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Autore: _Frame_    11/11/2018    4 recensioni
[Epilogo di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[LietPol Human!AU; Past!RusLiet; Fake!BelaLiet]
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La fuga da Londra è l’occasione che serve a Toris per tornare a inseguire la felicità che ha tanto desiderato assieme all’unica persona che abbia mai amato veramente, lontano dall’ombra di Ivan e dalla vita di strada che lo ha devastato durante gli anni trascorsi in Inghilterra. Ma i Siberian Cubs potrebbero aver influenzato in maniera permanente il suo destino, sottraendolo per sempre alla possibilità di vivere lontano dal passato che lo ha quasi ucciso e da quei traumi che ancora continuano a perseguitarlo.
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Estratto da “Chinese Cub”:
«Quello che c’è fra me e lui non ha niente a che vedere con quello che c’è fra me e te. Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.»
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Estonia/Eduard von Bock, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Ucraina
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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2. Cara Katyusha – Autunno

 

 

2 dicembre 1989

 

Cara Katyusha,

spero che questa lettera giunga presto fino a te e che ti faccia piacere ricevere mie notizie. Ho preferito affidarla a Natalia invece che spedirtela via posta perché, nonostante il clima in Europa sembra destinato a cambiare definitivamente, potrebbero esserci ancora difficoltà di comunicazione con l’Unione Sovietica, e non volevo rischiare che ci impiegasse troppo tempo a giungere fino a casa tua. Temo poi che tu abbia cambiato indirizzo dopo l’incidente di Chernobyl, e che ti sia trasferita in una zona più sicura del paese. In tal caso, sarei davvero felice di avere di nuovo il tuo indirizzo, in modo da poterci tenere in contatto anche in un prossimo futuro.

Spero inoltre che Natalia abbia fatto un buon viaggio, che non si sia affaticata troppo, e che ora possa essere serena nel vivere di nuovo assieme a te, all’unica persona che le è rimasta della sua famiglia. Porgile i miei più cari saluti e augurale da parte mia di essere felice nella ricerca di una nuova vita. Accoglila a braccia aperte come hai fatto con noi più di dieci anni fa. Sii orgogliosa di lei, perché ha saputo starmi vicino durante gli anni qua a Berlino, ed è solo grazie al sostegno reciproco che siamo stati entrambi in grado di andare avanti nonostante le difficoltà derivate dagli anni trascorsi a Londra. Anche Natalia ha sofferto molto, nonostante per lei sia difficile ammetterlo apertamente, ma è sempre stata più forte e coraggiosa di me, perciò non abbandonarla, sono sicuro che lei saprà fare lo stesso, e ti prego di non avercela con lei per la sua fuga dalla Siberia, perché è stato un gesto che ha compiuto solo per paura di rimanere attaccata al dolore che ci ha travolti tutti dopo la scomparsa di Ivan, e non di certo per una qualche tua colpa. Non lasciare che il vostro legame si spezzi per un motivo che invece dovrebbe tenervi più unite che mai.

In questi giorni ho provato a mettermi in contatto anche con Eduard e Raivis, sperando che si trovino ancora in Finlandia come quando ci siamo trasferiti dalla Siberia. Sono certo che ora non esista più alcun rischio per Eduard di venire allo scoperto, e che anche lui avrà la sua occasione di ricostruirsi una vita onesta senza più la paura di doversi nascondere a causa del suo passato. Vorrei rivederli, come vorrei rivedere anche te, e ringraziarvi tutti per quello che avete fatto per me, aiutandomi a uscire da quel buio periodo della mia vita da cui non credevo sarei mai riuscito a emergere. Ora ho finalmente trovato l’uscita da quel lungo tunnel nero in cui mi sono sentito intrappolato per tutti questi anni, e spero che il tempo possa concedere a tutti noi quella seconda possibilità di cui abbiamo bisogno per lasciarci definitivamente il passato alle spalle.

La notizia più triste in tutto questo è che purtroppo non ho nessun modo di contattare Feliks, dato che non so quale sia stata la sua destinazione dopo aver lasciato l’Unione Sovietica, dopo esserci separati. Se tu avessi anche solo un piccolo indizio su dove possa essere andato a vivere, se fosse tornato a Londra, o a casa in Polonia, ti sarei infinitamente grato se riuscissi a comunicarmelo, in modo da facilitarmi la ricerca. Non mi sono mai pentito di essermi separato da lui, perché questi anni di solitudine mi hanno aiutato a guardare dentro me stesso, a fare ordine nella mia vita e chiarezza sui miei sentimenti, a capire cos’è davvero importante per me e quello di cui ho bisogno per vivere un’esistenza felice. Ora so che Feliks ha sempre rappresentato quella felicità, e che voglio ritrovarlo per non abbandonarlo mai più.

Ti ringrazio di nuovo per esserti presa così tanta cura di noi quando abbiamo vissuto in Siberia assieme a te, quando non avevamo nessun altro su cui fare affidamento. Ti ringrazio per essere stata forte e per non aver ostacolato le decisioni di Natalia, nonostante tutto il dolore devono averti causato. Ti ringrazio per esserti preoccupata per me e per aver avuto a cuore il mio destino. Ti ringrazio per essere stata la più brava sorella del mondo. Oltre che, per un certo periodo, anche mia cognata.

Vivi felice, stai accanto a Natalia, siate serene assieme. Sono sicuro che anche Ivan avrebbe voluto così.

Porgi i miei saluti e i miei auguri anche a Natalia, e ringraziala nuovamente per essermi stata accanto in tutti questi anni che abbiamo superato assieme. Prenditi cura di lei e di te stessa.

 

 

Buona fortuna a entrambe,

 

vostro Toris

 

* * *

 

marzo 1976

Un paesino in Siberia, Unione Sovietica

 

Lascio scorrere le punte delle dita lungo il collo di Feliks, dal piccolo arco dell’orecchio all’incavo della clavicola che sporge dal bavero del pigiama. Il mio tocco attraversa il tatuaggio, i segni d’inchiostro nero che appaiono più sbiaditi sotto la luce della luna che gli bagna la pelle. Gli scosto due fili di capelli sciolti, li pettino lontani dalla sua guancia, e la ciocca ricade sul cuscino, fra le pieghe stropicciate dal peso del suo capo.

Feliks dorme. Il respiro lento e assopito, l’espressione serena, le labbra socchiuse, un braccio steso sotto la guancia leggermente rigonfia, la mano a pendere dal materasso, e l’altra stretta alle coperte che si spostano assieme a lui a ogni suo sospiro.

Sfilo il tocco dal suo viso e mi allontano per non svegliarlo. Stringo le ginocchia al petto, rannicchio i piedi, e mi trascino sulla sponda opposta del letto, accanto al ritaglio di vetro da cui penetrano i raggi della luna ancora alta nel cielo. Scosto una tendina, mi affaccio alla finestra socchiusa da cui entra il forte e umido profumo di erba bagnata e di fiume.

Le chiome degli alberi piantati in giardino non riescono ad arrivare fino al secondo piano dell’isba. I rami gremiti di boccioli ancora schiusi si frastagliano contro il cielo color cobalto da cui pende una luna bianca e panciuta che splende sulle stradine di sterrato incrociate fra le altre casette del paese. La corona dell’alba traccia il profilo dell’orizzonte. I primi raggi del mattino toccano il vialetto che conduce al cancelletto d’entrata, brillano sulla vernice della staccionata, e formano ritagli d’ombra sul portico riparato dal tetto spiovente abbellito dai fiori rampicanti che Katyusha cura ogni giorno. Un gallo canta in lontananza, da uno degli orti del vicinato, e il suo verso spezza il silenzio interrotto solo dallo scrosciare limpido del ruscello appena scongelato. Un soffio di vento scuote gli alberi di melo che non sono ancora fioriti, entra dallo spazio aperto della finestra, attraversa il mio viso portando con sé il gelo della notte che sta scemando, e mi fa rabbrividire.

Richiudo la finestra ma tengo la tenda scostata, in modo da poter guardare ancora fuori. Avvolgo il braccio attorno alle gambe piegate, accosto una spalla alla parete, poggio la tempia sul vetro e rimango in contemplazione delle stradine deserte districate in mezzo agli orti e ai giardini, come faccio durante ogni alba, come ogni mattina, prima che tutti si sveglino.

È strano addormentarsi e svegliarsi sempre avvolti in questo silenzio completo, quasi surreale rispetto alla confusione di Londra, quando fuori dall’appartamento regnava il costante rombo delle auto, gli squilli dei clacson, e la musica che tuonava dai pub e dai locali notturni. Questo silenzio mi calma e mi spaventa allo stesso tempo.

Strofino le braccia, dove i brividi si raccolgono e dove ogni tanto il bruciore si fa ancora sentire all’altezza degli ematomi che stanno guarendo e sbiadendo lentamente dalla mia pelle.

Quando mi ritrovo da solo, il silenzio non fa altro che accentuare la voce che si è risvegliata nella mia testa, ora che sono tornato pulito dopo anni. E il caos che martella nei miei pensieri è ancora più doloroso rispetto a quello in cui mi immergevo passeggiando fra le strade di Londra.

Lascio andare il lembo della tenda, allontano lo sguardo dal panorama affacciato alla strada, e lo sposto su Feliks che sta ancora dormendo al mio fianco. Lo sfioro con un’altra carezza lungo il viso, sulle sfumature azzurrine che gli tingono la guancia lattea e che rendono i suoi capelli biondi di un colore simile all’argento. Lui non è cambiato in nulla da quando siamo scappati qua in Siberia. Ha accettato di seguirmi, ha accettato di abbandonare la vita di Londra e di condurne una completamente diversa in Unione Sovietica. Ha accettato di assecondarmi per l’ennesima volta, anche ora che si è trattato di fuggire verso l’altro capo del mondo, anche senza sapere cosa ne sarebbe stato di noi una volta raggiunta la Siberia. Ha scelto di nuovo di essere coraggioso, mentre io continuo a lasciarmi trascinare dagli eventi senza sapere come reagire, impotente e debole davanti alla sua forza e al suo sostegno.

Mi lascio scivolare di nuovo fra le coperte. La schiena rivolta a Feliks, lo sguardo verso la parete e toccato dalla luce notturna che filtra fra le tendine. Chiudo gli occhi. Strofino di nuovo le braccia sotto le maniche del pigiama, gratto anche il collo all’altezza del tatuaggio, dove l’orologio continua a bruciare, e mi concentro sui pochi suoni che si mescolano fuori dalla casa – lo scorrere del ruscello, il canto del gallo a cui se n’è aggiunto un altro, e lo scricchiolare delle pareti sotto l’ululato del vento che sibila fra le assi di legno. Ogni rumore è un sottile e doloroso fischio nella testa, come la punta di un chiodo che scava sempre più a fondo.

Essere pulito è dura. Credevo che, una volta superata l’astinenza e i primi giorni trascorsi solo ad annegare nel senso di stordimento, avrei raggiunto un piacevole senso di liberazione. Non pensavo nemmeno io di ritrovarmi ad affrontare una sensazione così sgradevole. Tutto fa di nuovo male. Brividi costanti mi scorrono nel sangue, spingendomi a grattarmi le braccia e il collo anche quando non sento prurito. Ogni più piccolo rumore mi fa scattare come se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola dietro il mio orecchio, ma rimanere in silenzio è ancora più insopportabile. I ricordi affiorano con più facilità e si susseguono come onde, persino quelli che credevo di aver dimenticato, di aver sepolto da anni.

L’odore di terra bagnata e della pioggia caduta ieri rievoca una lontana giornata dell’anno scorso, di fine estate. Io e Feliks in fondo all’autobus, fradici del diluvio che ci aveva annaffiati alla fermata. L’odore dei sedili bagnati, il gocciolare dell’acqua sul pavimento, lui rannicchiato al mio fianco, il suo capo a riposare sulla mia gamba, e la mia mano a scorrere fra i suoi capelli come poco fa. Quel giorno gli avevo promesso che avrei affrontato Ivan, che avrei troncato il nostro rapporto, che gli avrei confessato che non potevo più stare con lui, e invece non è successo, non ne ho mai avuto l’occasione, perché solo qualche giorno dopo c’è stato il rapimento.

Strizzo le mani sull’orlo delle coperte, schiaccio le ginocchia al ventre, nascondo la faccia nel cuscino e trattengo il fiato, soffocato dalla sensazione di star annegando nei miei stessi ricordi.

Un lago di pece nera mi risucchia, braccia fredde e collose artigliano il mio corpo, mi trascinano nelle sue profondità, dita ghiacciate stringono attorno alla gola e arrestano il respiro. Il cuore accelera, il petto si gonfia d’ansia, di una sensazione gelida e pesante che comprime i polmoni, accorciando il fiato e facendomi sudare freddo.

