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Autore: Adeia Di Elferas    14/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bartolomeo non era fiero di quel tipo di attacco, ma sapeva che il suo esercito era allo stremo e che cercare di mandare al Creatore il maggior numero di fiorentini possibile era la loro unica possibilità di sopravvivere ancora un po'.

Si parlava di una possibile tregua, ma, di fatto, gli eserciti della Signoria e della Serenissima continuavano a scaramucciare e impegnarsi in piccole battaglie lungo tutti i tratti del confine, con gran scorno delle popolazioni del luogo, che soffrivano più per quel ristagnare di soldati di quanto non avrebbero fatto con una battaglia campale di dimensioni epocali.

Bartolomeo non amava quel modo di fare la guerra. Sapeva combattere in difesa, ma vivere con gli Orsini per anni, gli aveva insegnato ad apprezzare gli affondi e gli attacchi e dunque si sentiva umiliato da quel miserrimo tenere le posizioni.

Venezia era stata incerta, quando lui aveva chiesto ordini precisi e così, senza un chiaro permesso di ripiegare, né approvvigionamenti degni di tal nome, non aveva potuto far altro, per placare la fame dei suoi uomini, se non mettere a sacco Bibbiena e buona parte del pratese.

Bianchino da Pisa, uno dei comandanti di Firenze, era solo finito sulla strada al momento sbagliato.

L'alviano si era confrontato in fretta con Mariano Acio, un altro comandante al soldo di Venezia come lui, ed erano giunti alla conclusione che fosse necessario attaccare Bianchino alle spalle. E così avevano fatto.

Guidando la carica della sua cavalleria, Bartolomeo si lasciò andare a un grido disarticolato. Forse, gli aveva detto il cerusico, la sua lingua non sarebbe mai più tornata quella di una volta. A lui, però, non importava di non riuscire più a parlare in modo scorrevole. La sua spada parlava per lui.

L'impatto con i fiorentini che, vedendosi rincorrere all'improvviso da colonne solide di nemici a cavallo, si erano praticamente abbandonati a una rotta completa, fu violentissimo.

Nella nebbia fredda di quel giorno, il terreno ghiacciato sotto i piedi dei fanti e gli zoccoli dei cavalli si tinse subito di rosso. Bartolomeo colpiva senza quasi ragionare. Era stanco, aveva freddo e fame ed era teso, perché non sapeva come sarebbe finita, quella campagna.

Si concentrò per tutto il tempo solo sugli uomini che si trovava davanti. In sella al suo destriero, mozzò teste e trafisse soldati privi di armatura, colpendoli quasi tutti alla schiena, senza trovare in loro alcuna resistenza.

A un certo punto vide Bianchino da Pisa cadere in terra e poi, aiutato da alcuni dei suoi, riprendere a correre, fino a riuscire a trovare una via di fuga nel bosco.

Quella era un'ottima cosa, per Venezia, e anche per l'Alviano. Tuttavia, quando quella giornata finì e l'uomo poté finalmente sedersi in terra a prendere fiato, il viso coperto di sangue non suo e il braccio della spada che gli doleva, per quanti fendenti aveva calato, si sentì più un boia che non un uomo d'armi, e si vergognò profondamente di sé.

Mariano Acio, vedendolo con gli occhi serrati, mezzo disteso tra l'erba bruciata dal gelo, gli porse una mano e, annuendo gli disse: “Complimenti, Bartolomeo. Questa è stata un'ottima azione. Avete avuto ragione a cercare questo scontro.”

L'Alviano fissò la mano del suo alleato, ma non la strinse, restando dov'era. Sputò in terra un grumo di catarro e sangue, e poi borbottò qualcosa che la lingua impastata gli impedì di articolare abbastanza bene da farsi capire.

Un po' deluso per quell'atteggiamento, Mariano fece un sorriso di circostanza e poi passò a complimentarsi con altri.

Bartolomeo lo squadrò con la coda dell'occhio e biascicò tra sé: “Povero idiota.”, prima di lasciarsi ricadere del tutto al suolo, lo sguardo rivolto al cielo pallido e il cuore che batteva ancora veloce per lo sforzo.

