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Autore: Lila May    08/11/2018    1 recensioni
/ Sequel di Disaster Movie / romantico, slice of life, comico (si spera) /
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10 anni dopo la terribile, anzi, mostruosa convivenza con i ragazzi della Unicorno, Esther Greenland passeggia per le strade di New York a tacchi alti e mento fiero. Il suo sogno più grande si è finalmente realizzato, e tutto sembra procedere normale nella Grande Mela americana.
Eppure, chi l'avrebbe mai detto che proprio nel suo luogo di lavoro, il gelido bar affacciato sulla tredicesima, dove non va mai nessuno causa riscaldamento devastato, avrebbe riunito le strade con una delle persone più significative della sua vita?
Il solo incontro basterà per ribaltare il destino della giovane, che si vedrà nuovamente protagonista del secondo disastro più brutto e meraviglioso della sua esistenza.
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❥ storia terminata(!)
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bobby/Domon, Dylan Keith, Eric/Kazuya, Mark Kruger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter thirtyone.
 
Where's the good in goodbye?
 

Il giorno della partenza arrivò anche troppo in fretta per i gusti lenti e pigri di Esther. Quando si era svegliata, quella mattina, Mark si era come volatilizzato, lasciando il letto libero da lenzuola, coperte e federe. Aveva chiesto ad Erik dove diavolo fosse sparito, e il castano le aveva risposto che era andato a stare un po' da sua madre e sua sorella, per salutarle.
Dopo una spremuta d'arancia e un po' di biscotti per coprire il buco allo stomaco, quindi, si era fatta una doccia, si era vestita ed era andata ad aiutare Mary a chiudere la valigia colma dell'infinito e oltre.
Siccome la bastarda non aveva accennato a serrarsi nemmeno dopo mille schiaffi intimidatori, c'era voluto l'intervento di Erik, che con una tallonata alla “Unicorn” era riuscito a far combaciare i due poli della cerniera e anche a mitigare l'ansia della Moore. Dopodiché le avevano pesate, assicurandosi che i chili non sbordassero dal totale trasportabile in aereo, e seguendo l'esempio di Kruger si sbarazzarono delle lenzuola, depositandole vicino alla lavatrice.
Finito con i lavori domestici, Mark l'aveva chiamata per dirle che stava arrivando e che c'era un po' di traffico.
Era stata contenta di ricevere quella chiamata. Il fatto che lui, tra tanti numeri, avesse scelto di chiamare proprio lei voleva significare che tra loro si era instaurato un solido rapporto di fiducia.
E da quell'ultimo “ci vediamo” si era messa ad aspettarlo, le ginocchia premute contro il petto mentre Erik allacciava una fine collanina d'oro al collo esile e chiazzato di Silvia; nel notare i lievi pesti arrossati sorrise.
A quanto pare Eagle si era dato da fare per recuperare il tempo perso, ieri, ma del resto come contraddirlo? Sopportare una distanza così lunga non sarebbe potuta che sfociare in quel modo.
Erano carini insieme, il ciondolo le donava e le conferiva un aspetto dolce. Era felice per loro. Sembravano una sola melodia, in tutto ciò che facevano.
All'improvviso, a distrarla da quei pensieri infantili fu l'arrivo di Mark, che entrò in casa masticando un'enorme cicca rosa. Indossava dei jeans larghi e una camicia a quadri verdi arrotolata fino ai gomiti; era perfetto, l'aroma energico del mattino gli si era incollato alle spalle larghe e ai capelli, che gli ricadevano a ciocche disordinate sulla fronte. Si cercarono con lo sguardo, e quando si trovarono si sorrisero. << Mornin'. >>
<< Ciao Maaaark. >>
<< Mark! >> Erik gli venne incontro e gli diede una pacca amichevole sulla schiena. << Tutto bene? >>
<< Direi di sì. Più che bene! Grace vi saluta, e ah, chiede se ti è piaciuto il regalo, Est. >>
Esther sollevò i capelli ricci con un sorrisetto soddisfatto dipinto sul volto e mostrò al biondo due piccoli orecchini a perla che Hanagrace e Marge le avevano voluto regalare per Natale. << Dille che da quando li indosso non so più farne a meno! >>
<<  Glielo riferirò. Dylan sta per arrivare comunque. E' con Micha. I was thinking... >>
Mark si posò contro il bordo del tavolo e si guardò la punta delle scarpe. << Carichiamo le valigie in auto, andiamo a mangiare da qualche parte e poi partiamo. >>
<< Sì >> confermò Erik, il mento paffuto incastrato tra il pollice e l'indice. << ci conviene fare come dici. >>
<< Ma Mark, sono solo le undici! >>
<< Ma Esther, tu hai voglia di farti due ore di coda per l'aeroporto? >>
<< Oddio, ovvio che no. >> Esther sollevò un sopracciglio, colpita da quella sua dimenticanza. In effetti, non aveva quasi pensato al traffico delle ore di punta, e ora come ora perdere un volo avrebbe solo portato gravi conseguenze alla routine newyorkese di tutti quanti, lei inclusa.
Così, quando Dylan arrivò, col suo profumo di Hugo Boss e il suo forte accento californiano, fu presto fatto. Mary montò nella sua bmw insieme a Micha, mentre Mark, Esther, Erik e Silvia rimasero fedeli all'auto di Hanagrace.
Durante la marcia la mora si soffermò a guardare il paesaggio oltre lo specchio della finestra, riconoscendo tutti i luoghi che le era stato possibile visitare; l' I-hop, la strada per il campo da calcio, e quindi per la stazione ferroviaria, quella per i negozi in cui Melanie si era rivelata per la stronza che era.
Chissà come stava, che cosa faceva. Mark non era stato gentile con lei, non si era voltato nemmeno per errore mentre si era sbarazzato di tutto quel male. Istintivamente portò un occhio sul viso di lui, che guidava tranquillo ascoltando un po' la voce di Erik, un po' i rumori della strada, e lo trovò bellissimo; il fatto che sapesse atteggiarsi sia da brava persona che da cane infame, che avesse imparato a lottare e a non arrendersi, contro niente e nessuno, tantomeno se stesso , le piaceva da morire.
Si riscosse quando lui si rese conto di essere osservato, e riportò gli occhi sul paesaggio, facendolo ridere consapevole.
Melanie non doveva averlo lasciato sconvolto più di tanto, e si fissò in mente di indagare. Le interessava sapere come si sentiva Mark a riguardo, cosa ne pensava di lei ora che tutto era giunto allo stop.
Ma per quello c'era tempo.
C'era New York.