Riaffluiscono le immagini dei giorni in cui sono stato prigioniero, i suoni delle dita rotte, secchi come ramoscelli spaccati, i lampi dei calci in faccia, il dolore stridente dei tagli lungo la schiena, l’odore nauseabondo del sangue e della pelle bruciata, la sensazione umida e calda che fluiva dalle ferite scottanti, riversandosi sul pavimento sui cui mi avevano lasciato giacere come uno straccio usato. I dolori allo stomaco dovuti all’astinenza, la pancia in fiamme, i crampi ai muscoli che mi scuotevano come una serie di morsicate date a braccia e gambe, la testa soffocata da un ovattante senso di estraniamento che mi aveva staccato dal mondo, da quell’agonia che credevo avrebbe finito per uccidermi. Poi il salvataggio di cui ricordo solo qualche frammento d’immagine. La sagoma scura di Ivan comparsa sulla soglia, la luce traballante dietro di lui, i suoi passi in avvicinamento, il tepore della giacca stesa sul mio corpo ferito e dolorante, le sue braccia che mi hanno raccolto dal pavimento sporco di sangue, e il suo profumo familiare che mi ha avvolto, che mi ha stretto il cuore in una dolorosa sensazione di conforto. Era tutto finito.

Mi giro sull’altro fianco, rotolo accanto a Feliks affondando il viso nel lato fresco del cuscino, e avvolgo il suo corpo fra le braccia. Sopprimo contro di lui tutto il dolore dei ricordi che speravo di aver dimenticato e che invece mi hanno seguito anche ora che sono distante da Londra.

Dopo il rapimento, anche una volta che mi sono rimesso e che le ferite sono guarite, Ivan non mi ha più toccato. Nel dormiveglia, durante i giorni del recupero in cui non facevo altro che svenire e rivenire, sentivo che parlava con Eduard, ogni tanto facevano venire un medico – non potevano rischiare di portarmi all’ospedale – e quando riuscivo a riprendere conoscenza c’era sempre qualcuno ad accudirmi, o Feliks, o Eduard o Ivan, medicandomi le ferite o cambiandomi le bende. Ivan continuava a sorridermi come al solito, mi teneva la mano, mi baciava la guancia, mi carezzava i capelli parlandomi fino a che non mi addormentavo, mi trattava come se fossi stato fatto di cristallo, e anche una volta guarito è stato così. Non si è più spinto oltre. Credevo che sarei stato sollevato davanti a questo suo cambiamento, per aver ottenuto spontaneamente quello che avrei voluto chiedergli e che temevo avrebbe rifiutato. Pensavo davvero di voler troncare con Ivan, e invece la sua lontananza mi ha fatto sentire ancora peggio, ancora più vuoto e miserabile di quello che ero prima, quando ci andavo a letto. Durante il rapimento hanno fatto di me quello che hanno voluto per farmi parlare sui traffici di Ivan e sui Siberian Cubs, ma io non ho aperto bocca. Ne sono uscito distrutto ma vivo. E quando Ivan ha cominciato a distaccarsi mi sono sentito messo in disparte, costretto a impolverarmi in un angolo come una bambola rotta con cui lui non avrebbe più giocato.

Carezzo la schiena di Feliks, intreccio le dita ai capelli che ricadono fra le coperte, lascio scivolare un piede fra le sue gambe e contemplo il suo viso addormentato, il suo corpicino stretto al mio.

È stato Ivan a liberarmi, è stato Ivan a portarmi in salvo, ed è stata la sagoma di Ivan ad apparirmi poco prima di essere avvolto nella giacca e sollevato da terra, ma so che è solo grazie a Feliks se hanno scoperto chi mi aveva rapito e dove mi tenevano prigioniero. È stato Eduard a confessarmelo, nei primi giorni in cui ho ricominciato ad alzarmi dal letto, ma nessuno di loro ha mai proferito parola su come ci sia riuscito. Le volte in cui provavo a chiederglielo, Feliks allontanava gli occhi, si faceva più pallido, cominciava a giochicchiare con i capelli tirandoli davanti al viso, nascondendo lo sguardo basso che vacillava di vergogna, e si mordeva il labbro, come fa sempre quando si imbarazza, come quando non vuole più parlare. Non gli ho più chiesto nulla, non ho più avuto bisogno di saperlo, e non ho più voluto farglielo ricordare, costringendolo a rievocare quel dolore che deve aver patito anche lui. Tutti noi siamo qui per un motivo, dopotutto: dimenticare.

Il respiro di Feliks vibra sulla mia guancia, spezzato da un lieve mugugno. Le sue ciglia fremono sotto la luce della notte. Un occhio si schiude facendomi il solletico e sbircia, ancora appannato dal sonno che gli gonfia le palpebre. Le sue labbra si stendono, ne percepisco il tocco tiepido sulla guancia, e gli angoli della bocca si flettono in un sorriso insonnolito. «Ciao.»

Incontro l’iride verde che splende, irradiata dalla luna, e la sua espressione lievemente schiacciata dal cuscino che preme sulla sua guancia. Tutto il nero che prima ha rischiato di inghiottirmi svanisce, sciolto dal calore del suo sguardo.

Gli sorrido anch’io, sospiro a fondo sul cuscino. «Ciao.» Gli scosto i capelli dal viso, intreccio la mano alla sua, e avvicino il viso. Le punte dei nasi a sfiorarsi, come ci piaceva dormire quando vivevamo a Londra. «Ti ho svegliato?»

Feliks rotola supino, raccoglie una gamba, lascia ricadere un braccio sul petto, e si stropiccia gli occhi sotto le ciocche spettinate. «Dobbiamo già alzarci?» sbiascica. Fa sempre fatica a svegliarsi di punto in bianco.

«No.» Torno a sistemare la coperta, gliela rimbocco all’altezza delle spalle. «Torna a dormire, è ancora presto.»

Feliks sospira a fondo, stiracchia i piedi, sbatte di nuovo le palpebre che restano socchiuse, e volta il capo guardandomi attraverso la luce argentea che ricade sul suo viso. «Perché eri sveglio?»

Irrigidisco. Mi convinco a non girarmi, a non guardare di nuovo fuori dalla finestra, a non cercare nel buio la stessa sagoma che mi è apparsa quando si è trattato di venirmi a salvare, e a non tendere l’orecchio nel silenzio della notte, verso lo scricchiolio di passi lungo la strada che so non arriveranno presto quanto vorrei.

Rumori risalgono la cucina – cassetti che si aprono e si chiudono, una sedia che si sposta, il fornello del gas che schiocca –, attraversano le pareti e giungono fino in camera da letto. Qualcun altro è già sveglio.

Carezzo la fronte di Feliks. «Tu resta qui.» Scosto le coperte e lascio scivolare i piedi giù dal letto. «Io torno subito.»

Feliks torna a chiudere gli occhi, annuisce, si arrotola scivolando sul mio lato del materasso, e si riaddormenta di colpo. I capelli ricadono sul collo e sul viso, nascondono il tatuaggio.

Mi rivesto senza fare rumore, esco dalla camera in punta di piedi, senza nemmeno far scricchiolare le assi del pavimento, e lascio la porta socchiusa. Attraverso il corridoio seguendo il brusio proveniente dalla cucina al piano di sotto, mi dirigo verso le scale. Passo davanti alla camera di Natalia – la porta è chiusa – e davanti alle piccole scale di legno che portano alla soffitta dove dormono Eduard e Raivis. Katyusha ha insistito tanto per farli dormire nella sua camera, ma loro si sono rifiutati, non volevano costringerla a risalire il tetto ogni notte e a farla riposare fra gli spifferi e la polvere. Poi non rimarremo qua a lungo, sarà solo questione di settimane prima che Ivan torni a prenderci.

Discendo le scale e raggiungo il piano di sotto, supero l’Angolo Rosso, e seguo il tenue riverbero proveniente dalla cucina, mi immergo in un ambiente più tiepido e profumato che mi solletica la punta del naso. In questa casa c’è sempre qualcosa che cuoce sui fornelli, sempre qualche pentola di rame che fuma, sempre qualche mazzo di fiori raccolti dai campi ad abbellire il tavolo, e sempre qualche rametto di spezie o bucce di frutta ad abbrustolire nella stufa. Katyusha la accende ogni giorno, anche se è già marzo. La primavera sta sbocciando lentamente, quest’anno, e fino all’altro ieri camminavamo ancora sui mucchi di neve rimasti a incrostare la terra nera dell’orto, respirando il profumo del ghiaccio sciolto sospinto via dalla corrente del fiumiciattolo che attraversa il paese.

Raggiungo la cucina, mi fermo sulla soglia.

Katyusha mi dà le spalle. Si alza sulle punte dei piedi per rimettere a posto una pila di piatti in credenza, si china a raccogliere un legnetto caduto dalla catasta di ciocchi già disposta accanto alla stufa aperta, spegne il fornello su cui è sistemato un bollitore fumante da cui arriva un intenso profumo di foglie di tè, solleva una pentola vuota e raccoglie uno strofinaccio per ripulire il ripiano davanti ai barattoli di spezie.

Spingo via i capelli dagli occhi, stropiccio il viso ancora intiepidito dal calore del cuscino, strofino le palpebre appesantite dal sonno – ho dormito solo un paio d’ore, anche oggi – e metto a fuoco l’ambiente illuminato. «Katyusha?»

Katyusha si gira di scatto verso di me, sobbalza, e la padella le scivola dalle mani, sbattendo sulla credenza. «Ah!» Si china a raccoglierla al volo prima che cada sul pavimento, prima che anch’io abbia il tempo di afferrarla. «Oh, Cielo, Toris.» La riappoggia sotto la dispensa, accanto ai fornelli, e sistema lo scialle che le è quasi caduto dalle spalle per quel movimento improvviso. Si posa la mano sul petto e sorride con un sospiro. «Mi hai spaventata.» Quella piccola scossa di paura traballa ancora nel suo sguardo stanco.

«S-scusa.»

Katyusha rimette la padella a posto in dispensa. «Ma cosa ci fai già in piedi?» Richiude l’anta e mi guarda con occhi materni e apprensivi. «Ti sei sentito male? Vuoi che ti prepari qualcosa?»

Mi affretto a scuotere la testa e a gesticolare per allontanare le sue premure. «No, no, davvero, era solo...» L’occhio torna a cadermi sul bollitore che fuma sui fornelli, sulla cucina già lustra di prima mattina, sulla pila di piatti che ha appena messo in ordine, sul mucchietto di legni sottili raccolti accanto alla stufa aperta e ancora spenta, e sugli stivali di gomma messi accanto alla porta, quelli che di solito Katyusha indossa sempre per lavorare nell’orto. Sono già sporchi di terra. «Ho solo sentito dei rumori, e...»

«Oh, perdonami, devo averti svegliato.» Katyusha dà una spolverata al tavolo della cucina con lo stesso strofinaccio con cui ha ripulito il ripiano delle spezie. «Sai, stavo solo riordinando un po’. Ora che sta arrivando la primavera ne approfitto per fare un po’ di pulizie di prima mattina.» Le sue labbra si sollevano in un sorriso. Lo strofinaccio passa da una mano all’altra con un tremolio della sua presa. «È l’ideale, giusto?»

Mi pervade un sentimento di preoccupazione nei suoi confronti che rende il cuore freddo e pesante, ma annuisco comunque. «S-sì. Uhm, certo.» Anche io mi sveglio sempre prima degli altri, e ogni mattina mi accorgo dei rumori provenienti dalla cucina. So che lei è la prima ad alzarsi, come se vegliasse tutta la notte, come se non andasse nemmeno a dormire. Certe volte, quando mi affaccio alla finestra, la vedo camminare lungo il vialetto, sotto la luce dell’alba, e andare a controllare la cassetta della posta anche più di una volta, quasi sperasse di trovare notizie di Ivan, una sua lettera, un qualsiasi messaggio che possa darle la speranza che stia bene. La sera è sempre l’ultima di noi ad andare a letto. Trascorre le ore dopo il tramonto con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra della cucina, sulla stradina, come faccio io, animata dallo stesso desiderio di vederlo comparire e tornare a casa. Ogni giorno appare sempre più stanca e sfibrata, le tremano le mani, è pallida, è dimagrita, ha gli occhi gonfi e arrossati, mangia poco e non dorme affatto. Ha i nervi a pezzi. È da settimane che si sta prendendo cura di noi e non è ancora arrivata nessuna notizia di Ivan da Londra. L’attesa sta diventando estenuante per tutti.

Katyusha raccoglie il bollitore dai fornelli, pinzandolo con una presina di stoffa, e mi rivolge un sorriso più disteso da dietro il nastro di vapore che emerge dal beccuccio. «Vuoi del tè? Ne ho preparato un poco proprio adesso.»

La mia pancia brontola, un gorgoglio inconscio ma gradevole. Mi poso la mano sullo stomaco per nasconderlo e chino lo sguardo per non far notare il rossore sulle mie guance. «Se non è troppo disturbo.» È strano e piacevole sentire di nuovo lo stimolo della fame. Uno dei pochi vantaggi derivati dalla disintossicazione.

Il viso pallido di Katyusha s’illumina, gli occhi luccicano come se non aspettasse altra risposta. «Assolutamente.» Raccoglie due bicchieri lunghi dalla credenza, quelli che usiamo sempre al pomeriggio per bere il distillato di frutta ed erbe che prepara lei stessa con quello che raccoglie dall’orto. «Fai attenzione, però, il tè siberiano è molto diverso da quello inglese, non tutti riescono a berlo.» Dispone i bicchieri sul tavolo appena ripulito e versa il tè nero dal bollitore. Salgono due bianche e dense colonne di vapore che riempiono l’ambiente con un profumo penetrante di foglie sminuzzate, così forte da somigliare a quello della liquirizia bruciata. «Questo si chiama Chifir. Di solito lo beviamo nelle occasioni speciali.»