Non capiva come potesse Acio essere davvero esaltato per quella che era stata solo una mattanza che avrebbe dato loro un po' di respiro e qualche misero bottino.

L'Alviano deglutì, cercando di rilassare ogni muscolo, prima di rimettersi in piedi e si chiese se Bartolomea, ovunque fosse, lo stesse guardando.

'Cosa penserai di me?' chiese silenziosamente nella sua mente, con lo stesso tono affranto che avevano avuto i suoi pensieri la mattina che era seguita alle sue nozze con Pantasilea Baglioni. Per lui, combattere a quel modo, era tradire la sua prima moglie così come lo era stato accettare di condividere il letto con quella giovane che la stessa Bartolomea aveva scelto per lui.

“Avanti, tiratevi su...” fece il suo attendente, quando finalmente lo trovò.

In quel caso, Bartolomeo si lasciò aiutare, afferrando il braccio che gli veniva teso e, una volta di nuovo in piedi, disse, parlando lentamente per farsi capire e non inciampare nella sua lingua rovinata: “Seppellite i morti. I nostri e i loro.”

 

Caterina stava bevendo un calice di vino caldo nella stanza delle letture, il suo ricettario tra le mani, intenta a rivedere alcune pozioni che, se lo sentiva, presto sarebbero potute tornare utili.

Si diceva che a Blois la Francia avesse trovato un modo per convincere Firenze e Venezia a trovare un accordo di pace, ma per la Sforza la fine di quella guerra non sarebbe comunque stata vantaggiosa.

Se fino a quel momento aveva temuto il Doge e, a tratti anche di più, la poco chiara alleanza di Lorenzo il Popolano, adesso nel sentir nominare sempre più spesso il re di Francia, e, ancor peggio, il figlio del papa, la Tigre cominciava a capire quale fosse per lei il vero pericolo.

Così si era messa a ripassare accuratamente le sue preparazioni per togliere dolori e infezioni e, soprattutto, quella per addormentare una persona, fino a renderla tanto insensibile da poter addirittura praticare su di essa un intervento senza causarne il risveglio.

“Madre... Madre.” Bianca, che evidentemente la stava cercando da un po', entrò e passò da una richiesta a una specie di saluto, porgendole poi una lettera: “Il castellano mi ha chiesto di darvi questa. È di Pino Numai.”

La Contessa si accigliò, chiedendosi se fosse per caso successo qualcosa a suo figlio Cesare.

Spaventandosi un po' per la propria mancanza di interesse verso quell'eventualità, la ringraziò, tenendo il suo ricettario aperto sulle gambe, e prese la missiva.

Pino le faceva presente che stavano già tornando verso Forlì e che stavano andando a rilento, perché lungo la via si trovavano imbrogli di ogni tipo. Tuttavia, per sicurezza, chiedeva se potessero o meno passare da Bologna, 'stante l'incidente con Annibale Bentivoglio'.

Con un sospiro pesante, la Sforza si alzò, lasciando il ricettario sulla poltrona, e disse alla figlia, che era rimasta in attesa: “Vado a scrivere una risposta. Poi ritorno qui. Devo parlarti di una cosa.”

La ragazza annuì e la Contessa uscì dalla sala delle letture, la missiva di Numai stretta nel pugno.

Ciò di cui voleva discutere con la figlia, era un argomento molto delicato e che le stava a cuore, e non avrebbe voluto farlo quel giorno, tuttavia, dato che alla rocca sembrava esserci abbastanza tranquillo, forse le conveniva cogliere l'occasione. Chissà, forse nei giorni venturi, trovare un attimo di pace in cui discutere con Bianca senza orecchie indiscrete all'ascolto, sarebbe stato molto più complicato.