[ Annunciamo i gentili passeggeri che il volo Los Angeles - New York è in partenza. Si prega di raggiungere il gate numero quindici. ]
Mark estrasse il portafoglio dalla tasca dei jeans e controllò il biglietto senza un motivo apparente, poi sollevò gli occhi chiari e li adagiò piano sull'immensa vetrata che dava alla pista aerea, mentre l'altoparlante riproduceva l'avviso anche in spagnolo. Era arrivato il momento di partire, di tornare al traffico stressante di New York, alle interminabili notti di lavoro. Altre cinque ore e presto avrebbe potuto ricominciare da zero la sua vita, sistemarla secondo una nuova prospettiva che sì, non vedeva l'ora di assaporare.
Ciucciare come una caramella.
<< Ci salutiamo qui? >>
La voce nasale di Micha bastò a riportarlo con i piedi per terra, sul tappeto blu dell'aeroporto.
<< Ci salutiamo qui. >>
Eccola, la parte più difficile, quella in cui non era mai stato bravo e che aveva sempre temuto.
Gli addii. Eppure questa volta non si trattava di saluti sofferti, di lacrime, di separazioni eterne e soppresse dalla mano nera di un presente vacuo e senza futuro.
Questa volta era convinto che sarebbe tornato, a Los Angeles.
Questa volta c'era Esther con lui, e tutto faceva meno male.
Si avvicinò a Dylan e gli poggiò una mano sulla spalla, riconoscente. Quante cose gli aveva insegnato Keith in sole due settimane di caos? Ancora una volta lo aveva salvato dal disordine mentale, ma Mark era sicuro che sarebbe stata l'ultima della sua vita. Adesso tutto sembrava combaciare. Adesso poteva farcela da solo, e Dylan lo comprese, e gli sorrise come solo la tua perfetta, simmetrica metà sa fare.
<< Thanks, brother. >> mormorò Kruger.
<< Mark, non ringraziar--
<< No. Lo sai. Grazie. >>
Si abbracciarono forte da spaccarsi le ossa, e Mark rise. Era contento. Era contento di poterlo stringere consapevole di rivederlo, che la vita scorreva, andava, partiva, ritornava, e che lui finalmente era pronto a correre più veloce di lei.
<< Sta attento, non fare cazzate. >> sbottò Dylan, e gli arruffò i capelli biondi come era solito fare quando erano ragazzini, quando la voglia di farlo incazzare era troppo sexy perché potesse resisterle. << La prossima volta che torni ti voglio con Esther. >>
<< Sarà così. >>
<< Of course man. Sono stanco di stare dietro alle vostre paranoie. Ai vostri problemi. Cristo, sbattitel--
Mark gli tirò un' amichevole manata contro la spalla. << Try again. >>
<< Sbatt--
E gli altò addosso per farlo stare zitto, provocando le risate genuine di Mary. A sentirla, Dylan si liberò di Mark e iniziò a giocare col tessuto della maglietta attillata, nervoso.
Merda, ora sì che la distanza cominciava a fare male. Lo trafisse con la potenza di una lama di metallo, e prima che potesse rendersi conto di star soffrendo lei lo raggiunse a passo lento, gli occhi color perla velati di siffatta tristezza. Con Mary cosa avrebbe fatto? Era palese l'attrazione che aleggiava tra di loro, l'interesse reciproco.
Doverla far andare via in quel modo lo faceva sentire a disagio. Debole.