Mi siedo al tavolo, affianco al vaso di fiori da cui trabocca un gonfio mazzo di mughetti, e raccolgo il mio bicchiere. Una fredda ondata di malinconia cancella il tepore del tè e il profumo dei fiori, rende l’ambiente più buio. «Forse dovresti conservarlo, allora.»

Katyusha scuote il capo, sgocciola il bollitore. «C’è solo un’occasione speciale che potrebbe davvero fare la differenza.» Lo riappoggia sui fornelli, si tiene aggrappata allo scialle, le mani stringono il tessuto e tremano, e nei suoi occhi torna a balenare quella luce triste che li rende più distanti e annacquati. «Ma temo che dovrò aspettare ancora molto per poterla vivere.»

Stringo le dita sulla superficie bollente del bicchiere, e sopprimo anch’io una morsa dello stesso dolore. Entrambi stiamo aspettando la stessa cosa, dopotutto. Entrambi ci trasciniamo da un giorno all’altro solo smossi dalla speranza di rivedere Ivan. Lui è una presenza costante in questa casa, anche ora che è assente. Esiste ancora negli sguardi tristi di Katyusha, in quelli truci di Natalia, nel profumo speziato di questa cucina che è simile a quello che inspiravo attraverso la sua pelle, nella sua camera che è rimasta intoccata come un santuario, nel giardino dove il ghiaccio si sta sciogliendo e stanno cominciando a sbucare i gambi dei primi girasoli che fioriranno solo con l’inizio dell’estate, e sui nostri tatuaggi, ogni volta in cui l’orologio brucia e ci ricorda da dove veniamo.

Katyusha si siede davanti a me, stringe anche lei le mani tremolanti attorno al bicchiere di tè bollente, le strofina, si riscalda, e mi sorride. «Hai preso un po’ di colorito da quando sei qui, vero?» Sorride sempre, anche quando è triste. Dev’essere da lei che ha Ivan ha preso.

Mi copro una guancia intiepidita dal vapore del tè e chino la fronte, nascondo un piccolo sorriso d’imbarazzo. «Ah, f-forse sì, è vero.» Strofino il viso, ma mi rendo conto che ha ragione. Ultimamente esco di casa ogni giorno per passeggiare in paese assieme a Feliks. Camminiamo fino agli orti, fino ai campi di grano che ora non sono altro che una larga e infinita distesa di terra nera spolverata di bianco, e fino alle rive del fiume dove ci sediamo a prendere il sole, a lanciare ciottoli fra gli schizzi della corrente, a respirare l’aria limpida e incontaminata che pare sciacquare via tutto il fumo che ci siamo portati dietro dalla nostra grigia vita di Londra. Rinnovo il sorriso, sentendomi più sollevato. «Un po’.»

Katyusha si sporge a carezzarmi l’altra guancia, a stringermi la pelle fra due nocche. «E sono finalmente riuscita a farti mettere su un po’ di ciccia» ridacchia. «Quando sei arrivato eri così magrolino che mi facevi una tenerezza indicibile.» Torna a sedersi, lascia che il bicchiere di tè fumi fra le sue mani. «Ma ora stai meglio, vero?»

Torno a guardare in basso, questa volta per nascondere una grigia maschera di colpevolezza che fa sbiadire il sorriso dalle labbra. «Scusa se ti stiamo dando così tanto da fare in questi mesi.» Mi lascio scivolare addosso i ricordi dei giorni nebbiosi della disintossicazione che ho dovuto trascorrere qui, circondato dalle attenzioni di tutti, di Katyusha per prima. «Ti dobbiamo molto.»

Katyusha scuote il capo. «Sciocchezze. Adoro prendermi cura di voi.» Beve un primo sorso del suo tè, lo fa oscillare fra le pareti del bicchiere, e scruta attraverso la colonna di fumo che le rende le guance più rosee. Gli occhi si fanno sognanti. «Mi fa tornare ai bei tempi, quando Ivan e Natalia erano ancora piccoli, quando non avevamo nulla se non l’affetto che ci teneva legati. Sembrava bastare, allora. Sembrava davvero che tutto quello di cui avessimo bisogno per essere felici fosse l’amore che ci univa.» Sospira, più pensierosa. Gli occhi tornano a intristirsi. «Nel periodo in cui loro due si sono allontanati da casa, prima Ivan e poi Natalia, mi sono sempre sentita così sola con i miei rimorsi, così impotente davanti al loro cambiamento, così...» Si stringe nelle spalle. «Abbandonata. Avervi tutti qui ora è come una benedizione. E poi avete riportato a casa Natalia.» Mi rivolge un sorriso di gratitudine. Lo sguardo s’inumidisce come quando ci ha visti arrivare ed è corsa ad abbracciare Natalia, scoppiando in lacrime. «Non vi ringrazierò mai abbastanza per questo.»

Lascio scivolare le labbra dall’orlo del bicchiere, e il sapore del tè mi riempie la bocca, amaro come le parole che pronuncio. «Noi non ci fermeremo a lungo, lo sai. Solo fino a che...» Stringo le mani, le unghie stridono sul vetro già graffiato, e le parole tornano indietro. Solo fino a quando Ivan non tornerà, vorrei dirle. E poi il nostro futuro ricomincerà a essere una parete grigia e nebulosa in cui non riusciremo a distinguere le ombre e le immagini o la strada su cui posare i passi per poter andare avanti.

Katyusha sorride. «Se dipendesse da me, io vi terrei qui anche per sempre. La Siberia forse non sarà movimentata e avventurosa come Londra, ma è un ambiente un po’ più sicuro per voi, che dici?»

Mi stringo nelle spalle, tento di sorridere anch’io. «Sicuramente sì.» Sfilo una mano dal bicchiere di tè e strofino una manica della maglia, grattando sotto l’incavo del gomito, dove il prurito s’intensifica. Le cicatrici non sono scomparse, anche ora che sono pulito e che non tocco siringa da settimane. Senza eroina, però, un familiare senso di irrequietezza ha ripreso a tormentarmi, a sciamare nella testa, e a bruciare attraverso le gambe, lungo il collo e fra le mani, come se il sangue stesse andando a fuoco.

Ora che la mia vita non gira più attorno alla droga, non so cosa aspettarmi dal mio futuro, non so in quale direzione volgere lo sguardo, non so dove poggiare i piedi senza essere aggredito dalla sensazione di precipitare in un terreno molle e fangoso, nello stesso ambiente color pece che poco fa mi stava inghiottendo mentre pensavo al passato e alla parte di me che ho lasciato Londra. È per questo che nemmeno io riesco a dormire, è per questo che non riesco a staccare lo sguardo dalla finestra, perché l’unico pensiero che riesce a darmi un po’ di pace è la convinzione che Ivan sta tornando da noi. Capisco il dolore che sta attraversando Katyusha. Comprendo l’ansia di voler solo vederlo arrivare, quel timore di distaccare gli occhi dalla porta, di perdere l’occasione di vedere la sua figura materializzarsi sulla soglia, e quel terrore di abbassare le palpebre, di addormentarmi, sapendo che quando mi sveglierò potrebbe essere già giunta la notizia che Ivan ha deciso di non tornare in Unione Sovietica. Che ci ha abbandonati per scappare ad Amsterdam.

Un lento e profondo sospiro di Katyusha mi riporta con la mente nella cucina. «Sai, Toris, a volte mi chiedo...» Torna a sistemarsi lo scialle attorno alle spalle, strofina i polpastrelli sul vetro appannato del bicchiere pieno di tè solo a metà. Di nuovo quella profonda e addolorata espressione di tristezza torna ad attraversarle il volto. «Se lui abbia davvero intenzione di tornare a casa.»

Un brivido mi scuote. Quel timore aggredisce anche me, stringe il cuore e rende la faccia gelida, le labbra tremolanti. «Vorrà rivederti di sicuro.» Accosto la mano al tatuaggio, strofino la pelle. «E poi ha noi.» Ha me. «E di sicuro non vorrà abbandonarci.» Abbandonare me. «Non dopo tutto quello che ha fatto per salvarci da Londra.»

«Ma io temo di essere uscita dalla vita di Ivan tanto tempo fa, ormai. E con Natalia...» Katyusha sposta gli occhi sul soffitto, in cerca di quegli sguardi che sua sorella le nega sempre. «Temo che lei abbia accettato di tornare a casa solo perché ci siete anche voi, e perché è stato Ivan a ordinarglielo, altrimenti mi avrebbe abbandonata come ha fatto quando è partita per raggiungerlo a Londra.»

Giro anch’io lo sguardo verso la soglia della cucina da cui si intravede il corridoio, verso i primi gradini delle scale che portano ai piani superiori, dove anche Natalia sta dormendo assieme agli altri.

È da quando siamo arrivati che Natalia non ha mai rivolto la parola a Katyusha. Quando le passa affianco tiene lo sguardo schivo, le sbatte le porte in faccia, scende a pranzo e a cena quando noi abbiamo già lasciato la tavola, in modo da non dover mangiare assieme a sua sorella. Trascorre le giornate chiusa in camera, anche lei con lo sguardo fisso alla finestra, e non ha nemmeno finito di disfare le valige, come se si trattasse di dover ripartire da un giorno all’altro. Qualche volta, quando c’è poco sole e il cielo è carico di nuvole, esce da sola a passeggiare per il paese, ma vestendosi con gli abiti di Londra. La giacca di pelle, le camicette a quadri, le gonne a balze, le calze strappate, gli stivali col tacco, un nastro di raso fra i capelli, il trucco pesante attorno agli occhi, il rossetto nero sulle labbra, e lo smalto viola a laccarle le unghie. Percorre la sua strada ignorando le occhiatacce dei vicini di casa che la fissano come se provenisse da un altro pianeta. Nessuno l’ha riconosciuta quand’è tornata.

«Katyusha, se posso...» Allontano lo sguardo dalle scale, torno a rivolgerlo a Katyusha. «Se posso permettermi di chiedertelo...» Trascino la sedia più vicino al tavolo e abbasso la voce. Le pareti vuote della cucina danno l’idea di amplificare ogni suono, di spedire le mie parole fino al piano di sopra, fino alle sue orecchie. «Come mai Natalia è così arrabbiata nei tuoi confronti?»

Katyusha stringe le dita attorno al bicchiere, china la fronte e abbassa le palpebre. Un tremore le attraversa le labbra. «Perché lei mi considera in parte responsabile della fuga di Ivan, delle scelte che ha compiuto riguardo la sua vita, e di tutte le azioni che lo hanno portato sempre più lontano da noi, dalla nostra casa e dalla Siberia, spingendolo a cercare una nuova vita in un luogo così lontano e così...» Fa roteare lo sguardo. «Occidentale come Londra.»

«In che modo?» Proprio non riesco a immaginarne il motivo.

Sul viso di Katyusha si dipinge un conflitto nuovo, un dolore diverso che rimane celato negli occhi lucidi, in quello sguardo stanco volto a un passato rimasto racchiuso fra queste pareti per così tanti anni, come un segreto. «Tu hai...» Guarda anche lei verso le scale, solleva le sopracciglia, e torna a rivolgere gli occhi a me. La voce diventa un sussurro. «Voi avete conosciuto Yao, vero?»

Un pugno di dolore affonda nello stomaco, risucchia il sangue dal volto, annoda un groppo di nausea che ha lo stesso sapore amaro del tè appena bevuto. Sudori freddi bagnano gli abiti come durante i dolori della disintossicazione, un violento spasmo discende la schiena e si condensa nella pancia, dandomi il vomito. La pressione attorno alla gola stringe, mi toglie il respiro, il tatuaggio brucia, e le braccia cicatrizzate tremano, come se nelle vene fosse conficcata una fila di aghi che si sposta a ogni mio respiro.

Mi ritrovo catapultato fuori dalla porta dell’appartamento di Londra, l’orecchio premuto sull’anta e l’udito teso, dopo essere uscito con i documenti di spatrio che avevo fatto controllare a Ivan. Il ricordo della voce di Yao vibra come quel giorno, “Ivan, ti prego. Vieni ad Amsterdam con me”, e quella supplica rimbomba nella testa come una martellata.

Sciolgo i ricordi con un battito di palpebre. Inspiro a fondo e ricaccio indietro i sudori freddi, ma il dolore rimane ad annebbiare la mente. «Sì.» Prendo un’altra minuscola sorsata di tè per cancellare l’acido sapore della nausea dalla bocca. «È stato lui ad aiutarci quando si è trattato di... di salvarlo da quella brutta situazione.»

Katyusha annuisce. «E sai cosa Yao significava per Ivan, vero?»