Arrivata nella sua camera, Caterina si mise alla scrivania e redasse in fretta una lettera per Bologna, indirizzata al cancelliere di Giovanni Bentivoglio. Voleva che si sapesse che suo figlio avrebbe preso una strada secondaria, perché a quel modo, ne era certa, la sua indignazione verso il Bentivoglio, che si ostinava a dichiararla – in realtà non a torto, ma quello poco importava – la colpevole dell'attacco ad Annibale e ai suoi, sarebbe stata ben intesa da tutti.

Così, dopo una breve introduzione, si mise d'impegno per sottolineare con diligenza tutto ciò che le premeva far sapere, ben conscia del fatto che quella, come tutte le lettere spedite in quel periodo a un signore della levatura del Bentivoglio, difficilmente arrivavano al destinatario senza prima essere lette da almeno una dozzina di altri occhi: 'et siando questa dela natura è, che o in lo andare, o nel ritorno potria importare, non mi è parso tacerla. Il che non ho fatto per darli carico, né imputatione, ma per participare le cose mie cum Sua Ecc. et da epsa expectarne debito consiglio et favore, maxime non mi parendo meritare che per li errori havessero factoi li soldati de altri, io o mio fìolo ne portasse interesse et scorno. La M. V. sa quante volte gli ho scrìpto le mie justificatione, et epsa sempre monstrando siano state pocho intese, mi ha dato qualche punctura.'

La Tigre rilesse un momento e poi, cercando di non trascendere oltre, riprese: 'Son viva, et non posso fare non me resenta et tanto più quanto ce vedesse il periculo de mio fiolo. Et perho la M. V. non se persuada l'havi facto per darli gravezza, né per diffidentia habia di quella, ma per obviare a quelle cose che se havessero ad tirare dreto magiori scandali.'.

Chiuse la missiva con un saluto abbastanza profuso, per quanto formale, e poi passò a un nuovo foglio. Già che c'era, voleva scrivere anche al Moro, oltre che, ovviamente, a Numai.

Prima buttò giù un rapido biglietto per Pino, dicendogli di aggirare pure Bologna, senza timore alcuno, e di metterci tutto il tempo necessario.

Non aveva alcuna fretta di riavere Cesare sotto il suo tetto. Anche se fosse ripartito subito, per lei rivederlo sarebbe comunque stato un peso. Quando l'aveva fatto partire, in cuor suo aveva quasi sperato che il ragazzo decidesse, una volta lasciata di Milano, di recarsi direttamente a Roma senza più passare da Forlì. In fondo, i documenti che doveva ritirare, avrebbe potuto farseli recapitare comodamente all'Urbe.

Con un sospiro pesante, la Sforza prese il necessario per un'altra lettera ancora e scrisse a suo zio Ludovico. Lo ringraziò formalmente per l'ospitalità data a Cesare e poi, colta da un dubbio, preferì cautelarsi con un breve inciso.

Per scusarsi in anticipo per qualsiasi cosa avesse fatto suo figlio a Milano – una partenza tanto anticipata le aveva dato da pensare – pregò il Duca di perdonarlo 'si non correspondesse cum li modi convenienti, quella excuserà per essere il primo volo, et allevato comò li scripsi da donne'.

Concluse e siglate tutte e tre le lettere, la Sforza lasciò la sua stanza, cercò il castellano e gliele consegnò, pregando di far partire per prima quella destinata a Pino Numai.

Poi, con passo lento, tornando con la mente al discorso che voleva fare a Bianca, si incamminò di nuovo verso la stanza delle letture.

Voleva parlarle di quello che sarebbe successo se fosse capitato il peggio. Anche se la rocca era sicura, la verità era che avevano pochi fondi e, soprattutto, poche provviste. Se non fossero più riusciti a essere autonomi, avrebbero finito per cadere nelle mani del primo nemico che avesse messo a sacco la città.

Caterina stava già prendendo le sue prime contromisure, ma c'erano evidenze contro cui era difficile lottare.

Lei aveva un esercito invidiabile e aveva pensato, di comune accordo con i suoi Consiglieri più stretti, di provare ad accattivarsi qualche alleato prestando i propri soldati a chi li chiedeva. Non subito, ovviamente, perché prima era necessario che la guerra tra Firenze e Venezia finisse, ma stava comunque già spargendo la voce.

