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Autore: Roiben    13/11/2018    1 recensioni
Che cos'è la devianza? Un semplice virus digitale diffusosi fra gli androidi a seguito di contatti e scambio di dati? Un malfunzionamento patogeno causato da un errore di progettazione? L'evoluzione autonoma di un programma preinserito? O la semplice presa di coscienza della propria esistenza e di un pensiero indipendente?
Come l'hanno percepita gli androidi? E gli esseri umani?
Anche gli androidi hanno dei sogni?
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Connor/RK800, Elijah Kamski, Hank Anderson, Markus/RK200
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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chapter 12. Grey



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DETROIT

Date

NOV 14TH, 2038


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CYBERLIFE TOWER

Belle-Isle

Floor 43

Time

PM 12:49


Elijah indugia ancora un momento sulla sedia, solleva lo sguardo sull’androide e infine si decide. Si alza, gli si fa incontro e attende che Markus ricambi la sua attenzione, prima di parlare.


«Verresti con me?».


Gli occhi di Markus si spalancano di sorpresa. La luce del led lampeggia frenetica d’ambra. Decide.


«Andrei anche all’inferno, pur di uscire da questo posto».


Elijah ride, come potrebbe evitarlo?


«Lo prendo per un sì?» ironizza.


«Prendilo come ti è più consono. Io sarò la tua ombra. Se non altro potrò salvare Connor dalle tue grinfie» pondera.


«Ottimo incentivo» concorda allegramente. «Andiamo, dunque».


Un semplice comando e i blocchi che tenevano fermo Markus scattano lasciandolo finalmente libero di muoversi. Per fortuna è un androide, in caso contrario avrebbe bisogno di un poco di tempo per riattivare la circolazione, dopo essere stato tanto a lungo bloccato a quello scomodo tavolo. Per la prima volta può far spaziare lo sguardo per l’intero locale che, va detto, è molto più ampio di quanto immaginasse. La seconda particolarità che non può non notare, a parte le dimensioni, è il colore: bianco, tutto quanto, persino il pavimento, come una tela grezza tutta da creare, e la sua espressione sorpresa e un po’ allibita si riflette sulle lastre lucide su cui poggiano i suoi piedi, e se guarda in alto non rimangono che pochi scorci di cielo grigio tempesta visibili, il resto è neve… bianca anche quella, ovviamente. Farebbe male agli occhi, se la sua fosse una retina umana. Continua a guardarsi attorno, e il suo sistema lo informa zelante che la pianta della sala ha forma di mezza luna, evidentemente una sezione di torre occupata dagli impianti informatici del gran capo. C’è anche, al centro della curva della parete di fondo, una torre più piccola, quasi una riproduzione su scala dell’edificio in cui si trovano, ma le luci che l’animano senza sosta non sono piccole finestre, più probabilmente si tratta di informazioni e dati inviati agli altri terminali, forse all’intero edificio: deve trattarsi dell’elaboratore centrale e, nota solo a una seconda ispezione, la struttura affonda le sue radici oltre quel piano dal quale spunta solo la sua estremità più alta e appuntita, un po’ come si trattasse di un iceberg.


Kamski si è già mosso; veloce recupera il materiale che potrebbe tornargli utile per Connor e lo accumula sulla scrivania per un secondo momento. Cauto, Markus si fa più vicino e osserva l’uomo intento a scegliere con cura ciò che intende portare con sé.


«Posso… essere utile, in qualche modo?» tentenna indeciso.


Elijah lo soppesa un istante. Annuisce. «Porteremo con noi l’accumulatore. Se quello cui accennava il tenente è corretto, ne avremo certamente un gran bisogno. È difficile riattivare un androide, dopo che la batteria si è esaurita, e ancora più complicato salvare i dati in memoria. Vorrei evitare il problema, se fosse possibile» spiega con pazienza.


Markus annuisce ma rimane in silenzio, aspettando che sia l’umano a decidere come organizzarsi. Il materiale, in poco tempo, è diventato più di quanto si aspettasse in un primo momento. E il suo nervosismo non fa che aumentare con esso. Sussulta, quando la porta del laboratorio si riapre, permettendo l’accesso di Chloe. Elijah le lancia una rapida occhiata, senza fermarsi.


«Si trova in Ontario» anticipa solerte.


«Lo immaginavo. Hai già avvisato il pilota?».