«Sì.» Mi affaccio ancora a quel giorno. La mia mano stretta al pomello della porta che avevo aperto senza nemmeno preoccuparmi di bussare, l’altro braccio fasciato attorno ai documenti stretti al petto, e lo sguardo volato al centro della camera dove pensavo ci fosse solo Ivan. E invece lui era fra le braccia di Yao, raccolto fra le sue gambe che pendevano dal tavolo su cui era seduto. Gli sguardi catturati l’uno nell’altro, gli occhi di Ivan fissi su quelli di Yao, risucchiati in quell’espressione di adorazione, come se si fosse trovato in ginocchio davanti a una statua. Ivan non mi ha mai guardato in quella maniera. «Sì» mormoro ancora, sopprimendo un’altra fitta di dolore al petto. «So cosa significa per lui.»

Katyusha piega un gomito sull’orlo del tavolo, poggia il mento fra le nocche, contempla il vaso di mughetti attraverso il velo di fumo che sale dal suo bicchiere di tè, e gli occhi luccicano di nostalgia, nonostante il sorriso a regnare fra le sue labbra. «Loro due si sono conosciuti proprio qua, sapevi? Erano entrambi molto giovani. Ivan allora aveva appena compiuto diciassette anni, pensa un po’. Quando Yao è arrivato non dimostrava affatto la sua età, dava l’idea di essere molto più anziano. Era un caro ragazzo così ammodo, così rispettoso e adulto. Aveva aperto una deliziosa piccola bottega di manufatti orientali, spezie, incensi e tè, e anche dei tappeti. E so che coltivava anche dei papaveri. Incantevole, vero? Ma dovevano essere papaveri provenienti dalle sue parti, perché erano molto più grandi rispetto a quelli che crescono qui. Non ne avevo mai visti di così. Erano splendidi.» Sposta la sedia, si alza per raggiungere la stufa nell’angolo, e apre lo sportello sporco di cenere e carbone. Regge lo scialle attorno alle spalle e si china per disporre il mucchietto di bastoncini. «Qui in Siberia di solito non accogliamo bene gli stranieri come dovremmo, il rispetto è qualcosa che viene guadagnato e che non viene mai offerto incondizionatamente.» Bagna la legna con degli schizzi d’alcol spremuti dalla bottiglia di plastica che tiene accanto al cesto della legna, e raccoglie la scatola di fiammiferi lunghi. Ne estrae uno, lo strofina un paio di volte sulla striscia abrasiva della scatola. «Tutto ciò che proviene dall’Occidente è proibito, ma Yao si era trasferito da Hong Kong, parlava già benissimo il russo, e sembrava davvero molto abile nel cavarsela da solo. Era molto riservato e non dava mai fastidio a nessuno. Ha saputo fin da subito come farsi rispettare.» La fiamma insorge sulla punta del bastoncino. Katyusha la accosta al mucchio di legnetti e aspetta che la luce cresca, fino a che il fuoco non si espande e comincia a scoppiettare. Fa aria con un lembo del grembiule allacciato in vita, alimenta le fiamme e disperde il fumo che rimane intrappolato nella pancia della stufa. I suoi occhi restano fermi sulle fiamme sempre più vivaci, sulle scintille che scoppiettano fra i ramoscelli più verdi, e sul fumo sempre più grigio e spumoso. Volgono verso le nebbie del passato. «Fui io a portare Ivan e Natalia nella sua bottega, un giorno in cui eravamo usciti tutti e tre assieme per andare a vendere le marmellate al mercato.» Richiude lo sportello della stufa, solleva un cigolio trascinato e lo scatto secco della serratura. «Quando Yao e Ivan si conobbero fu...» Stringe la mano sulla presa del portello, le nocche callose sbiancano, il braccio trema, e Katyusha trattiene un sospiro. Chiude gli occhi. I tratti del suo viso irrigidiscono. «Capii subito che fra di loro si fosse acceso qualcosa di speciale.» Ripulisce le mani sporche di carbone sul grembiule. Riacquista quel sorriso triste che le inumidisce gli occhi. «Sai, quella piccola scintilla che ti illumina lo sguardo. Era una luce che non avevo mai visto negli occhi di Ivan. Mai. Era...» Anche sul suo viso si dipinge uno stupore lontano. La sua espressione non è mai stata così simile a quella dolce e sorpresa di Ivan. «Era incantato da Yao.»

Rivedo Ivan nello sguardo di sua sorella. Mi ritrovo di nuovo davanti a quell’espressione di adorazione che ho visto di sfuggita, prima che lui e Yao mi notassero e si staccassero, spezzando quell’abbraccio.

Katyusha raccoglie dal tavolo i nostri due bicchieri vuoti. Li sposta nell’acquaio. «Da noi...» Fa scorrere il getto d’acqua, lo richiude, e tiene la voce più bassa. «Da noi ovviamente è proibito questo genere di cose.» Prende un piattino vuoto, un coltello seghettato, e la ciotola di mele ancora piccole e verdi che ha comprato ieri al mercato, dato che quelle dell’orto non sono ancora mature. Comincia a sbucciarle. Il profumo acerbo di mela fresca si unisce a quello resinoso del fuoco appena acceso e a quello speziato del tè che abbiamo appena bevuto. «Io capii da sola cosa stava succedendo fra loro due, ma cercai in tutti i modi di convincermi del contrario, almeno all’inizio.» Scuote il capo. «Avevo il cuore spezzato, pensavo di essere io la responsabile di...» Smette di sbucciare la mela, le sue mani tremano, lo sguardo resta chino e nascosto nella penombra. «Di queste preferenze di Ivan.» Appoggia la mela sbucciata sul piatto pulito e prosegue il lavoro con le altre. Il suono ruvido del coltello che strofina sulla buccia scandisce la sua voce arrochita dal dolore. «Pensavo fosse una sorta di punizione per qualche azione che avevo commesso io, per non averlo cresciuto bene come avrei dovuto, per essere sempre stata troppo protettiva nei suoi confronti. E avevo paura soprattutto per la reazione che avrebbe mostrato la nostra comunità. Vieni escluso, completamente isolato come se avessi una malattia contagiosa, nessuno ti rivolge nemmeno più lo sguardo.» Si stringe nelle spalle e sospira. «Però poi mi resi conto che tutto quello che volevo era il suo bene.» Sbuccia anche la terza mela. «Così decisi di non fare nulla per impedire che si frequentassero di nascosto e che fra loro nascesse qualcosa di più rispetto... alla semplice amicizia. In ogni caso, anche se io gli avessi ordinato di tenersi lontano da Yao, Ivan non mi avrebbe di sicuro ascoltato. È fatto così, lui purtroppo non accetta ordini.» Ride a bassa voce, e le prime lacrime stillano dalle ciglia. Katyusha si asciuga gli occhi con la manica. «Gli è sempre piaciuta l’idea di essere l’unico padrone della sua vita. Poi Ivan è sempre stato...» Il sorriso cade. Di nuovo le labbra tremano, gli occhi tornano a inumidirsi e le mani rallentano gli scatti del coltello attorno alla mela sbucciata. «Un bambino molto solo. Mi piangeva il cuore nel vederlo sempre lontano dagli altri, sempre nel suo angolino, escluso da tutti. E nonostante questo riusciva sempre a sorridere e a mostrarsi felice, come gli avevo insegnato. Io...» Esita di nuovo, tiene le labbra socchiuse ma non riesce a terminare la frase. Deve appoggiare il coltello sul piattino, accanto alla mela mezza sbucciata, e tenersi aggrappata al ripiano per non cedere. «Io...» Un singhiozzo le rompe il fiato. Katyusha si copre il viso dietro le mani e spande un pianto lungo e amaro che strazia il cuore.

Vorrei aiutarla. Vorrei alzarmi e posarle una mano sulla schiena ricurva, convincerla che né Ivan né Natalia la odiano, che quello che è successo ai suoi fratelli non è colpa sua, che comprendo il senso di impotenza che si prova davanti alla volontà inflessibile di Ivan, e che so per primo cosa significa sentirsi piccoli e inadeguati davanti a lui, ma ho le gambe ingessate, le mani serrate sul tavolo da cui non riesco a staccarle, e la testa che ronza davanti a questa sua confessione.

Katyusha singhiozza ancora, strofina le dita fra le palpebre. «Io ho davvero cercato di essere una brava sorella.» Un altro singhiozzo, e la voce stride. «Sia con lui che con Natalia. E ho voluto esserlo anche se questo significava infrangere le nostre credenze e le nostre tradizioni. Ivan era felice con Yao.» Si posa la mano sul cuore e sospira. Il respiro rallenta, i singhiozzi si placano, ma qualche ultima lacrima scivola attraverso le guance arrossate. «E io non volevo distruggere la felicità che mio fratello era stato in grado di raggiungere dopo tutti quegli anni a soffrire nella sua solitudine. Per la prima volta in tutta la sua vita era realmente felice, e sarebbe stato ingiusto e crudele mettere le nostre tradizioni davanti alla sua felicità. Che razza di sorella sarei stata? Yao accettava Ivan com’era, con ogni suo difetto, a differenza di tutti gli altri bambini e ragazzi che ne erano sempre stati spaventati.» Estrae un piccolo fazzoletto dalla manica del maglione e si asciuga il viso. Si gira a fronteggiarmi tenendo il fazzoletto accostato alle labbra e la mano poggiata sul ripiano. «Perdonami.» Mi rivolge un tiepido sorriso di scuse. «Non dev’essere facile per te ascoltare tutto questo.»

Un fremito mi scuote. «Affatto» mento, ma dentro di me sento che Katyusha ha bisogno di parlarne con qualcuno e di svuotarsi l’anima da questo peso, dopo tutti gli anni di solitudine trascorsi con il rimorso di aver perso entrambi i fratelli. «Continua, ti prego.»

Katyusha annuisce, si asciuga un’ultima riga di lacrime e infila il fazzoletto nella tasca del grembiule. «Ivan a un certo punto iniziò ad assentarsi da casa sempre più spesso, e stava via anche per intere notti.» Poggia la schiena al ripiano della cucina e stringe le braccia al petto, dandosi una strofinata alle spalle. «A quel punto, anche io iniziai a domandarmi se non fosse il caso di fare qualcosa a riguardo, prima che si spingessero troppo oltre, prima che venissero a saperlo gli anziani. Così un giorno presi Ivan in disparte e gli chiesi: “Vanya, caro, c’è forse qualcosa che vorresti dirmi a proposito di Yao?”. E lui scosse la testa, mi sorrise come al solito e mi disse soltanto: “No, sorellona, assolutamente nulla. Non devi preoccuparti per lui”. Era sempre così. Ogni volta in cui provavo a chiedergli qualcosa, ogni volta in cui mi preoccupavo, per lui andava sempre tutto bene. Però quelle risposte mi addoloravano più del suo atteggiamento. Dentro di me non potevo fare a meno di vederle come un modo per tenermi distante, quasi volesse dirmi: “Non devi essere tu quella che si preoccupa per me. So badare a me stesso. Tu ormai non fai più parte della mia vita”. Forse se...» Scioglie la stretta delle mani dalle spalle e si guarda i palmi, quelle dita tremanti che non sono riuscite a trattenerlo. «Se lo avessi fermato in tempo.» Altre lacrime fioriscono fra le palpebre. «Se lo avessi davvero allontanato da Yao come avrei dovuto, ora lui non...» Si copre la bocca, inspira forte, ma non singhiozza e non piange. Resta forte e solida come questa casa che è rimasta in piedi per tutti questi anni, tenuta su solo dalla speranza di riaccogliere Ivan al suo interno.

So cosa prova Katyusha. So cosa significa soffrire per Ivan, per la paura di non essere abbastanza degno di far parte della sua vita. Io più di chiunque altro posso comprendere il suo dolore, e per questo mi sento in dovere di rassicurarla. «Non è stata colpa tua. È solo che...» Il mio tocco raggiunge inconsciamente il tatuaggio. «Che Ivan è fatto così. Lui non è fatto per vivere in una gabbia o sotto regole imposte da altri.»

Katyusha annuisce. «Lo so.» Si china a raccogliere un ceppo di legna più grossa, riapre la stufa, e lancia il ciocco fra le fiamme. «Io ho provato a essere una brava sorella.» Una cascata di scintille soffia dalle lingue di fuoco. «Dio solo sa quanto io ci abbia provato. E forse Natalia ha davvero ragione nel provare tutto questo risentimento nei miei confronti.» Katyusha richiude la stufa, torna a stringere le braccia al petto e si chiude nelle spalle. «Forse è davvero colpa mia se Ivan se n’è andato.»

Mi coglie un’altra botta di paura sorta da quelle parole. Il terrore che Katyusha possa avere ragione e che non rivedremo mai più Ivan, che ci ha abbandonati qua e che non ha mai avuto intenzione di far ritorno in Siberia. «Ma tornerà» mi affretto a dire, convincendo più me stesso che lei. «Sono...» Le mani strette sul tavolo tremano. La voce nella mia testa continua a ripetere che Ivan tornerà. «Sono sicuro che tornerà.»