Però, nel frattempo, gli introiti dello Stato erano sempre meno e dagli alleati, come Milano e soprattutto Firenze, era impossibile avere soldi. In più l'eredità di Giovanni era del tutto congelata e i tentativi di contattarlo tramite i suoi legali si stava rivelando un'Odissea.

La Contessa voleva quindi tessere assieme alla figlia un piano sicuro, in modo tale che se avessero fatto in tempo ad accorgersi dell'Apocalisse appena prima del suo scatenarsi, almeno i figli della Leonessa avrebbero potuto salvarsi, portandosi appresso anche il necessario per vivere, almeno per i primi tempi.

Aveva ragionato un po' su cosa farne dei suoi figli, se avesse dovuto trovare un modo per trovare per ciascuno una via di salvezza. Alla fine, l'unico posto che le era venuto in mente, l'unico che in qualche modo, pur se in mano a Ludovico, le dava un minimo di sicurezza, era Milano.

Quando arrivò alla sala della lettura, trovò Bianca con il naso tra le pagine del suo ricettario. Capì, più dal vivace rossore delle sue guance che non da altro, quali ricette stesse passando in rassegna.

La ragazza, accorgendosi a rilento della presenza della madre, chiuse subito il libro di appunti, con tanta fretta da far scivolare fuori un paio di fogli non ancora ricopiati in bella. Chinandosi a recuperarli, la Riario si profuse in mezze scuse e giustificazioni.

“Non ti è vietato leggere il mio ricettario.” si affrettò a dire la Sforza, schiarendosi la voce: “Anzi, se ti interessa, ti prego... Continua pure.”

Bianca parve indecisa. Da un lato era chiaro che volesse continuare a leggere quanto stava divorando con gli occhi fino a poco prima, ma dall'altro era guardinga, come se temesse che quella fosse una sorta di trappola tesa da sua madre.

“Posso davvero?” chiese alla fine, deglutendo.

Caterina fissò la figlia, incrociandone gli occhi blu scuro e infine confermò: “Certo.”

Mentre la giovane si risistemava sulla poltrona, mettendosi a cercare il punto a cui era arrivata poco prima, la Sforza cercò un libro di storia romana nello scaffale e si mise proprio di fronte a lei.

Fingendo di immergersi anch'ella nella lettura – archiviando, almeno per il momento, il discorso che avrebbe voluto farle sui piani per il futuro – la osservò con attenzione da sopra il suo tomo. Non si sorprendeva del suo interesse per quelle ricette che, di fatto, le erano state fino a quel momento tenute nascoste. Quel punto della raccolta era dedicato interamente alle pozioni che anni prima la Contessa aveva ideato e perfezionato al solo fine di rendere più piacevoli e intense le sue notti con Giacomo.

Lasciando che un pensiero tirasse l'altro, alla fine la Tigre richiuse il suo tomo di storia militare e disse, con voce abbastanza neutra: “Se non hai di meglio da fare, appena avrò tempo verresti nel mio laboratorio assieme a me?”

Bianca sollevò lo sguardo dal ricettario e, un po' tesa, annuì: “Certo, madre.”

“Bene.” sospirò lei: “Devo... Devo parlarti di una pozione che... Be', ne parleremo quando ce ne occuperemo.”

La Riario non fece domande e Caterina, pregandola solo di rimettere il ricettario nella sua stanza, quando avesse finito, lasciò la sala delle armi e andò al cantiere della cittadella. Se per il momento non aveva trovato il modo di discutere un piano di fuga per i suoi figli, da mettere in atto solo in caso di stretta necessità, almeno voleva rendersi utile migliorando la difesa della città.

Dapprima controllò se la costruzione stesse seguendo il progetto e poi, quasi a volersi sottrarre dalla costante vista del Paradiso, che lì, immoto e silenzioso, pareva volerle ricordare a tutti i costi un passato che non sarebbe mai tornato, decise di fare qualcosa di più costruttivo.