Quando lei fu abbastanza vicino per poterla guardare e rendersi conto di quanto fosse bella, Dylan fece una smorfia. Detestava le relazioni a distanza.
Anzi, detestava la distanza, gli aveva già recato troppo male. E no, lui non era come Mark, lui ancora non era riuscito a vincerla.
In quello, l'amico era stato molto più forte di lui.
<< I hate goodbyes. >> le confessò, sfuggendo al suo sguardo per ragioni che in quel momento gli sfuggivano. Perché non guardarla? Che gli prendeva?
Da quando davanti ad una donna gli veniva naturale tenere la coda tra le gambe?
<< Anche io. >>
Lei lo scrutò per un po', gli fissò il mento squadrato, i capelli biondi raccolti in una coda sbarazzina, e lasciò andare un sospiro liberatorio. Ripensò a tutti i momenti passati insieme, a come Dylan le aveva reso la sofferenza per se stessa molto meno amara di quanto fosse.
A quanto le piacesse, e lo volesse tutti i giorni al suo fianco, anche solo per andarci a correre.
<< Dylan >>
Cercò le sue mani lunghe, gliele afferrò.
<< Mi mancherai. Grazie... >>
<< Mary... >>
<< Dylan... >>
L'apparente espressione di Dylan si increspò appena sotto gli occhiali.
<< Promettimi che verrai a trovarmi. >>
<< Lo-l farò. >>
Gli occhi di Mary divennero lucidi nell'udire quella conferma pronunciata con siffatta devozione, affetto. E vedere le loro mani intrecciate, solide, unite, la costrinse a sopperire un gemito di sconforto. Gli carezzò le nocche bianche con un dito, mentre un pesante groppo di amarezza le si formava nella gola.
Cercò di scacciarlo, un brivido la percorse.
Si voltò prima che lui potesse vederla piangere e cominciò ad incamminarsi verso gli altri.
Quando si rigirò, pregando che Keith fosse scomparso, lui la stava ancora guardando, le gambe divaricate e ben piantate a terra.
Era così bello, così concreto, che Mary morì dentro nel realizzare che presto sarebbe diventato astratto.
Non lo avrebbe permesso.
Prese la rincorsa, gli saltò addosso e lui la prese al volo, incollando le labbra a quelle tremanti di lei. Le affondò le dita tra i capelli blu, la tenne salda mentre le mani della ragazza correvano a stringergli con affanno la maglietta per non farlo andare via. << Hai promesso, Dylan... >>
<< Sono un uomo di parola. >>
Si guardarono, il grigio perla si fuse col nocciola paglierino delle iridi di Dylan. Svegliarsi la mattina senza più poterle rivedere sarebbe stata dura.
Molto dura.
<< Molto più di Mark. >>
Risero, e lui la adagiò a terra con dolcezza, un velo di angoscia spruzzato sulla pelle opalescente. Il contatto col pavimento la fece sobbalzare; per un attimo le era sembrato di star volando, e forse era successo davvero, tra quelle braccia possenti che ora se ne stavano in attesa di qualunque cosa.
Eppure c'era un dettaglio, nel modo di fare dell'americano, che la stava confondendo. Forse era a causa dell'euforia lasciata dal bacio, o forse la consapevolezza che la distanza non era un'opinione.
Ma un fatto, un brutto, scocciante fatto.
<< Adesso vai. >>
<< Dylan... >>
<< Vai, dai. Ti chiamo quando arrivi. >>
Corse verso Erik e Silvia, senza voltarsi nemmeno per errore.