Katyusha sposta una ciocca bionda dalla fronte, la sistema dietro l’orecchio, sotto la presa delle forcine, e i suoi occhi mi catturano. Mi guardano dentro, trascinandomi nelle misteriose profondità di questo cielo siberiano che mi risucchia, come erano capaci di fare anche quelli di Ivan. «Toris, dimmi...» Lei torna a sedersi al tavolo, di fronte a me, e stende un braccio per toccarmi la mano. «Ivan ha...» Chiude le dita, mi avvolge in una presa soffice e ancora tiepida delle sue lacrime. «Ha fatto qualcosa di simile anche a te, ho ragione, caro?» Mi guarda con quei suoi limpidi e sinceri occhi materni in cui potrei abbandonarmi e sentirmi lo stesso sicuro, come se la conoscessi da sempre. «Mh?»

Una scossa di comprensione si trasmette dalla sua mano alla mia. Mi lascia sbigottito. «Io...» Guardo in basso, nascondo la verità che si specchia sul mio viso. Sospiro, ma non mi sottraggo al tocco della sua mano. «Io forse mi sono sempre reso conto di non essere stato altro che un rimpiazzo per lui. Dopotutto...» Passo le dita fra i capelli, pettino le ciocche davanti al tatuaggio, come facevo per nascondermi anche a Londra, e forzo un sorriso consolatorio. «Io sono una persona così banale. Ivan sarebbe in grado di conquistare molto di più rispetto a me.»

Katyusha sorride con più naturalezza, scuote il capo. «Non mi sembra che Feliks ti consideri una persona banale.»

Al pensiero di Feliks, il cuore si alleggerisce, batte un palpito caldo che è come una carezza attraverso il petto. «Ma Feliks è speciale.» Ripenso al sollievo che ho provato solo qualche attimo fa stringendomi a lui fra le coperte, a come la sua presenza sia riuscita a cancellare quell’incubo nero in cui ho rischiato di affogare, alla pace che mi trasmette il suo profumo, alla sensazione delle mie dita fra i suoi capelli, e al suo respiro lento e assopito accanto all’orecchio. Una spolverata di rosso tinge il pallore delle mie guance. «È speciale per me.»

«Questo non l’ho mai messo in dubbio, dalla prima volta in cui vi ho visti.» La tiepida mano di Katyusha resta ad avvolgere la mia, le dita carezzano gli spazi fra le nocche. «Toris.» Lei tiene la voce bassa. La stufa all’angolo scricchiola, il tepore si diffonde fra le pareti della cucina assieme al profumo di legna resinosa e di bucce di mela. «Posso permetterti di darti un consiglio?»

Esito, sollevo un sopracciglio. «Certo.»

Katyusha sovrappone anche l’altra mano, mi trattiene in un guscio di calore. Solleva il mio pugno dal tavolo e accosta le labbra alle mie nocche. «Fuggi via.»

Una stilettata mi trafigge il cuore. Mi lascia attonito davanti a queste parole.

«Prendi Feliks, prendi Eduard e anche Raivis» continua Katyusha, «e fuggite tutti da qui. Tornate nei vostri paesi, o andate fuori dall’Unione, andate in Polonia, dove è più sicuro e dove nemmeno Ivan saprà trovarvi quando tornerà.»

Le parole di Katyusha sono sincere, il suo dolore è reale, il soffio del suo respiro sulla pelle è tiepido e confortante, ma quel consiglio mi scivola addosso come una carezza, senza lasciare alcun segno. Ho ancora il collare allacciato alla gola, il guinzaglio che mi trattiene, il tatuaggio che brucia e che mi spinge a rimanere legato a colui che me lo ha impresso sulla pelle. «Io...» Sfilo la mano da quelle di Katyusha e scuoto il capo, i capelli oscillano sopra le spalle. «Non posso. Ivan forse mi ha tenuto intrappolato nella dipendenza per molti anni, ma è stato lui a salvarmi la vita quando non avevo nessuno, e quando mi sono trovato in pericolo.» Prima mi ha raccolto dalla strada, mi ha dato una casa quando non ne avevo una, poi mi ha salvato dal rapimento, e anche adesso mi ha fatto fuggire da Londra pur di non farmi catturare da Scotland Yard assieme agli altri. «Non posso abbandonarlo, perché anche se so di non significare nulla per lui, non posso dire che lui non significhi nulla per me, sarei un bugiardo. E anche se io so...»

Ritorno con l’orecchio attaccato alla porta, dopo essere uscito dalla stanza lasciando soli lui e Yao. L’udito teso verso quello che hanno continuato a dirsi credendomi lontano. Torna la voce ovattata di Ivan, la sua giustificazione del nostro rapporto davanti alla gelosia di Yao. “Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.”

Quelle parole che mi hanno spezzato il cuore, che mi hanno sbattuto in faccia il modo in cui Ivan mi ha sempre guardato, nonostante le mie speranze di significare qualcosa per lui, continuano a torturarmi da quel giorno, a echeggiare nella testa come il ricordo di un incubo. Mi sembra di essere di nuovo scivolato sul pavimento, il viso ancora attaccato alla porta da cui avevo origliato, a trattenere le lacrime e a soffocare nel dolore che mi era piovuto addosso come una secchiata di cubetti di ghiaccio.

“Tutto quello con cui mi sono consolato è sempre stato solo per riempire il vuoto che mi hai lasciato dentro quando te ne sei andato” ripete ancora il ricordo di Ivan. “Non è mai stato per tradirti o perché ti avevo dimenticato.” La sua voce era cambiata. Aveva assunto quel tono straziante e addolorato che non avevo mai udito dalla sua bocca. Il tono disperato di chi crede di aver perso tutto. “Io amo solo te, Yao. Perché so che tu sei l’unico che mi ama davvero per ciò che sono.”

Eppure anche io l’ho sempre...

Scuoto il capo, mi poso la mano sul petto. «Io so di essere stato solo una sorta di contenitore vuoto da poter riempire con il ricordo di Yao. Ma se abbandonassi Ivan, allora mi pentirei per il resto della mia vita di averlo fatto. E non voglio questo.» Rabbrividisco al solo pensiero di trovarmi di nuovo abbandonato. «Non voglio convivere con il peso di avergli voltato le spalle.»

Katyusha sospira, batte le palpebre davanti agli occhi carichi di comprensione, ma sul suo viso rimane quella triste ombra d’impotenza di chi sa di non essere in grado di farmi cambiare idea. «Sei un ragazzo coraggioso, Toris. Prego solo...» Si rialza dal tavolo, raccoglie il vaso di mughetti per cambiare l’acqua diventata opaca e giallognola, e mi guarda da dietro la nuvola di fiori candidi come il suo sorriso. Un sorriso dolce come questi fiori primaverili sbocciati in anticipo. «Che un giorno tu riesca a trovare la felicità che meriti.»

Quella frase mi spinge di nuovo ad annegare nel dubbio, mi lascia la bocca impastata in un senso di amarezza, e getta un’ombra di colpevolezza sul mio sguardo perché, in tutto questo, non riesco a fare a meno di chiedermi se merito davvero la felicità che sto cercando.

 

.

 

Feliks e Raivis stanno ancora dormendo, ma poco fa ho sentito i passi di Eduard scendere le scale della soffitta, passare davanti alla nostra porta, e dirigersi verso il bagno in fondo al corridoio. Lo incrocio quando anch’io esco dalla camera da letto.

Eduard trascina i piedi felpati dai calzini, si copre la bocca per sopprimere uno sbadiglio, infila una nocca sotto una lente degli occhiali e si stropiccia la palpebra ancora rossa e appesantita dal sonno. È già vestito ma non ha arrotolato le maniche troppo lunghe del maglione, i bottoni del colletto sono slacciati e le ciocche di capelli cadono in disordine sulla fronte ancora umida dopo essersi sciacquato la faccia. Eduard sfila la nocca da sotto la lente, aggiusta la stanghetta degli occhiali dietro l’orecchio, apre la mano e sventola un saluto moscio e insonnolito nella mia direzione. «‘Giorno.»

Ricambio il saluto senza fatica, «‘Giorno», perché io sono già sveglio dall’alba, ma è insolito anche per lui essersi alzato così presto. Sono appena le sei. Percorriamo assieme il corridoio verso le scale che scendono al piano di sotto, ci lasciamo catturare e ammaliare dal dolce e tiepido profumo che giunge dalla cucina. Un profumo succulento che sa di colazione, di tè nero, di pane di segale imburrato, di uova al tegamino e di zuppa di semola dolce. «Come mai sveglio a quest’ora?» gli domando.

Eduard si passa una mano fra i capelli, dà un’altra stropicciata al viso rosso di sonno, e indica fuori. «Ho sentito arrivare il postino. I cani del vicino hanno iniziato a fare un gran chiasso, e non sono più riuscito ad addormentarmi.» Stiracchia le braccia sopra la testa e sospira con un mugugno. Arriccia il naso, tasta anche lui il profumo che sale dalla cucina, e sul suo viso si dipinge un sorriso sognante. «Speriamo che sia già pronta la colazione.»

Sorrido, lasciandomi contagiare e solleticare da un piacevole brontolio di stomaco che fa salire l’acquolina anche a me. È bello vedere Eduard sereno. Non pensavo che per lui sarebbe stato facile abituarsi alla vita lontano da Londra. Anche lui ha guadagnato un po’ di colorito sul viso, le guance appaiono più lisce e tondeggianti, e ha uno sguardo più luminoso. Forse questa fuga ha fatto davvero bene a tutti noi. «Hai fame?»

Eduard annuisce e torna a rilassare le braccia. «Un po’.» Imbocchiamo le scale. L’espressione di Eduard torna sognante e sorridente, come se avesse già un bicchiere di tè a fumare sotto il naso e una fetta di pane e burro fra le labbra. «Katyusha ci sta decisamente viziando troppo, devo stare attento a non farci l’abitudine. Quel piatto dell’altro ieri, ti ricordi? Era squisito, forse si chiamava...»

«E lo sai perché?» Il grido di Natalia precipita fra noi come un fulmine dal cielo. «Perché se avessi fatto sul serio qualcosa invece che passare la tua vita a piangere e a startene rintanata in questo buco di merda allora non sarebbe mai successo!»

Arresto il passo, il piede resta pietrificato a mezz’aria, sopra il gradino, e anche Eduard compie un rimbalzo di spalle per fermarsi di colpo. Raggeliamo entrambi.

I singhiozzi di Katyusha risalgono le scale assieme al suo pianto strozzato. «Natalia, non dire così.» Altri singhiozzi disperati la scuotono, s’ingoiano la sua voce. «Io...» Le sue parole annacquate dal pianto sfumano in un russo incomprensibile.

Eduard mi lancia un’occhiata scossa, snudata dalla maschera di sonno. Le sue guance sbiancano, gli occhi vacillano dietro le lenti, e un fremito gli attraversa le spalle. «Cosa succede?»

Schiudo le labbra, sto per rispondergli, ma la voce di Natalia grida sui miei pensieri vorticanti.

«Se avessi capito subito quello di cui avevamo bisogno io e lui allora non ce ne saremmo andati da qui, non avremmo mai sentito il bisogno di scappare!» Rumore di una sedia che sbatte sull’orlo del tavolo, di carta stropicciata. «È colpa tua e delle tue paure del cazzo che ci hanno fatto diventare marci come te!»

Una scossa di panico mi fulmina, ghiaccia il sangue e arresta il battito del cuore. Non ho mai sentito Natalia così arrabbiata, non è mai stata aggressiva come adesso. Cosa sta succedendo?

Raccolgo la mano di Eduard e lo guido attraverso gli ultimi gradini che ci separano dal piano terreno. «Vieni.» Corriamo giù e il brutto presentimento si avvicina in una vampata di gelo. È come andare incontro a nuvoloni plumbei di temporale, carichi di pioggia e di fulmini, di elettricità statica che pizzica sotto il naso e che fa salire la pelle d’oca.

Dall’ambiente della cucina, Natalia continua a strillare sopra il pianto di Katyusha. «E non osare metterti a fare la vittima! Tu non meriti nemmeno un briciolo della mia compassione, non meriti la pietà di nessuno, non meriti nulla!»

Katyusha singhiozza ancora. «Ma Natalia, anch’io ho perso mio fratello.» La sua voce è un lamento straziante. «L’ho perso anch’io e non solo tu.»

«No, tu l’avevi già perso da anni!» strilla Natalia. «Da quando lui se n’è andato da qui e tu non sei stata in grado di fermarlo! Sono stata io quello che ha provato fino all’ultimo a riportarlo a casa, e non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno se tu gli avessi impedito di andarsene!»

«N-Natalia...»

«Ho fatto io il tuo cazzo di lavoro per tutto questo tempo!» Un altro colpo secco sul legno, come un calcio dato a un mobile. «È colpa tua perché non sei mai stata in grado di occuparti né di me né di lui, fallita del cazzo!»

«Ti prego» la supplica Katyusha. «Non farmi...» E il pianto prosegue, atroce come se le stesse risucchiando l’anima dal petto.

Io ed Eduard ci precipitiamo in cucina. Eduard raggiunge per primo la soglia, si aggrappa allo stipite della porta per frenare la corsa e io finisco per urtargli il braccio, appendendomi alla sua spalla. Eduard boccheggia per la corsa, e il suo corpo freme contro di me. «Cosa...»

