggendo. «E non ho intenzione di aprire» concluse, quando suo padre tentò inutilmente di forzare la porta.
Alan emise un grugnito, e Daz se lo figurò mentre allentava il nodo alla cravatta nel vano tentativo di sciogliere i grumi di rabbia accumulata nel tempo. Non avrebbe resistito a lungo.
«Giuro su Dio che se non esci di lì entro due secondi, rimarrai chiuso nella tua stanza a vita!»
Il ragazzo alzò un sopracciglio, colpito dalla tenacia di un uomo che solo di rado si concedeva una sana arrabbiatura, e scosse la testa, esponendo i capelli nerissimi alla debole luce che le persiane riuscivano a filtrare. Tamburellò piano le dita, quasi a considerare la gravità della minaccia che gli era appena stata palesata, ma non si mosse. Restò fermo sulla propria sedia girevole, respirando lentamente.
«Esco quando mi pare», mimò con le labbra, volutamente sordo alle minacce di suo padre.
«Devi smetterla di fare il ribelle! Questo tuo comportamento infantile non ti porterà da nessuna parte!»
Nemmeno il tuo, se è per questo.
«Apri questa porta e prenditi carico delle tue maledette responsabilità, Daz!» lo sentì urlare. «Hai distrutto una macchina, la scorsa notte, e il proprietario non l’ha presa per niente bene – ma come avrebbe potuto? Cinquemila sterline di danni!»
Daz continuò a non rispondere: per quanto il suo reato fosse grave, proprio non sentiva la necessità di giustificarsi, né di dare una spiegazione che fosse più o meno ragionevole. Sapeva benissimo ciò che aveva fatto, e non se ne pentiva. Di tutti i casini che aveva combinato, quello era sicuramente l’unico per cui mai avrebbe provato rimorso, perché era il solo ad essere stato messo in atto per una giusta causa: ne era fiero al punto da non voler nemmeno coprire le ferite che i parabrezza infranti dell’auto avevano impresso sulle sue nocche, ora rosse e gonfie. Si era trattato di semplice orgoglio.
«Mi stai ascoltando, imbecille
Alan, adesso, aveva alzato ulteriormente la voce, arrivando a ad usare toni poco educati; cosa che, fra le mura della loro lussuosa villa, era accaduta poche altre volte.
Daz indurì la mascella, mentre un secco “no” fuoriusciva dalle sue labbra contratte. Non lo stava ascoltando, e non l’avrebbe fatto mai: distruggere quell’auto era stato un gesto efferato, ne era consapevole, eppure l’aveva privato del senso di impotenza nei confronti di una persona che aveva fatto di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote. Era stato più forte di lui, non se ne faceva una colpa. Quel bastardo se l’era cercata; le paternali sarebbero servite a poco.
«Apri questa porta del cazzo o la sfondo, ragazzino, stavolta hai superato il limite!»
Daz socchiuse gli occhi. Insisti?, «Ti ho detto di no».
Fu questione di pochi secondi, poi la porta prese a tremare violentemente.

 

 


 

 

 

«E adesso?»
«Ha un sopracciglio spaccato, ma è una cosa con cui dice di poter convivere».
«Non mi riferisco a quello».
«…»
«Gale, davvero, cosa le dirà?»
«Non vuole parlarne».
«Ma lei ha il diritto di saperlo!»
«E’ solo una macchina, Leo, ti prego! E poi - »
«Sai perfettamente che non è quello, ciò di cui stiamo parlando».
«E tu sai ancora meglio che non sono cose che ci riguardano!».
«Io credo.. Solo.. Insomma, perché non riesce ad essere responsabile?».
Un sospiro. «Mettiamoci l’anima in pace: ho provato a farlo ragionare ed è inutile».
«.. E se ci parlassi io?»
«Non che dubiti delle tue capacità, ma non credo sia una buona idea».
«…», «…»
«Gale, tu credi che lui mi odi ancora?»
«Leo...»
«No, io non-»
«Devo andare».