 
Quando lo fece, Dylan se n'era già andato.

 
<< Okay, Micha. >> Mark lanciò le chiavi dell'auto di Hanagrace al castano, che le prese al volo per puro miracolo divino.
<< Ti affido la macchina di mia madre. Portala a casa di mia sorella, right? >>
<< Sure. >> Michael gli fece l'occhiolino e si cacciò lo strumento tintinnante nella tasca. Poi assunse un'aria seria, dispiaciuta, che gli adombrò gli zigomi sporgenti. << Fa buon viaggio Mark. >> guardò tutti loro con malcelata sofferenza, prima di ritornare a fissare il biondo e sospirare all'idea che gli sarebbe mancato. Che quella vacanza era finita, che il gruppo si spezzava di nuovo. << Scrivici quando arrivi. Altrimenti Dylan piange. >>
<< Vi scriverò, tranquilli. >>
<< Bravo. Ciao Erik, ciao donne. Ci si sente, sì? >>
<< Ovvio! Alla prossima! >>
E anche Michael diede loro di spalle, scomparendo in mezzo al miscuglio di persone in attesa di potersi sedere sul sedile dell'aereo e tornare alla solita routine fatta di smog e corse lungo Times Square.
Mark sollevò le larghe spalle, smuovendo appena la camicia stazzonata. << Allora. Andiamo? >>