Natalia si gira di scatto. Una ciocca di capelli le vola sul viso, s’incolla alla guancia inondata dalle lacrime che sgorgano senza controllo dagli occhi arrossati e ristretti sotto la ruga delle sopracciglia contratte. Lo sguardo fiammeggia di rabbia, i pugni serrati sui fianchi tremano, i respiri accelerati le scuotono le spalle, le labbra lucide di pianto traballano sotto la pressione del suo fiato corto. Davanti a lei, appoggiata al ripiano della cucina, anche Katyusha sta piangendo, china, una mano a coprirle il viso e l’altra aperta sul petto, a stringere una lettera stropicciata. Sul tavolo giace una busta strappata, tappezzata di francobolli e timbri, e bordata dalle liste rosse e blu della posta aerea.

Eduard sgrana le palpebre, trae un ansimo, e il suo braccio ha uno spasmo sotto la mia stretta. «Cosa è successo? Vi abbiamo sentite e...»

Natalia si copre la faccia con un braccio, stringe i denti in un ringhio, e scappa via. Mi vola affianco urtandomi la spalla, imbocca le scale e sparisce al piano di sopra.

Tendo una mano ma non riesco a raggiungerla in tempo. «Natalia!»

Eduard compie un passo intimidito verso il centro della cucina. «Katyusha. Cos’è successo?»

Katyusha stringe la mano sul cuore, sulla pagina che tiene accostata al petto, e piange ancora, senza sosta. Un’unica parola scivola fra i singhiozzi, come una preghiera. «Ivan...» Si aggrappa al ripiano, piega i gomiti, respira più forte e le parole s’incastrano fra gli spasmi del pianto. «Ivan è...» Crolla in ginocchio sul pavimento, si copre il viso, continua a piangere e a singhiozzare, e la lettera le sfugge dalle mani.

Eduard accorre. «Katyusha!» S’inginocchia anche lui per soccorrerla, le regge le spalle. «Cosa c’è?»

Il foglio cade sulle piastrelle, aperto, e si adagia sotto il fascio di luce del lampadario. In alto, stampato prima del muro di scritte, spicca il timbro ovale dell’Ambasciata Britannica, il leone e l’unicorno impennati che sorreggono lo stemma sormontato dalla corona reale.

Una lettera da Londra.

Il panico sorge in un’ondata di ghiaccio, risale dai piedi, percorre le gambe come una saetta elettrica, affonda nello stomaco e stritola il cuore in una morsa soffocante. Cala il buio, le pareti si tingono di nero, il pianto di Katyusha si trasforma in un ronzio soffuso, un rumore bianco dove riecheggiano le sue ultime parole. “Ivan è...”. La rivedo crollare in ginocchio sul pavimento, nascondersi dietro le mani, Natalia in lacrime che scappa dopo averle urlato contro. La stessa sensazione di malessere che mi ha colto quando io ed Eduard stavamo scendendo le scale torna a torcermi la pancia, a farmi tremare le gambe.

Arretro di un passo senza staccare gli occhi dalla lettera caduta, sbatto le spalle al muro, affondo le dita fra i capelli e tengo ferma la testa, sperando di bloccare i pensieri e le immagini che trottolano, prima che la nausea mi uccida. Il cuore accelera, martella fino alle tempie. Il respiro soffia più rapido fra le labbra socchiuse. Le pareti vorticano, il pavimento mi risucchia, le gambe cedono, e cado anch’io come Katyusha. Mi copro la bocca, trattengo il fiato e annego lo stesso, finisco inghiottito nell’incubo che mi perseguita da quando ho lasciato Londra, in quel lago di pece dal quale non sono mai riuscito a riemergere.

Ivan è morto.

 

.

 

Rimango impalato sulla soglia della soffitta, traggo un sospiro che mi fa cadere il cuore nello stomaco, e sgrano lo sguardo davanti alla rivelazione di Eduard, incredulo. «Vai via?»

Eduard raccoglie la valigia accanto al vecchio guardaroba e si passa una mano fra i capelli, li allontana dal viso impallidito, ancora affannato dopo aver fatto le scale di corsa. «Già.» Getta la valigia sul letto e la spalanca. «E al più presto, anche. Ho già spiegato tutta la situazione a Raivis e...» Vola all’armadio, apre le ante, si aggrappa con entrambe le mani alle due ali di legno e irrigidisce. Lo sguardo annebbiato di confusione vaga nel vuoto, fermo fra gli abiti che lo occupano solo da poche settimane. Eduard inspira, aggiusta gli occhiali alla radice del naso, e mi scocca un’occhiata da sopra la spalla. «E anche lui ha già accettato di seguirmi.»

«E-Eduard, aspetta...» Compio un passo tremolante per raggiungerlo, ma le dita stringono sul corrimano, le unghie artigliano il legno e la paura di precipitare mi blocca. Le gambe tremano ancora, molli come gomma. Ho paura di cadere di nuovo, di finire in lacrime come Katyusha e di non riuscire più a rialzarmi. «Capisco che ora che i Siberian Cubs non esistono più noi siamo...» Liberi? Non riesco ancora a crederci, non riesco ancora a dirlo, non riesco a orientarmi in questa vertiginosa sensazione di smarrimento. Quella parola mi dà la nausea, proprio come mi faceva stare male il pensiero di voltare le spalle a Ivan. Mi tocco il collo, dove il collare sciolto ha lasciato la sua impronta bruciante. «Sì, ora noi siamo...» Inspiro. «Abbiamo la possibilità di andarcene. Ma Katyusha ha bisogno di noi, e dopo tutto quello che le abbiamo fatto passare da quando siamo arrivati, mi sembrerebbe di...»

«Toris.» Eduard lascia cadere tre camicie in valigia e si ferma. Stringe i pugni ai lati del bagaglio, tenendo il capo chino, e si gira a rivolgermi lo sguardo. I suoi occhi trasudano terrore. «Natalia andrà a Berlino Est.»

Compio uno scatto, le unghie graffiano il legno del corrimano, le labbra ricadono socchiuse. «C-cosa?» boccheggio. «A Berlino Est? Ma...» Forzo le dita a scollarsi dalla sbarra di legno che risale le scale della soffitta, compio un passo in avanti, le ginocchia ballano ma mi sostengono. Riesco a raddrizzare la schiena e a tenere lo sguardo fermo su quello di Eduard, anche se annebbiato di confusione. «Ma perché?» Fra tutti i luoghi che poteva scegliere, anche qui in Unione Sovietica, proprio a Berlino Est? E io che per un attimo ho davvero creduto che sarebbe tornata a Londra per vendicare Ivan.

«Me l’ha detto lei prima» conferma Eduard, «forse per mettermi in guardia. Io non...» Si stringe nelle spalle, si strofina le braccia e tiene lo sguardo basso, di nuovo tremante di paura. «Capisci che io devo per forza tornare a nascondermi, in queste condizioni. Non mi fido di lei e, conoscendola, sarebbe capace di vendermi alla Stasi, o potrebbe essere interrogata per qualsiasi motivo e potrebbero costringerla a confessare dove mi trovo, potrebbe rivelare tutto quello che ho fatto, tutti i miei contatti, e noi siamo pur sempre disertori dell’Unione Sovietica, abbiamo vissuto illegalmente in Occidente, e...» Ammutolisce, riprende fiato, abbassa le palpebre, torna a far correre le dita fra i capelli, strofina la nuca con gesti rapidi e nervosi. «Perdonami» Scuote il capo. «Ma non voglio trascorrere il resto dei miei giorni in una prigione della Germania Est.» La mano risale il collo, si sofferma sul tatuaggio e lo prende a unghiate. Un gesto così insolito da parte sua, ma non ho mai visto gli occhi di Eduard così stanchi e la sua espressione così grigia. «Ne ho avuto abbastanza di prigioni.»

Un senso di accettazione mi avvolge. Un abbraccio freddo che scava nel petto, lasciandomi un vuoto dentro. Non avrei mai voluto che questa storia ci separasse, ma capisco quello che Eduard sta provando, comprendo il pericolo che rischia di travolgerlo e di intrappolarlo di nuovo, e non riesco a fargliene un torto. «Ho capito.» E ora mi sento in colpa per non averlo compreso subito, per aver cercato di fermarlo solo per assecondare una mia paura. «Ma dove andrai, allora? Tornerai in Estonia?»

«Oh, no.» Eduard sventola una mano, allontana quell’ipotesi, e torna al guardaroba. «Sarebbe troppo facile scovarmi, e io sarei troppo rintracciabile. Avevo anche pensato di ritornare a Londra, ma...» Raccoglie i maglioni dal fondo dell’armadio, vicino alle scatole di scarpe. «Credo che Scotland Yard non abbia ancora chiuso le ricerche su di noi, ed è troppo pericoloso. Poi Londra...» Sistema gli abiti in valigia, li spreme sul fondo, e scuote le spalle. «Troppi ricordi che voglio dimenticare, temo.»

Sollevo un sopracciglio, continuando a non capire. «Ma allora come farai?»

Eduard guadagna un respiro profondo. «C’è...» Si strofina le braccia, sposta lo sguardo alla finestra triangolare incastrata sotto il tetto da dove penetra il limpido sole del pomeriggio. Il colore dei suoi occhi sfuma in una tinta più chiara, simile a quella del cielo. «C’è un amico – un mio vecchio amico, sì – che può nascondermi in Finlandia. Lui ora vive a Copenhagen, ed è meglio così, perché non voglio metterlo in pericolo, ma può comunque aiutarmi. Ha una vecchia casa proprio a confine con l’Unione Sovietica, poco più su di Leningrado, dove di solito va a trascorrere solo le vacanze. Io e Raivis andremo a stare là per un po’.» Fa roteare lo sguardo, arriccia un angolo della bocca per sopprimere un sorriso amaro. «Per lo meno fino a che le acque non si saranno calmate sul Caso Braginski

«Oh.» Provo comunque un dolore al petto al pensiero di dovermi separare da lui e da Raivis. Dopo tutti questi anni trascorsi assieme...

«Toris.» Eduard mi raggiunge, raccoglie una mia mano, la stringe fra le sue. «Vieni con noi.» I suoi occhi mi implorano da dietro le lenti, mi rivolgono uno sguardo carico di speranza. «E anche Feliks. Andiamo via assieme. Noi quattro staremo bene, fidati. Avremo la possibilità di cominciare una nuova vita, di stare meglio, poi ora che tu non sei più...» Eduard si morde il labbro inferiore, si rimangia le parole, «Ehm...», e il suo sguardo cade inconsciamente sul mio braccio.

Sfilo il tocco dal suo e nascondo il braccio dietro la schiena, come se lui fosse in grado di guardare sotto la manica della maglia, dove si celano i segni delle mie vergogne.

Eduard arretra di un passo ma non demorde. «Questa è un’opportunità immensa, capisci? Non possiamo lasciarcela sfuggire così. È il destino che finalmente ci sta venendo incontro.»

Un brivido mi percorre, mi fa di nuovo sentire in bilico su un terreno cedevole, senza più l’appiglio di Ivan a potermi sostenere. «I-io...» Scuoto il capo con vigore. «Non posso. Io non credo...» Mi giro, mi strofino le braccia fino alle spalle, racchiudendomi nel mio guscio di dolore. «Io non credo di meritarmi un’occasione per ricominciare. Mi sembrerebbe di voltare le spalle a Ivan, e non potrei mai vivere serenamente con questo peso addosso.»

Eduard stringe i pugni sui fianchi, sospira, sconfortato, e mi rivolge uno sguardo avvilito come la sua voce. «Lui non ha mai voluto il nostro bene. Lo sai questo, vero?» Torna accanto al letto dove la valigia è ancora aperta. Sistema la manica di una camicia scivolata fuori dal bordo. «Se ti avesse amato come speravi, o come ti faceva credere, allora non ti avrebbe mai permesso di entrare nei Siberian Cubs. Non ti avrebbe mai permesso di continuare a farti del male in quella maniera. Ti avrebbe messo al sicuro, anche se avrebbe significato separarsi da te.»

«La tossicodipendenza è dipesa solo da me, non da lui» ribatto. «Ivan non mi ha mai costretto a fare nulla.»

«Ma tu non gli devi niente, Toris, e non devi...» La voce di Eduard assume una sfumatura d’incredulità. «Non devi punirti, se è quello che stai cercando di fare. Non è giusto e non te lo meriti, credimi. Hai già sofferto abbastanza.» Torna ad avvicinarsi a me. «Tu non gli stai voltando le spalle, ti stai...» Stringe di nuovo una mia mano e la trattiene, come per guidarmi verso la strada giusta. «Ti stai semplicemente riprendendo la vita che lui aveva rubato a tutti noi, no?»