Come fosse stato un manovale qualunque, sotto gli occhi, ormai abituati a certi spettacoli, degli operai, la Sforza cominciò ad aiutare gli uomini a spostare i sacchi di pietre, a issare travi e a picchiare martellate, arrivando a sera tanto sfinita da non riuscire – come si era augurata – a far altro se non dormire fino al mattino dopo.

 

Dionigi Naldi si toccò il collo, laddove il ferro del fiorentino, a cui era sfuggito per un soffio, l'aveva lambito.

Ormai si stava formando un po' di crosta, ma poteva ancora sentire benissimo la sensazione gelida della spada e poi, subito dopo, quella rovente del sangue. Era stato molto peggio, rispetto a quando veniva ferito in battaglia, perché sul campo un soldato si aspetta i colpi del nemico, ma nell'accampamento dei suoi alleati no.

Non aveva capito molto di quanto era successo, ma era riuscito a mettersi in salvo. Era rimasto isolato e, in tutta onestà, non sapeva più cosa aspettarsi e di chi fidarsi. Aveva perso la strada e non sapeva di preciso dove fosse. Non aveva nemmeno capito perché quei fiorentini gli si erano avventati contro a quel modo.

L'avevano avvicinato, una sera, mentre stava tornando al suo padiglione, e gli avevano chiesto se fosse Dionigi Naldi, uomo al servizio della Tigre di Forlì. Egli, un po' sorpreso nel vedersi porre quella domanda, convinto che tutti i suoi soldati lo conoscessero, aveva capito troppo tardi che quelli non erano uomini al suo servizio.

“Alle Stinche! Assassino! Alle Stinche!” avevano gridato, appena lui aveva annuito, e avevano cercato di prenderlo.

Si era messo a correre, chiedendosi che c'entrassero le carceri di Firenze con lui, e, nel buio, aveva lasciato i suoi uomini e aveva perso l'orientamento.

Aveva camminato quasi senza sosta per due giorni e poi si era ritrovato finalmente vicino a una cittadina. Era stanco, affamato e stremato. Però aveva paura a dire chi fosse e chi cercasse. Avrebbe voluto poter chiedere la strada per Forlì, ma temeva di essere riconosciuto. Non sapendo chi lo volesse morto, non sapeva nemmeno da chi guardarsi.

Alla fine, vinto dalla disperazione, raggiunse una locanda poco lontana dalle mura e, approfittando del fatto che fosse molto affollata, si finse uno straccione e chiese all'oste dove fossero e poi, se fosse possibile avere qualcosa da bere e da mangiare.

L'uomo gli disse che erano alle porte di Sant'Angelo, e poi lo squadrò con attenzione. Aveva riconosciuto gli abiti di foggia militare e non gli era sfuggita nemmeno la fibbia d'oro del suo mantello, né la ferita – per quanto superficiale e rimarginata – sul collo. Aveva capito subito che quello che chiedeva l'elemosina era solo un disertore e, dall'accento molto marcato e riconoscibile, un disertore della zona di Forlì, quindi, con ogni probabilità, al soldo della Sforza.

Gli disse di sistemarsi e poi, dopo avergli portato del vino e della zuppa di verdure, l'uomo chiese alla moglie di badare lei alla locanda per un po' e sparì.

Quando dalla porta entrò un manipolo di soldati con lo stemma dei Feltre impresso sulle corazze, Dionigi, che aveva appena finito di riempirsi la pancia, capì subito di essere un uomo finito.

Prima ancora che l'oste lo indicasse agli armigeri, Naldi si alzò dalla panca e cercò di svignarsela, sgusciando tra i nemici, ma questi, afferrandolo con decisione, lo stordirono con un paio di pugni ferrati e in men che non si dica lo condussero fuori dall'osteria, fino in città, in attesa di ordini.

Prima di sera, si decise di portare il prigioniero a Urbino, affinché venisse tenuto in custodia nelle segrete del castello.