 
<< Ma guarda un po' le coincidenze, Kruger. >>
Mark smise di armeggiare con il sacchetto trasparente delle cuffie e si soffermò a scrutare il volto latteo di Esther. Era davvero carina quel giorno, la felpa color menta slavato le dava un tocco di leggerezza che nemmeno il più lieve dei trucchi sapeva regalare, e gli enormi orecchini a cerchio le carezzavano il collo nudo con grazia velata.
Una regina in tuta e scarpe da tennis, insomma.
Non capitava tutti i giorni di vederla in abiti tanto sobri, e sorrise nel notare quanto le stesse bene la coda di lato.
<< Sono capitata proprio vicino a te. >>
<< Spero che mi lascerai dormire, almeno. >>
Esther incrociò le braccia al petto con fare ampolloso. << Lo vedremo. >> così disse, prima di mettersi gli auricolari, avviare un film e isolarsi dal resto dei passeggeri per godersi appieno il suo – sempre secondo lei – Brad Pitt. Eppure Mark aveva come la strana sensazione che la cosa non sarebbe durata per più di quaranta minuti.
E ci vide giusto.
Dopo nemmeno un'ora di volo la guancia della ragazza gli si schiantò bruscamente contro la spalla, dimentica del film al piccolo televisore oppure del bicchiere di acqua lasciato sul tavolino traballante, incipriato dalle impronte rosse delle sue labbra.
Mark distolse lo sguardo dall'oblò e sorrise, coprendola col braccio per farla stare più comoda. Più protetta. Più vicina. << Ma che strano. Sapevo che saresti finita così. >> le disse, e le scostò un boccolo dal viso con fare affettuoso. << Sapevo che saremmo finiti così. >>
"Insieme, io e te. Liberi."
Non gli sembrava vero di averla lì, posata contro di sé, cotta e immobile in attesa di tornare a New York, al “bar sulla tredicesima” a sfornare pancakes caldi di piastra. Chi l'avrebbe mai detto che Esther Greenland si nascondesse proprio lì dentro? Se ci pensava gli veniva da ridere.
Se pensava a quando Erik glielo aveva detto, a come i suoi sospetti avevano trovato conferma nelle sue parole, a come la voglia di fare retromarcia e raggiungerla lo aveva divorato per minuti interi. Per notti intere, anzi.
Alla foga di trovare un momento libero per raggiungerla. Alla soddisfazione di averlo trovato.
Le si avvicinò e le annusò i capelli profumati, inebriandosi di quell'aroma che tanto lo faceva impazzire. Poi abbassò un po' il finestrino perché la luce smettesse di batterle sulle palpebre e affondò il naso tra i suoi ciuffi color porpora. Chiuse gli occhi.
Chiuse tutto.
Furono le cinque ore di sonno più dolci e rilassanti della sua vita.


 
_______________________________
nda
scusatemi. No, davvero, chiedo scusa, venia e pietà per il ritardo ABNORME con cui passo ad aggiornare questa storia. dovevo farlo ad ottobre, ma credetemi se vi dico che non ho avuto proprio tempo. Spero dunque di avantaggiarmi in questo carissimo novembre, perché di arrivare a Natale con le pugnette di Kruger proprio non ne ho voglia, e voi neanche, scommetto. Come state? Io bene. Sotterrata di compiti, irritata dal caldo – oh raga siamo a NOVEMBRE – ma sì, dai, non mi lamento. Se ci siete, fatemi un segno lasciando una recensione – o anche solo passando a dare una sbirciatina al capitolo, io non vi ho certo dimenticati
capitoletto di transizione, oserei deifnirlo, che vi prepara al GRAN FINALE della storia, ormai vicino vicino – praticamente the next one is the final one woo –. ora che anche Erik e Silvia si solo levati dalla minch—ehm, si sono ricongiunti, non rimane che risolvere il mistero di una coppia sola; la DylanMary. Vediamo che finale darete a sti due, sono proprio curiosa. Ve lo aspettavate il loro bacio? Non ricordo nemmeno se era in programma, sinceramente, però io li trovo odiosi insieme. Come sia possibile che io abbia scelto di dare una donna a Dylan, quando TUTTE LE DONNE sono sue... bah.
Anyway, il titolo è preso da una bellissima canzone dei “The Script”, “No good in Goodbye”; ho pensato che la citazione potesse legarsi allo stato d'animo di Dyl, che, a differenza di Mark, ancora non è riuscito a superare il dolore della distanza, e mai riuscirà a farlo, probabilmente.
Come contraddirlo.
E' dura lasciar andare Mark.
Nessuno, vorrebbe lasciar andare un cucciolo così <3
ho finito!
Tenetevi pronti che il prossimo capitolo è lungo e... importante.

xoxo
Lila
   
 
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