Lo sguardo di Eduard è sincero, mi trasmette tutta la volontà di aiutarmi che a me è sempre mancata, come ha tentato di fare Katyusha, invitandomi a fuggire dalla Siberia. Io però ho già deciso. Ho già scelto la mia seconda condanna, perché non ho mai smesso di essere un Siberian Cub. Non ho mai smesso di essere prigioniero di me stesso. «Ivan non ci ha mai rubato nulla.» Sfilo la mano da quella di Eduard. «Siamo sempre stati noi a decidere di farci togliere tutto.» Compio un passo indietro, chino il capo, senza il coraggio di dirglielo guardandolo negli occhi. «Mi dispiace, Eduard.» Gli do le spalle e imbocco le scale per andare a parlare con qualcun altro. «Saluta Raivis da parte mia, quando partirete.» Percepisco di sbieco lo sguardo incredulo di Eduard, quel piccolo guizzo che ha la sua mano, le dita che si tendono verso di me e che si ritraggono, capendo che ormai è troppo tardi per trattenermi. Non so cos’altro fare, non so cos’altro dire per consolarlo, per fargli capire che non è colpa sua. «Mi dispiace tanto.» Esco dalla soffitta. Esco dalla sua vita.

 

.

 

«Tu?» Natalia sbatte un’altra gonna in valigia, si strofina la mano sulla guancia ancora umida del pianto che ha versato prima, e mi trapassa con uno sguardo che riesce a essere truce come al solito, nonostante gli occhi ancora rossi di lacrime. Sposta una ciocca di capelli incollata al viso, mi percorre da capo a piedi con occhi inquisitori, e aggrotta un sopracciglio, scrutandomi con quell’espressione di scherno e compassione, ancora però incrinata dalla rabbia che ha scaricato contro sua sorella. «A Berlino con me?»

«Sì» confermo. «E ci andrò comunque, anche se...» Inspiro, stringo i pugni ai fianchi, tengo il viso alto, mi carico di coraggio. «Anche se tu non fossi d’accordo.»

Natalia stringe le labbra, singhiozza una risata acida, e scuote il capo. Torna a pettinare i capelli che le sono scivolati sul viso, li sposta dietro l’orecchio, sotto l’abbraccio del nastro di raso. «Non hai le palle per vivere in un ambiente come quello.» Attraversa la camera, spalanca uno dei cassetti della credenza, e raccoglie delle calze bianche, un altro paio nere e un altro color carne. «Che cazzo ne sapete voi di come si vive in Unione Sovietica, se avete passato più tempo a Londra che qua.»

«Anche tu sei scappata a Londra.»

«Io non sono scappata!» Natalia stringe le dita sul bordo del cassetto, affonda le unghie da cui ha grattato via lo smalto, fa scricchiolare la vernice, e fra le sue labbra ricompare quel ringhio di rabbia che ha già mostrato prima, durante la sfuriata con Katyusha. «Lui è scappato, lui lo ha fatto, e io ho solo cercato di proteggerlo.» Sbatte il cassetto – slam! –, e l’intera parete trema sotto quel colpo. Natalia lancia le calze in valigia, spremendole fra gli abiti che ha già ripiegato. «E mi sono addossata quel cazzo di lavoro che quella cretina di mia sorella non è riuscita a fare. Lei...» Tiene una mano aperta sulla valigia, china le spalle, e riprende fiato con un lungo e profondo sospiro che le fa tremare la schiena inarcata. «Lei non è stata in grado di fermarlo» dice con tono più basso, «di tenerlo al sicuro qua a casa, di proteggerlo, e ora...» Vacilla. Le mani stringono la valigia e sbiancano. I capelli ricadono sulla sua espressione corrugata. «E ora è colpa di quella deficiente se lui...» Esita, si morde la bocca, gli occhi si caricano di un dolore liquido che non le ho mai visto addosso. «Se lui...» Raddrizza le spalle, inspira a fondo, e si asciuga di nuovo il viso con un forte strofinio della manica. Anche lei sta cercando di essere forte. Dà la colpa di tutto a Katyusha, ma so che è lei quella che si sente responsabile per la morte di Ivan. Nemmeno scappando a sua volta dalla Siberia e standogli affianco in Inghilterra è riuscita a riportare suo fratello a casa, a salvarlo dal mondo che alla fine lo ha ucciso.

«Berlino non è l’Unione Sovietica, Natalia.»

Natalia sbuffa. «E tantomeno lo era Londra, se è per questo.» Getta il braccio lontano dal viso e torna al guardaroba. Stacca la sua giacca di pelle dall’appendiabiti, quella che indossava a Londra, la rigira, schiocca la lingua increspando un’altra dura occhiata di disprezzo, e la ributta dentro, sul fondo dell’armadio. La lascia lì. «Sporco buco di sudici capitalisti dal cervello marcio. Crepassero tutti nella merda dove sguazzano.» Si alza sulle punte dei piedi, tende le braccia per raggiungere gli scomparti più alti dell’armadio, e raccoglie le gonne, i maglioni e le camicette che indossava qua in Unione Sovietica. Abiti grigi e anonimi, senza borchie, senza strass, senza catenelle, senza strappi e senza colori. «Perché non te ne torni là invece di seguirmi e starmi fra le palle?»

Scuoto il capo. «Non posso tornare a Londra» mi affretto a rispondere. «Non posso tornare in Occidente. Se ricominciassi a vivere in Inghilterra...» Il bruciore alle braccia insorge come una scia di fuoco. L’ondata nera riemerge, si abbatte su di me e mi cattura nel suo abbraccio viscido, dentro a incubi di siringhe lucenti, di auto che accostano il marciapiede e che aprono lo sportello per farti salire, di una bolla di nebbia costantemente chiusa attorno alla testa. Al pensiero di dover di nuovo calpestare quelle strade e di dover respirare quell’aria di fumo e pioggia stagna, un altro conato di nausea brucia attraverso lo stomaco, mi rende le guance ghiacciate e la testa pesante, dandomi l’impressione di soffocare. «Allora ricomincerebbe tutto da capo.» Apro e strizzo i pugni. Il dolore delle unghie che affondano nei palmi mi riporta alla realtà. «E non voglio questo.» Graffio più volte il tatuaggio. «Troppe persone si sono sacrificate e hanno sofferto per me, non voglio che i loro sforzi siano stati inutili.»

«Portati dietro il tuo sgorbio, no?» Natalia raggiunge la credenza accanto al guardaroba, si affaccia allo specchio, stacca gli orecchini neri dai lobi, li sbatte nel portagioie, e si slaccia il girocollo con cui teneva coperto il tatuaggio. Fruga fra i gioielli, solleva un suono squillante e argentino, scava fino al fondo, guarda fra le scintille, ma richiude la scatola e la lascia lì senza raccogliere niente. «Andatevene in Polonia.»

«No.» Mi allontano subito da quell’idea, prima di avere la possibilità di pensarci due volte. «Feliks non si merita questo. Feliks merita una vita serena, una vita felice, e io sento di non potergliela dare.»

Natalia mi guarda di traverso. Occhi rossi ma meno aggressivi che mi scrutano attraverso una nera espressione di compassione. «Sei proprio un patetico smidollato.»

Lo so.

Natalia rimane in piedi davanti allo specchio. Raccoglie la spazzola, pettina i capelli biondi, li liscia lungo la schiena, e aggiusta il fiocco del nastro esaminando la sua immagine riflessa. «Non sei stato in grado di salvare niente di quello che eri riuscito a guadagnarti nella tua vita. Né mio fratello, né Feliks.» Scuote il capo. «E nemmeno te stesso.»

Ricambio la sua occhiata dura, senza il timore di tenere il viso alto. «Nemmeno tu sei stata in grado di salvare Ivan.»

Natalia ferma i colpi di spazzola, schiaccia la mano attorno al manico di legno e china il capo fra le spalle. Le ciocche tornano a scivolarle sul viso, celano il tremore che le ha di nuovo contratto la fronte, cadono sulle labbra morsicate dalle punte degli incisivi. Natalia lascia la spazzola, mi raggiunge a passo pesante, mi si pianta davanti e mi guarda dritto negli occhi. È la prima volta in cui ho l’impressione di essere sul suo stesso livello. «Fai quel cazzo che ti pare della tua patetica vita», aggrotta la fronte, «ma non osare interferire con la mia.» Afferra la maniglia della porta. «Io parto questa notte.» E me la sbatte in faccia.

Sospiro, lascio cadere il capo fra le spalle e sfioro con la fronte il mio riflesso specchiato sul legno lucido. Ora resta solo un’ultima persona a cui dire addio. E sarà la decisione più difficile della mia vita.

 

.

 

Feliks si aggrappa alle mie spalle, sale sulle punte dei piedi, e si avvicina col suo sguardo supplicante. «Portami con te.» Gli occhi luccicano e mi implorano, una prima botta di sconforto mi coglie davanti alla sua preghiera. Sapevo che sarebbe andata a finire così, ma devo essere forte.

Sospiro. «Feliks, ascoltami. Noi...» Gli poso anch’io le mani sulle spalle. Stringo le dita per non far vacillare il tocco. «Io...» Scivolo di un passo all’indietro e lo guardo dritto negli occhi. «Questo non è comunque un addio, te lo prometto.»

Feliks corruga un broncio da offeso, i fili di capelli scivolati sul viso attraversano la fronte aggrottata e le guance già rosse di rabbia. «Lo so che non lo è.» Sfila le spalle dalle mie mani e schiaccia i pugni sui fianchi. «Non lo è proprio per niente, perché anche io voglio venire a Berlino, non voglio stare lontano da te.»

«E nemmeno io voglio separarmi da te, ma...»

«E allora perché lo fai?» esclama Feliks. «Perché mi vuoi abbandonare? Ora che...» Sussulta, si rimangia le parole, distende la tensione dei pugni, e abbassa la voce. «Ora che noi possiamo stare insieme, tu te ne vai e mi lasci da solo. E non è giusto, non lo è proprio per niente.»

«Io devo andarmene perché non potrei mai vivere felice con questo peso. E non voglio che la mia infelicità faccia del male anche a te.»

«Ma...» Feliks getta lo sguardo al pavimento. Strizza le dita sulla maglia, ne stropiccia l’orlo, si morde il labbro, trattiene un sospiro, e la voce cede. «Ma io...» Scuote il capo e tiene le palpebre strette, forse per non piangere. «Tu mi hai sempre detto che io ero l’unico che ti faceva stare bene quando tu eri triste. E come fai a essere felice se io non ci sono, eh, come?»

Distolgo lo sguardo e mi allontano, nascondo la maschera di sensi di colpa. «Tu con me non saresti felice.»

«E invece sì» insiste lui. «Totalmente sì.»

«Ma io no.»

Feliks sgrana gli occhi e socchiude le labbra, travolto da un’espressione sconvolta e arrabbiata allo stesso tempo, come se lo avessi schiaffeggiato a tradimento. «Non saresti felice con me?»

«Non sarei felice pensando di averti portato di nuovo dentro a una vita pericolosa» specifico. «Perché non sarei mai in grado di proteggerti come vorrei.» Scuoto il capo. «Non in queste condizioni.»

Gli occhi di Feliks tornano a riempirsi di dolore e incomprensione. Scivolano di nuovo verso il basso, si perdono nel vuoto, la sua bocca trema. «Ma non è giusto.» Singhiozza, tira su col naso, si strofina il viso anche se non ha ancora versato lacrime. «Non è per niente giusto. Me l’avevi promesso. Me l’avevi promesso che ora noi potevamo stare assieme sempre, che ci saremmo protetti a vicenda. E dopo...» Tiene i pugni stretti, pesta un passo davanti a me e mi fronteggia con i suoi affilati occhi felini. «Dopo tutto quello che lui ti ha fatto, dopo tutti i pericoli in cui Ivan ti ha cacciato...» Trema di rabbia. «Perché continui a preferire lui a me? Anche adesso che è morto!»

Quell’ultima frase si abbatte su di me come un mattone sulle costole. “Anche adesso che è morto”. È vero: Ivan è morto. Morto. Non dovrei più preoccuparmi di lui, dovrei essere felice di sentirmi libero, dovrei provare sollievo davanti al fatto che i Siberian Cubs non esistono più, e invece mi sento più smarrito che mai. Ho addosso questo costante e colloso senso di nausea di cui non riesco a disfarmi, come un abito bagnato che non si sfila dalla pelle. Non avrei mai immaginato che Ivan sarebbe potuto morire, e non avrei mai immaginato che io mi sarei sentito così devastato all’idea di dover vivere senza di lui.

«Feliks.» Gli poso la mano sul tatuaggio, sotto le ciocche di capelli che ricadono sulla spalla, e mi torna in mente la prima volta in cui gliel’ho toccato, quando la sua pelle era ancora rossa, gonfia e bollente, e il nero dell’inchiostro sembrava spingere fuori dal collo per potersi liberare. «Tu hai già corso un grande pericolo solo per stare accanto a me.» Strofino una carezza con il pollice sull’orlo dell’orologio soffocato dal filo spinato. «Tu sei sempre stato il più coraggioso fra noi due, infinitamente più coraggioso di quanto lo sia stato io. Mi hai salvato la vita quando ero in pericolo e quando nessuno sarebbe stato in grado di tirarmi fuori dai guai.» Gli rivolgo un’occhiata più ferma. «Adesso devi permettere a me di salvarti e di proteggerti.»

Feliks corruga di nuovo una faccia imbronciata e scosta il collo dal mio tocco, arretra di un passo. «Guarda che io quella volta non è che ti ho salvato per...» Si morde il labbro e stringe le braccia conserte al petto, fa tamburellare le dita, guarda verso la parete. «Per avere una specie di debito o qualsiasi cosa così. Io l’ho fatto perché ti amo e basta!»