«Sì, è tutto a posto. Ti aspetta».


Chloe sembra d’un tratto accorgersi della presenza di Markus e sofferma su di lui l’attenzione.


«Lui viene con me» la precede Elijah.


Chloe annuisce. «Informerò il pilota anche di questo» annuncia, prima di lasciare nuovamente il laboratorio.


«Andremo in elicottero?» si informa Markus, un poco impensierito.


«Esatto. Non posso permettermi di perdere inutilmente del tempo prezioso a ogni singolo, futile posto di blocco. E il materiale è tanto. Faremo più in fretta in questo modo».


Markus segue con gli occhi gli spostamenti dell’uomo e si sofferma a pensare. Questo Kamski sembra quasi un’altra persona rispetto all’uomo insopportabile seduto sulla sedia girevole e tutto preso a studiare le reazioni di un androide deviante. È preoccupato, non sa più cosa pensare, né cosa aspettarsi, ma spera ugualmente voglia mantenere fede al loro patto perché adesso sa ciò che significa perdere una famiglia, e non reggerebbe a un’altra perdita.


«Ottimo, sono pronto» annuncia Elijah. «Coraggio, amico mio, aiutami a portare sul tetto i bagagli» lo sprona, distogliendolo dai suoi crucci.


*


Markus ed Elijah, seguiti da Chloe, trasportano tutto l’occorrente fino alla piattaforma di decollo posizionata in cima alla torre. Il pilota lascia il velivolo per aiutarli a caricare l’ingombrante bagaglio sull’elicottero. Nevica, di nuovo. La piattaforma, così come la terrazza, sono ingombre della neve che si sta accumulando anche sul velivolo, ma Alex è un pilota in gamba e non si sente per nulla preoccupato per il breve viaggio che lo aspetta fra non molto. Quando tutto è pronto per la partenza, Elijah si volta indietro e regala un piccolo sorriso soddisfatto a Chloe.


«Buon viaggio, Elijah» augura lei.


Lui strizza un occhio e allarga il sorriso. «Lo sarà senz’altro, mia cara. A presto» esclama eccitato.


La osserva affrettarsi al coperto. Torna poi verso il velivolo e fa segno a Markus di salire a bordo, infine prende posto al suo fianco e annuncia al pilota che sono pronti per partire. Alex annuisce soddisfatto e finalmente può avviare il motore del suo Agusta Westland AW109 grigio perla a bande nere e argento. Markus osserva il cielo lattiginoso e la neve che cade lenta, le luci fioche della torre e lo scorrere del Detroit River. In fondo, oltre il fiume, può vedere la sua città, un poco offuscata dal cielo ingombro: una distesa grigia di alti grattacieli al centro che man mano digrada in piccole case monofamiliari. Si chiede con un po’ di tristezza se potrà mai farvi ritorno. Con cura, l’elicottero decolla, sollevandosi lentamente dal tetto della torre creando un piccolo turbine di nevischio e manovra attentamente per distanziarsi e prendere quota. Ma d’un tratto Markus, che sta ancora osservando oltre il vetro dello sportello, sussulta sorpreso e lancia un’esclamazione incredula.


«Che succede?» lo interroga Elijah.


Senza rispondere a parole, Markus fa segno verso l’esterno del velivolo, indicando all’uomo un punto sul tetto della torre che hanno appena distanziato.


«C’è qualcuno!» esclama oltre il pulsante rimbombo dei rotori.


Elijah si affaccia a sua volta osservando oltre il vetro e riesce a individuare ciò che ha attirato l’attenzione di Markus.


«Alex, aspetta» comanda, sgranando gli occhi e fissandoli sulla figura in piedi al limitare del tetto.


«Chi è? Perché è…» prova Markus, confuso.


Alex ha eseguito l’ordine del suo capo e ora tiene l’elicottero librato nel cielo di Detroit, mentre tutti e tre fissano con sorpresa e un po’ di sgomento una figura umana ferma fra la neve e che, a sua volta, punta gli occhi su di loro.


«Ma è… ehm… nudo» prova Alex, rabbrividendo al solo pensiero.


«È un androide. La neve e il vento non lo disturbano» spiega Elijah, con un sorriso da sera della vigilia di Natale impresso in volto.