 



 

«Che testa di merda, eh?»
Leo Tomlinson bloccò lo schermo del proprio smartphone gettandosi di peso sul letto appena rifatto e, in attesa di una risposta che sapeva non sarebbe arrivata, prese a rigirarlo fra le mani con aria assorta, quasi sperando che quel movimento frenetico lo aiutasse a riflettere.
Senso di colpa.
«Voglio dire, che cazzo di bisogno c’era?» continuò, voltandosi in direzione delle persiane.
Aaron restò in silenzio, le braccia conserte e lo sguardo cupo: nonostante ci stesse rimuginando da ore, ormai, immobile fra la scrivania e la finestra più grande della sua camera, nemmeno lui aveva saputo dare una spiegazione a ciò che era successo. Quando, quella mattina, aveva ricevuto un messaggio pressoché telegrafico dal diretto interessato, si era semplicemente limitato a divulgare la notizia, ma non aveva ritenuto necessario prendersi la briga di chiedere: sebbene morisse dalla voglia di conoscere i dettagli della storia, conosceva Daz da troppo tempo, e l’esperienza gli aveva insegnato che ogni tentativo di informarsi su qualunque evento alterasse gli equilibri già precari della sua vita era vano.
Non avrebbero mai ottenuto le risposte che cercavano.
«E poi spiegami che senso ha scriverci, se dopo non ha nemmeno voglia di parlarne!»
Leo si era alzato, e ora aveva ripreso a misurare il perimetro della camera a grandi passi. Aaron lo osservò a lungo, incerto di sapere a quale dei suoi mille pensieri dar voce, poi sorrise a labbra chiuse.
«Sembri sua madre» disse alla fine, optando per la leggerezza di quella battuta.
In realtà, aveva riflessioni ben più serie e complicate da esprimere, ma doveva trattenersi.
Leo ricambiò il suo sguardo, furtivo: «Tu non sei preoccupato?»
Amore.
L’altro si strinse nelle spalle, assorto. «Un po’..» ammise, ma il fischio basso e prolungato che udì pochi secondi dopo lo trattenne dal proseguire la conversazione: il fratellino, James, che per la notte aveva ceduto il letto a Leo, aveva appena richiamato la loro attenzione, avvertendoli della propria presenza. Non si erano nemmeno accorti che avesse bussato più volte, prima di fare capolino nella stanza.
«Il pranzo è pronto» lo sentirono dire, con quella sua vocina squillante. «Mamma e papà ci aspettano di sotto. Tu non hai fame, Ronnie?».
Aaron gli sorrise, allargando le braccia perché il piccolo potesse saltargli addosso e abbracciarlo come ogni mattina, dandogli il buongiorno con un bacio. Leo, che prima di quell’interruzione aveva aperto la bocca per dire la sua, si zittì e abbassò lo sguardo con una piccola fitta al petto.
«Fame? Mangerei anche te! Forza piccola peste, scendiamo».
Famiglia.

 


 

Buonasera!
Aaaallora, da dove comincio? Innanzitutto, spero di essere stata abbastanza puntuale nel postare: se non sbaglio, dovrebbe essere passata poco più di una settimana dalla pubblicazione del 'prologo', e ho fatto davvero di tutto per non prolungare ulteriormente la vostra attesa! 

Per quanto riguarda il capitolo, diciamo che mi sono volutamente matenuta su una narrazione che fosse abbastanza 'soft', piuttosto che entrare da subito nel vivo della vicenda, perché la cosa che mi premeva maggiormente era presentare tutti i protagonisti (eh già, sono sei! ahah) e dare una visione sommaria della situazione senza però raccontarvi troppi dettagli. Vi basti sapere che ci sono moooolte questioni sottintese, e che piano piano dovreste riuscire a cogliere e collegare tutte le informazioni necessarie per capirci di più ;)
Mi auguro con il cuore che possiate appassionarvi alla vita di questi ragazzi come ho fatto io in questi secoli di stesura e progettazione!  

Chiudo sperando in qualche commento (ripeto, accetto tutto, anche/soprattutto critiche, se lo ritenete!) e ringrazio tutti coloro che mi hanno dato fiducia inserendomi fra le ricordate/preferite/seguite. 


Alla prossima!
Un bacione,

L.

 

 


 

 
   
 
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