 

Giovannino, forte dei suoi dieci mesi che stavano per diventare undici, era in braccio alla madre e indicava con un sorriso entusiasta stampato sul viso un elmo che stava posato sul tavolo. La Leonessa si spostò un po', immersa in un discorso abbastanza acceso, e così l'attenzione del piccolo passò in fretta dall'elmo a una freccia un po' rovinata, messa tra quelle da rigenerare.

La sala delle armi era abbastanza tranquilla e Caterina, che era stata fino a poco prima nella stanza dei giochi con il figlio più piccolo e con Bianca, vi si era recata per discutere di alcune faccende con il Primo Capitano delle Guardie.

Maldenti aveva risposto a tutte le domande della donna, occhieggiando di quando in quando verso il bambino e restando del tutto basito quando vide la donna permettergli di prendere tra le mani una freccia.

“Altrimenti non si calma.” aveva tagliato corto la Tigre, come a difendersi per lo sguardo sconvolto del soldato.

Il Capitano delle Guardie aveva cercato di fare un sorriso d'assenso, ma era rimasto come ipnotizzato dalle piccole mani di Giovannino, che si passavano l'un l'altra la freccia di continuo, come se fosse realmente la cosa più divertente del mondo.

“Allora, siamo d'accordo?” chiese alla fine Caterina, mentre il figlio si passava noncurante l'impennaggio e poi la cocca della freccia sulla guancia, trattenendo a stento una piccola risata legata al solletico.

Maldenti annuì secco, ma soggiunse: “Mia signora, non vorrei dirvelo, ma anche questo mesi ci sono ritardi nelle paghe e, insomma, non vorrei che i soldati finissero per risentirsene.”

La Contessa si passò la lingua sulle labbra e, sollevando un sopracciglio, ammise: “Ho già fatto presente al Consiglio che la priorità è pagare l'esercito. I soldati sono fedeli e tranquilli, ma solo finché avranno la loro giusta paga. Ho ordinato di distrarre parte dei soldi destinati all'amministrazione verso l'esercito. Confido che già domani gli arretrati verranno pagati a chi li attende.”

Il Capitano delle Guardie, rassicurato da quella promessa, chinò il capo e disse: “Siete molto saggia e l'esercito vi seguirà sempre, mia signora, perfino all'inferno, se lo voleste finanche dinnanzi a Lucifero in persona.”

“Mi auguro che non sia necessario arrivare tanto giù.” fece la Sforza, con un mezzo sorriso: “Mi fermerei qualche girone prima, se fosse possibile.”

Maldenti ricambiò il sorriso e, con i nuovi ordini che frullavano in testa – tutti volti a una maggiore sicurezza non solo in città, ma anche nelle campagne – lasciò la sala delle armi.

Assecondando Giovannino che, dopo aver giocato con la freccia, stava indicando uno degli scudi appoggiati all'armario, la Contessa vagò per un po' per la sala, lasciandogli toccare quasi tutte le armi che voleva, mettendosi anche a spiegargli come si usassero e in che occasioni.

Era troppo, sperare che la capisse a fondo, ma lo sguardo rapito del bambino davanti alle spade e alle armature fu per la donna un'autentica soddisfazione. Avrebbe provato a farne un uomo colto, un letterato, com'era stato suo padre Giovanni, ma, se per caso non ci fosse riuscita, cominciava a credere che il mestiere delle armi sarebbe stato un buon ripiego, così come lo stava diventando per Galeazzo.

“Mia signora...” il maestro d'armi era appena entrato con un paio di corazzine in spalla, e, quando si accorse che la Tigre aveva in braccio il piccolo Medici – che in quel mentre stava balbettando qualche sillaba, la manina tesa verso una balestra – si sentì in dovere di commentare: “Perdonatemi se lo chiedo, ma... Insomma, questo vi pare un luogo adatto a un bambino tanto piccolo?”

Caterina, che non aveva mai sopportato il tono paternalistico che certi uomini sembravano sentirsi in obbligo di usare con lei, si indispettì per quella domanda e ribatté: “Per un bambino qualsiasi non lo so. Ma per mio figlio sì.”

L'uomo comprese il suo passo falso e così cercò di rimediare scusandosi e andando avanti a fare il suo lavoro.