*


I movimenti delle quattro figure hanno inevitabilmente attratto la sua curiosità; a lungo li ha osservati spostarsi per l’ampio terrazzo, caricare colli piuttosto ingombranti sul velivolo sonnacchioso in attesa sulla piattaforma, separarsi mentre la femmina prendeva la direzione dell’edificio e i restanti individui raggiungevano l’interno dell’elicottero e prendevano quota con insospettabile leggerezza.


La sua inspiegabile curiosità lo ha praticamente obbligato ad avvicinarsi, ma per fare questo è dovuto uscire allo scoperto, permettendo loro di individuarlo abbastanza facilmente sullo sfondo candido della neve che lo circonda.


Ora, senza muoversi né scostare lo sguardo, resta a guardare la lucida livrea del velivolo mentre torna a posarsi al suolo come una libellula di freddo metallo. Due figure, dopo che le pale hanno smesso di girare nell’aria gelata, abbandonano la protezione dell’elicottero e tornano a calcare i piedi sullo scricchiolante suolo. Uno di loro, non lo aveva notato nella precedente ispezione, possiede lo stesso cerchio luminoso che ha lui stesso sulla tempia. Dunque non è l’unica creatura di quel tipo. Di nuovo, per la seconda volta da che ne ha coscienza, le sue labbra si curvano verso il cielo a quella constatazione.


Non è tuttavia il suo simile a farsi avanti per primo; l’altra figura, un poco più bassa, avanza di qualche passo senza smettere di guardarlo. Solleva un braccio, i suoi occhi brillano di qualcosa che non comprende del tutto: meraviglia, forse, ma non ne è certo. Rimane fermo, aspettando di capire cosa farà l’umano (sì, ormai è sicuro che quello senza luce sia come le creature ritratte nelle fotografie). Quest’ultimo, un cauto passo alla volta, continua ad avvicinarglisi, ma quando crede già che non si fermerà fino a che non lo avrà raggiunto e forse toccato, qualcuno riesce a rallentarlo fino a bloccarne l’avanzata, posando una mano sul suo braccio.


*


Elijah solleva un sopracciglio e fissa Markus e la sua mano agganciata al gomito, intenta a trattenerlo.


«Ebbene, qual è il problema?» chiede, pacato e un po’ sorpreso.


«Non sono sicuro che sia un problema» cerca di spiegarsi Markus. «Non hai notato? Lui non si è mosso, né per avvicinarsi né per indietreggiare. Perché? Che cosa aspetta? A cosa pensa?».


Reclina il capo, pensoso. «Credi possa essere un pericolo?».


Markus sbuffa e scrolla le spalle. «Penso sarebbe più prudente accertarsene, prima di invitarlo a bere una birra insieme» brontola, seccato dall’apparente scarsa lungimiranza di quello sciocco.


Elijah rotea gli occhi, quasi annoiato, salvo poi annuire incerto. «D’accordo, ha senso dopo tutto. Si tratta pur sempre di un soggetto sperimentale» concede, divertito dall’occhiata esasperata che gli rifila Markus. «In questo caso, amico mio, prova un po’ a parlare tu con l’RK900. Potrebbe essere la soluzione migliore, in effetti».


Markus ha di nuovo voglia di tirargli il collo. “Il peggior umano di sempre” decreta mentalmente. Tuttavia decide di accontentarlo, almeno per questa volta, e con cautela accorcia le distanze con l’altro androide, tenendolo attentamente d’occhio. Stranamente questi continua a rimanere immobile, spostando solo gli occhi che lo seguono con scrupolosa precisione. “È alto” si rende conto quanto è ormai quasi a ridosso del suo spazio personale. Si sente un po’ nervoso al riguardo, ma l’altro non ha mai fatto cenno di volergli tirare qualche brutto scherzo, si limita a scrutarlo con quella che Markus giudica viva curiosità. Così si decide a parlare, giusto per rompere il ghiaccio.


«Ehm… Ciao, io sono Markus». E si dà uno scappellotto mentale alla pateticità di quel primo tentativo.


L’altro non replica. Sbatte le palpebre una volta, reclina di una frazione infinitesimale il capo di lato, i suoi occhi grigi si spostano lentamente su di lui, sondando la sua figura quasi stesse scansionandolo (eventualità non poi così remota).


«Ehm…» riprova, schiarendosi inutilmente la voce. «Puoi… uhm… parlare?». “Dannazione, perché dev’essere così complicato imbastire una stupida frase lineare?” si rimprovera.