Quel “Ti amo” improvviso affonda nel mio petto e il suo peso bruciante vi rimane come succede ogni volta in cui glielo sento pronunciare. Non merito queste parole. «Io non ti sto abbandonando, Feliks. Lo giuro.»

«Ma allora che senso ha?» esclama lui. «Se io e te non stiamo assieme, che razza di senso ha?»

«Io tornerò, te lo prometto. Tu sei...» Mi avvicino a raccogliergli la mano. La mano calda e sottile che ho tenuto stretta tante volte e da cui avevo promesso non mi sarei mai separato. «Tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata nella mia vita, e non voglio perderti. Questo non è un addio, e non permetterò che lo diventi.» La accosto al mio petto, sopra il cuore che sta ancora battendo. Al contrario di Ivan, io sono sopravvissuto. Il mio tempo non ha cessato di scorrere. «Io e te un giorno ci rincontreremo. E questa è una promessa.»

Feliks singhiozza. Le prime lacrime rotolano dalle palpebre e gli rigano le guance, rendono i suoi occhi così limpidi che potrei guardarci attraverso, fino in fondo all’anima. «E staremo assieme, allora?»

«Sì.» Gli asciugo una lacrima col pollice. Lo stesso gesto con cui era lui a raccogliere il mio pianto. Per la prima volta, sono io a incoraggiare lui, sono io la spalla su cui piangere. «Ti prometto che allora potremo stare assieme e che non ti lascerò mai più. Andremo a passeggiare nei parchi ogni giorno, come facevamo a Londra.»

Le guance di Feliks si fanno più rosee, gli occhi verdi luccicano di speranza e di aspettativa, di una gioia che aspetta solo di fiorire come una primavera rintanata sotto il manto bianco e freddo dell’inverno. «E mi porti anche a fare il bagno?»

Annuisco, trattengo una risata. «Anche a fare il bagno. Al mare, però, e non nel lago dove ci sono le alghe. Andremo assieme in un mare caldo.»

«Promesso?»

«Te lo prometto.» Un groppo di pianto risale la mia gola, trema attraverso le mie labbra, soffoca la voce che diventa un mormorio. «E tu mi prometti che mi aspetterai?»

Feliks annuisce. «Io ti aspetterò anche più di per sempre, ma tu...» Si appoggia a me, mi stringe fra le braccia. «Ma tu non ti dimenticare di me.»

Ricambio l’abbraccio, lo stringo forte a me, le fronti si toccano e il mio sussurro gli intiepidisce la pelle. «Non potrei mai dimenticarmi di te.» Affondo il viso fra i suoi capelli e inspiro forte. Mi inebrio per un’ultima volta del suo profumo di vaniglia, di frutta dolce e di prato fiorito. L’unica consolazione che riesce a rincuorarmi davanti alla prospettiva degli anni di solitudine che mi aspettano.

Feliks singhiozza, stringe le mani sulla mia schiena in quest’ultimo disperato tentativo di trattenermi. «Ti amo.»

Mi coglie un altro sussulto al cuore. Gli occhi si appannano, il viso brucia, il peso sul petto si scioglie e risale le palpebre. Ma non voglio piangere.

Gli stringo una mano fra i capelli, tengo chiuso quest’ultimo abbraccio. «Ti amo anch’io.» Questa volta glielo dico senza timore. Non ho più paura che queste parole lo condannino, che lo imprigionino in un legame che rischierebbe di rovinarlo. Feliks è salvo, il mio dolore non è stato inutile, ma per me la prigionia non è ancora finita.

 

.

 

Allento la presa dalla maniglia della valigia, lasciandola ricadere ai miei piedi. Rimbocco il cappotto, soffio un bianco alito di condensa che si disfa attraverso l’umidità dell’aria, e mi fermo sulla soglia di casa, davanti alla stradina di sterrato su cui cadono i raggi della luna e il riverbero più caldo proveniente dalle finestre delle altre abitazioni. Una distesa color indaco si staglia davanti a me, fino all’orizzonte. Una cascata di stelle sciama nel cielo notturno. La luna pende sul paesino, come un faro, e la sua luce d’argento si specchia sulle tegole ghiacciate, dando l’impressione che siano rivestite di neve appena caduta. Mi avvolge il profumo dell’orto che sta riposando sotto lo strato di brina, quello dei boccioli dei meli che non sono ancora in fiore, e quello del fumo che evapora dai camini delle altre case. Rimbocco la sciarpa sopra la giacca, aggiusto il tessuto sul lato sinistro del collo, in modo da coprire il tatuaggio, e sfilo i guanti dalla tasca. Indosso il primo.

Eduard mi raggiunge, si ferma al mio fianco, rimanendo dentro la luce di casa, senza attraversare l’uscio, e tiene le braccia conserte al petto. Lui e Raivis partiranno domani. «State proprio andando via, eh?»

Indosso l’ultimo guanto e annuisco. «Sì.» Tengo la valigia in equilibrio fra le gambe, sollevo lo sguardo verso le finestre del piano di sopra, verso le luci accese provenienti dalla camera di Natalia. Lei non è ancora scesa, sta sistemando gli ultimi bagagli, o forse sta ancora litigando con Katyusha che non ha mai smesso di implorarla di restare in Siberia. Ma discutere con Natalia è inutile, non c’è niente che la tratterrà. È irremovibile come lo era Ivan.

Anche Eduard solleva lo sguardo, lancia un’occhiata alle scale d’ingresso alle sue spalle, solleva un sopracciglio. «E Feliks?»

Scuoto il capo. «Ci siamo già salutati. E poi...» Mi strofino il braccio, tengo le labbra nascoste sotto la sciarpa, e mi consolo con questo tepore, ora che non potrò più abbracciare quello di Feliks. «Poi sarebbe stata dura per entrambi lasciarci in questa maniera. Abbiamo preferito non rischiare che fosse troppo difficile separarci.»

«Capisco.» Eduard si strofina le braccia come me, sposta il peso da un piede all’altro, compie un paio di passi senza varcare la soglia della casa, rabbrividisce sotto quest’aria fredda che odora di terra indurita dal gelo e di ghiaccio sciolto, e guarda ancora verso le scale, tenendo però gli occhi bassi.

Mi schiarisco la voce, strofino la nuca e mi giro a fronteggiarlo. Non voglio separarmi da lui in questa maniera, come se stessi dando le spalle a un estraneo. «Saluta Raivis, e...» Un nodo di dolore risale la gola. Deglutisco, ma la voce suona di nuovo rauca e appesantita dal fiato che mi strozza. «E di’ a Katyusha che mi dispiace. Mi dispiace tanto per tutto quello che è successo, per tutto quello che le abbiamo fatto passare, e per tutto quello che ci siamo portati dietro da Londra. E che mi dispiace anche per quello che è successo a Ivan.» Intreccio le mani sul grembo, raccolgo un lembo della sciarpa, lo ingarbuglio fra le dita, e sfilaccio il tessuto sotto le unghie. Socchiudo le palpebre per trattenere il bruciore che pesa sugli occhi. «Mi dispiace sul serio.»

Eduard annuisce. Una ruga di dispiacere gli attraversa la fronte. «Rimarrà di nuovo da sola.»

«Già.»

Passi pesanti si spostano dal piano di sopra. La voce di Natalia attraversa le pareti, ovattata, ma non riesco a capire quello che sta dicendo. Quando lei scenderà dovremo partire, dovrò dire addio a Eduard senza la certezza che un giorno ci rivedremo. Non posso andarmene così. Non con questo peso nel cuore.

«Eduard.» Gli cerco lo sguardo. Gli rivolgo le parole più sincere che riesco a trovare davanti a tutta questa situazione. «Mi dispiace per quello che è successo a Londra. Ma in un certo senso...» Stropiccio ancora la sciarpa. «Sono contento di... di avervi incontrati.» Mi stringo nelle spalle, nascondo un tiepido sorriso malinconico che formicola attraverso le labbra. «E se non fosse stato per i Siberian Cubs, noi non...»

Eduard coglie al volo il mio pensiero. Sorride anche lui, sdrammatizza. «Non dispiacerti.» Attraversa l’uscio, scende i tre gradini del portico, e soffia un alito bianco che si squaglia subito contro il suo viso. Si affaccia al cielo notturno, e la distesa di stelle si specchia sulle sue lenti. «Nessuno di noi ha la piena colpa di tutto quello che ci è capitato a Londra, immagino.»

«Ma nessuno di noi è completamente innocente. Perciò cerca...» Annuisco, come per cercare di convincerlo. «Cerca di avere una vita felice da ora in poi. Tu sei in gamba, meriti molto di più rispetto a quello che ti dava Ivan, meriti una vita migliore.» Lo raggiungo con pochi passi. «Promettimi che avrai cura di te. E abbi cura anche di Raivis.»

Eduard annuisce. «Anche tu.» Fa scivolare una mano sulla mia spalla, mi rivolge uno sguardo calmo e rassicurante. «Non ti devi preoccupare di niente, penserò io a tutto, e tu e Natalia sarete al sicuro, farò in modo che nessuno vi crei problemi. Perciò cerca...» Stringe la presa, mi trasmette un’ultima scossa di solidarietà e incoraggiamento. «Cerca di essere felice, ti prego.»

Ricambio quel gesto, poso la mano sulla sua, cancello quell’aria disperata dal mio viso, e gli regalo un ultimo sorriso d’addio. «Ci proverò.» Batto due volte le dita fra le sue nocche, strofino il tocco sul dorso, sulla sua mano magra, ma non lascio la presa, provando di nuovo quella scossetta di paura all’idea di separarmi.

Continuiamo a guardarci. Inspiro, tendo anche l’altro braccio in un ultimo impeto di coraggio, Eduard fa lo stesso, ci urtiamo, ritiriamo assieme il tocco, lui guarda in basso e trattiene una risata nervosa. Mi avvicino di un passo e gli faccio correre le braccia sulle spalle, sposto il capo per non sbattere la fronte sulla sua testa, struscio la tempia sui suoi capelli e accosto il viso al suo profumo. Lo avvolgo in un abbraccio impacciato come questo addio, come se avessimo paura di romperci a vicenda. Eduard stringe le braccia, mi cattura senza timore, il suo corpo irrigidisce, le dita si aggrappano alla mia giacca, e un suo sospiro muore sulla mia spalla.

Gli batto la mano fra le scapole, mormoro accanto all’orecchio. «Grazie per tutto quello che hai sempre fatto per noi.»

Eduard tiene la fronte accostata alla mia spalla e annuisce. «Mi mancherai.» È l’ultimo ricordo che catturo di lui.

Una porta si chiude al piano di sopra, passi rapidi scendono le scale d’ingresso.

Io ed Eduard sciogliamo l’abbraccio, ci stacchiamo, e per poco non inciampo sulla valigia ancora ai miei piedi. Volgiamo lo sguardo in disparte.

Natalia cammina affianco a Eduard, stringe la presa sulla valigia che rimbalza sul suo fianco a ogni passo, rimbocca il cappotto, e mi lancia uno sguardo da sopra la spalla. «Ehi, pivello.» Mi fa un cenno col mento, scende i gradini del portico, imbocca il vialetto. «Ti dai una mossa o no? Guarda che ti lascio qui.»

«Arrivo.» Mi chino a raccogliere la mia valigia con entrambe le mani. Rivolgo a Eduard un ultimo cenno col capo. «Addio, Eduard.»

Eduard sventola un saluto. «Vedrai che ci rivedremo.» Sorride. Un sorriso carico di speranza che mi intiepidisce il cuore. «Un giorno. Sicuramente.»

Annuisco e sorrido. «Un giorno.» Percorro anch’io il vialetto, i passi scricchiolano sullo sterrato incrostato dal ghiaccio, raggiungo Natalia che mi sta aspettando tenendo aperto il cancelletto della staccionata, e mi giro a guardare per un’ultima volta l’isba di legno, le finestre illuminate come in una cartolina di Natale, la cappa di fumo che esce dal comignolo della stufa, i fiori che crescono sul tetto, e il buio e freddo cielo siberiano che mi sto lasciando alle spalle, lo stesso cielo sotto il quale Ivan è vissuto e che lui stesso ha abbandonato per scappare a Londra. Il cielo che forse ora ha accolto la sua anima, concedendogli quella pace che ha rincorso tutta la vita.

Stringo gli occhi, trattengo le lacrime, risucchio tutta la tristezza e il dolore nel petto, perché questo non è un addio, non è un saluto definitivo. Torneremo. Feliks mi aspetterà, e questo pensiero dovrà accompagnarmi e darmi forza nei prossimi anni. Dovrà ricordarmi che anche io ho qualcuno che mi sta aspettando in un luogo chiamato “casa”.

Mi stringo nel cappotto, supero il cancelletto di staccionata, e mi porto al fianco di Natalia, camminiamo entrambi sullo sterrato che scricchiola, sotto le luci delle stelle e delle finestre che proiettano i loro fasci sulla strada, e scaviamo assieme la via che ci guiderà verso la nostra nuova vita.

   
 
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