La Sforza, tuttavia, voleva fargli da qualche giorno una domanda importante e, dato che in quel momento, oltre a loro, nella sala delle armi c'erano solo un paio di soldati che indossavano l'armatura per iniziare il turno di guardia, decise di farsi avanti.

Si avvicinò al maestro d'armi, che aveva appena posato le corazzine sul tavolone. Fece sedere sul ripiano di legno Giovannino, tenendolo sempre, per paura che cadesse, e poi guardò a lungo il suo sottoposto, finché l'uomo non capì e smise di trafficare con i pezzi d'armatura.

“Se vi ponessi un quesito di vitale importanza, per me, voi rispondereste in tutta onestà, anche a costo di dirmi cosa sgradita?” chiese la donna, abbassando un momento lo sguardo.

L'altro si schiarì la voce. Sapeva quanto fosse rischioso, avere a che fare in modo così diretto con la Tigre. Lui era sempre stato un fedele servitore della Contessa Sforza, ma la premessa di quella domanda già lo poneva in una posizione delicata.

“Ovviamente, mia signora.” rispose, comunque, senza altri indugi.

“Ecco...” la milanese sospirò e poi, fissando Giovannino e accigliandosi, chiese: “Credete che mio figlio Galeazzo potrebbe essere pronto per avere un incarico ufficiale?”

“Come una carica da scudiero o attendente?” domandò il maestro d'armi, di rimando.

La Tigre puntò le sue iridi verdi in quelle scure dell'uomo e rispose: “Come una condotta.”

“Mia signora, vostro figlio non ha nemmeno compito quattordici anni.” fece, cauto, il maestro d'armi.

“Credete sia necessario ricordarmi l'età di mio figlio?” ribatté la donna, cercando, però, di calmarsi subito: “Non una condotta nell'immediato. Magari per la prossima estate.”

Capendo che la sua signora non scherzava, anzi, che era terribilmente seria, tanto da apparire quasi spaventata da quell'idea che, però, evidentemente doveva avere un senso, nel suo piano d'azione, l'uomo si schiarì la voce un paio di volte e poi tentò di dare la sua valutazione nel modo più oggettivo possibile: “A patto che non gli venisse dato un incarico troppo gravoso, credo che vostro figlio Galeazzo potrebbe avere una condotta per almeno una cinquantina di fanti, sì. Sempre che per lui non ci sia una scelta di vita migliore.”

“Voi...” riprese Caterina, accarezzando Giovannino che, apparentemente molto interessato al discorso, che di certo non capiva, restava in silenzio, concentrato ora sulla madre ora sul maestro d'armi: “Ecco, voi credete che potrebbe reggere, sia come mente sia come fisico?”

“Vostro figlio è un ragazzino, questo lo sapete meglio di me. Però ammetto che ha una tenuta mentale e fisica invidiabili. Se solo potesse avere almeno ancora un anno, per riuscire a irrobustirsi, allora vi direi di cercargli una condotta anche dubito. Adesso, ovviamente, la cosa è molto più rischiosa.”

“Ma non infattibile, da come mi parlate.” fece notare la Contessa.

L'uomo si morse il labbro e poi ammise: “No, non infattibile. Anche se molto rischioso.”

“Grazie. Il vostro parere mi è stato molto utile.” concluse la Leonessa, riprendendo in braccio il figlio e andando verso l'uscita della sala delle armi.

L'altro la guardò fino a che poté vederla e poi, tornando alle sue corazzine, cominciò a sudare freddo. Non gli era piaciuto né l'argomento né il tono con cui ne avevano parlato. Se la Tigre stava valutando l'ipotesi di far avere una condotta al suo figlio prediletto, significava che qualche tempesta molto più violenta di quelle abbattutesi fin'ora stava per colpire il loro Stato.

“Che Dio ci aiuti...” sussurrò l'uomo, staccando con un colpo netto una cinghietta di cuoio rovinata da uno dei due pezzi d'armatura: “Che Dio ci aiuti...”

 

 

 
   
 
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