Eppure sa che il problema non è solo l’incertezza, ma anche e soprattutto l’imbarazzo. Ma perché, poi? Non è certo lui quello piantato nel bel mezzo di un cumulo di neve fresca senza nulla addosso tranne qualche candido cristallo di ghiaccio, per la miseria!


Che cosa sei? E io… Che cosa sono, io?”.


Markus sgrana gli occhi e sussulta. Le labbra dell’altro androide sono rimaste pressoché sigillate, ma la sua voce gli è giunta comunque, direttamente alla sua unità cerebrale senza passare per l’impianto uditivo. Meccanicamente si volta un poco e lancia uno sguardo di allarme all’idiota ancora fermo dietro di lui, il quale è troppo intento a bearsi della presenza di due delle sue beneamate unità RK per avvedersi del problema. Soffia uno sbuffo stizzito e torna a dare attenzione alla creatura che si trova di fronte. Gli deve ancora una risposta, dopo tutto.


«Io sono un androide» afferma con pacata sicurezza. «E lo sei anche tu» aggiunge, per quanto attualmente non riesca a sentirsi poi così sicuro.


Androide” soffia la voce mentale dell’RK900.


Markus si limita ad annuire e a forzare un sorriso stento al suo indirizzo.


Non capisco” torna la sua voce, ora insicura.


Stira le labbra in una smorfia scontenta, Markus, osservando lo sguardo confuso che si ritrova di fronte. Fa un passo avanti, e questo gesto attira di nuovo l’attenzione su di sé. È indeciso su come agire; non gli piace l’idea di lasciarlo lì, alla mercé degli umani fuori di testa di quel posto, ma è anche una creatura del tutto singolare e per questo imprevedibile e potenzialmente pericolosa. Come può essere certo di potersi fidare? L’altro androide lo sta fissando, ora, e nei suoi occhi può leggere gli stessi dubbi che lo turbano in quel momento, le stesse paure: nemmeno lui ha motivo di porre la sua fiducia in Markus. Perché dovrebbe? È un perfetto sconosciuto, in fondo. Decide: gli porge una mano e attende che sia l’altro a fare il resto. E quello lo fa: accetta la sua offerta poggiando le dita sul suo palmo aperto. Sussulta e schiude le labbra, impreparato quando il rivestimento sintetico che con tanto impegno ha ricreato sul suo corpo si ritira lasciando la mano scoperta, una mano nella quale si distinguono le giunture meccaniche delle dita e la fredda superficie grigio chiaro.


«È tutto a posto, non preoccuparti» decide allora di rassicurarlo Markus, vedendolo tanto angosciato.


Mentre lo osserva, il led dell’RK900 lampeggia d’ambra e le sue ciglia sfarfallano veloci. Il ricordo di uomini in camice bianco che analizzano dati ed eseguono test attorno a lui lo sorprende con la guardia abbassata e lo fa vibrare di sdegno. Si obbliga comunque a mantenere il contatto, per lasciare il tempo all’altro di farsi un quadro più ampio del suo passato, ma in quel tempo altre informazioni raggiungono la sua unità di analisi e raccolta dati, mostrandogli un giardino curato ad arte, poi di nuovo il laboratorio in cui si accalcano tecnici palesemente ubriachi, corridoi vuoti sorvegliati da telecamere, e… E il contatto decade bruscamente. Markus sgrana gli occhi quanto sente un gemito costernato sgusciare repentino dalle labbra dell’altro androide. Ha evidentemente mostrato troppo; sarebbe stato senz’altro più saggio evitargli il momento della disattivazione.


«Perdonami, mi sono distratto» tenta di giustificarsi, un po’ impacciato e dispiaciuto.


Non sa se la sua idea abbia portato a qualche risultato apprezzabile. Dall’espressione che gli mostra in quel momento, non si direbbe proprio; sembra, anzi, più spaventato di poco prima. Come dargli torto? Sospira, frustrato più che mai.


«Ascolta, non intendevo confonderti maggiormente…». No, così non va. Piano si volta e trova, come del resto si aspettava, Kamski tutto occupato a studiare entrambe le unità con avido interesse. Sospira di nuovo. «Non possiamo lasciarlo qui così» fa presente all’uomo con un sibilo duro.


«Certo che no» replica inaspettatamente Elijah. «Lo porteremo con noi».


  
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